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(20 Giugno 2018)
L’attuale attacco al diritto di sciopero è uno dei temi che, di qui ai prossimi mesi, intendiamo sviscerare meglio. Senza sganciarlo, ovviamente, dal contesto in cui s’inserisce, che è quello di una più generale iniziativa del padronato, volta a modificare a proprio favore i rapporti tra le classi. In quest’ottica, abbiamo trovato un interlocutore prezioso in Luca Scacchi, ricercatore all’Università d’Aosta, attivo sindacalmente nella FLC-Cgil e membro del Comitato direttivo della Cgil, in cui fa parte dell'area programmatica di opposizione "Il sindacato è un'altra cosa”. Nelle sue parole emergono chiaramente i tratti distintivi di un'offensiva contro la classe lavoratrice che, certo, ha registrato una parziale frenata, in seguito a lotte che si sono contrapposte alla carica lanciata dal governo Renzi, ma che potrebbe riprendere vigore con l’attuale esecutivo, dal carattere marcatamente reazionario. Per questo è necessario reagire, utilizzando con vigore un diritto, lo sciopero, che si difende anzitutto mettendolo in pratica. Di più, Scacchi spiega limpidamente quanto il superamento del particolarismo di tanto sindacalismo conflittuale sia una delle condizione necessarie per dare avvio a una nuova stagione conflittuale.
Nelle settimane immediatamente successive alla tornata elettorale del 4 marzo, su diversi quotidiani, tra i quali Il Messaggero di Roma, sono comparsi articoli incentrati sulla necessità di nuove normative anti-sciopero. Su questo piano, stiamo per approssimarci alla stretta finale?
Ci troviamo di fronte alla ripresa di un’offensiva padronale a tutto campo.
Una ripresa, perché negli ultimi anni le difficoltà e la crisi di consenso del governo Renzi (dopo Jobs Act, Buona Scuola e referendum Costituzionale) avevano oggettivamente rallentato lo slancio con cui la Confindustria (e tutto il capitale italiano) volevano smantellare i diritti, i salari e il sistema contrattuale nazionale. Ci collochiamo, infatti, in una crisi lunga, profonda e generale, ben lontana dall’esser passata. Il padronato si è diviso in molte frazioni e componenti (le grandi imprese nostrane, quelle straniere in Italia e quelle inglobate in multinazionali, anche con posizioni di rilievo; le medie in crescita e le piccole diffuse; quelle centrate sulle esportazioni e quelle sui mercati locali; quelle monopolistiche e quelle in competizione; manifatturiere e commerciali; ecc ): ognuna segue le proprie strategie di sopravvivenza, ognuna cerca le proprie strade per aumentare i margini di profitto e sfruttare la sua manodopera (allargando o riducendo la produzione, intensificando o dilatando lo sfruttamento, investendo sulla tecnologia o riducendo la propria esposizione finanziaria; ecc). Con la crisi è quindi definitivamente imploso ogni baricentro del capitale italiano: non c’è più un “salotto buono”, in grado di dare e all’occorrenza d’imporre un asse di regolazione al sistema produttivo ed al lavoro in questo paese. In questo quadro, le offensive, le resistenze, i punti di tenuta e di caduta dello scontro di classe si sono diversificati e scomposti: contratto per contratto, settore per settore, azienda per azienda. È anche per questo che si sono moltiplicati esponenzialmente i contratti e che risulta così difficile ricomporre e riunire le lotte (che spesso esplodono in momenti diversi, con dinamiche diverse, su elementi diversi). Per non dire di quanto sia difficile l’emergere un ciclo conflittuale in grado di generalizzarsi e di dare il segno della ripresa di una nuova stagione. In questo quadro complicato, negli ultimi anni è stata spesso la politica ad offrire al padronato il terreno su cui ricomporsi e condurre un’offensiva in grado di modificare i rapporti di forza generali tra le classi. È il caso del Jobs Act, punta di lancia di un’offensiva generale a favore delle imprese, contro il sindacato, i diritti dei lavoratori e delle lavoratrici. Ed infine anche contro il diritto di sciopero (a partire dal caso “costruito” delle assemblee al Colosseo ed ai Fori, su cui fu sviluppata una vera e propria campagna mediatica e politica da Renzi e dal PD). In quel quadro, tutto il padronato ha intravisto la possibilità di generalizzare il modello Marchionne, di aziendalizzare contratti e diritti, di subordinare definitivamente il sindacato agli interessi dell’impresa. Soprattutto di rendere facilmente variabili orari e salari nominali: l’obiettivo infatti è quello di cambiare la stessa struttura degli orari di lavoro e degli stipendi, inserendo meccanismi che li rendono strettamente collegati alle necessità produttive, modulandoli quindi al ribasso o al rialzo secondo la contingenza (straordinari obbligatori, estensione della multiperiodalità, salari accessori costruiti su presenza, produttività e prestazioni individuali, di squadra e di stabilimento; ecc). Un paio di anni fa si è provato pure a cancellare i contratti nazionali, cercando di proporre un unico livello contrattuale, a scelta (nazionale o aziendale, a seconda delle condizioni dell’impresa). Era quella la proposta con cui si presentò e fu eletto Boccia come presidente di Confindustria, era ciò che si mise sul tavolo all’avvio della nuova stagione contrattuale.
Tuttavia, a quel punto non ci si è ancora arrivati…
Sono stati il movimento di massa contro la Buona Scuola, la crescita del dissenso e il moltiplicarsi della critica nei confronti di Renzi, che hanno tolto fiato e prospettiva a quell’offensiva. Il padronato ha cambiato passo ed ha gestito la stagione dei rinnovi mirando a contenere gli aumenti nazionali e a sfondare sul piano dell’organizzazione e dei tempi di lavoro (in ogni contratto, in modi diversi). Solo Federmeccanica, sino alla fine, ha provato ad insistere nell’offensiva (cercando di dare gli aumenti nazionali solo ad una parte molto ristretta della categoria, facendo così saltare di fatto la logica universale dei ccnl) ed alla fine ha comunque quasi prefigurato un nuovo modello contrattuale. con aumenti livellati quasi a zero - 1,70 euro lordi mensili nel 2017 - ed il welfare contrattuale inserito nel trattamento economico. Un modello poi generalizzato con l’accordo del 9 marzo 2018. Le elezioni del 4 marzo cui vi riferivate, però, secondo me hanno nuovamente cambiato il quadro generale. I risultati che ne sono usciti non sono una sorpresa, ma consolidano le tendenze di questi anni: c’è stata una saldatura tra classi subalterne e movimenti politici reazionari (la Lega di Salvini ed i 5stelle, centrati su due rappresentazioni comunitarie della società e della politica). Queste forze sono oggi maggioranza nel Parlamento, hanno formato un governo comune, sono capaci di costruire egemonia e senso comune intorno alle loro rappresentazioni sociali. E’ il terreno ideale in cui si può ricomporre il padronato e procedere ad una nuova offensiva, superando anche i fragili assetti disegnati dal ccnl dei metalmeccanici e dall’accordo del marzo 2018 (che, da questo punto di vista, è probabilmente nato morto). In conclusione, non penso che stiamo approssimandoci ad una particolare stretta finale sul fronte degli scioperi, quanto ad una ripresa più generale di un’offensiva contro il lavoro, i salari e diritti. Di questa offensiva, ovviamente, i diritti sindacali sono uno dei terreni di scontro. I pennivendoli più accorti hanno sentito il vento che si sta alzando, si sono messi quindi in scia e ne hanno preparato il terreno sul piano dell’informazione. Non tanto una stretta finale, allora, quanto forse solo il tentativo di costruire le condizioni per la ripresa di un’offensiva generale, che in questo quadro rischia di travolgere non solo il diritto di sciopero, ma anche se non soprattutto la struttura dei salari e dei contratti nazionali, le condizioni di vita di tutti i lavoratori e le lavoratrici.
In questo quadro, sarebbe da collocare un fatto: ancora in assenza di un esecutivo, la Commissione di Garanzia ha assestato un colpo al diritto di sciopero nel trasporto pubblico locale, aumentando i termini della rarefazione oggettiva, ossia l'arco temporale tra uno sciopero e l'altro (che passa a 20 giorni prima e 20 dopo, dai precedenti 10). S’è trattato di un portarsi avanti col lavoro, indicando una strada a governo e legislatori?
Si. È il tentativo di un apparato dello stato di indicare un possibile saliente di questa offensiva. Non sono solo i pennivendoli di regime ad accorgersi del vento che soffia e a mettersi in scia. Sono anche burocrati e funzionari del capitale. La Commissione di Garanzia ha subito colto il cambio di maggioranza del paese e del Parlamento. Ha intravisto una possibilità. Non solo di agire una stretta in assenza di un chiaro potere politico, ma anche di indicargli la strada. Non solo e non tanto per diradare l’arco temporale degli scioperi in un particolare settore (il trasporto pubblico). Io penso che l’obbiettivo sia stato soprattutto quello di sottolineare (negli atti, ma anche con le argomentazioni e le interviste) la necessità di intervenire contro sindacati piccoli e piccolissimi che costringono a queste misure, perché moltiplicano gli scioperi ed i conseguenti “effetti annuncio”. Lo scopo di questa campagna non è allora tanto quella di ridurre gli scioperi, quanto quello di porre con evidenza pubblica la necessità di trasformare il diritto di sciopero da individuale a collettivo. Cioè imbrigliarlo e controllarlo all’interno di meccanismi di verifica e rappresentanza come quello del Testo Unico del 10 gennaio. In questo modo si trasferisce la titolarità dei diritti sindacali dai lavoratori e le lavoratrici alle diverse organizzazioni sindacali. E poi magari solo ad alcune organizzazioni: quelle più grandi; o quelle che firmano i contratti; o, ancora, come in FCA solo quelle che si subordinano alle priorità e all’egemonia degli interessi aziendali. E’ un vero e proprio tentativo di indicare la strada: o meglio, è un’operazione utile a costruire il terreno per sviluppare poi un’offensiva più generale.
In tutto questo, la CGIL ha responsabilità gravissime. Non solo e non tanto nella risposta a questo singolo provvedimento. E neppure per il sostegno che, negli anni scorsi, ha dato alla logica e la prassi del Testo Unico, che sottende a questa campagna. La responsabilità più grave è quella di aver contribuito, irresponsabilmente e con un ruolo decisivo, a questo arretramento dei rapporti di forza generali tra le classi, a questa involuzione della coscienza politica diffusa: interrompendo le lotte e le mobilitazioni di massa (Jobs Act, pensioni, leggi di stabilità) e accettando il cambio di passo confindustriale con una stagione contrattuale al ribasso. In questo senso, disastrosa è stata la FIOM, che da principale punto di resistenza è passata, nel silenzio basito di tutta la sinistra, ad accettare passivamente il peggior contratto tra tutti, ed il peggiore della sua storia, tale da permettere al padronato di consolidare le sue posizioni. Per paura delle compatibilità, per non rompere definitivamente il suo rapporto con il PD ed il centrosinistra, la CGIL ha rinunciato a resistere e si è accontentata di abbozzare, di arretrare progressivamente, permettendo lo sfondamento padronale in primo luogo nella coscienza di massa. Questa è la sua responsabilità principale. Ma è colpevole anche, ovviamente, sul terreno del diritto di sciopero.
Tu conosci bene il mondo della scuola, che in questi anni è stato teatro di quelle grandi mobilitazioni che, come hai spiegato, hanno contribuito ad arginare l’iniziativa filo-padronale dell’esecutivo Renzi. In questo settore, la l. 146 sullo sciopero nei servizi essenziali, presenta specifiche modalità di applicazione, con differenze tra il personale ATA e i docenti...
Va precisato che io, per motivi di lavoro, ho un rapporto più diretto con quanto accade all'università. E certo, anche lì la legge sui servizi essenziali ha colpito, limitando ed impedendo lo sviluppo delle lotte (come hanno fatto anche altri processi, per esempio, negli Atenei, l’affidamento esterno di una serie di servizi, come le portinerie, che ha impedito alle lotte di incidere come una volta). Anche se poi proprio in università vediamo che la stessa Commissione di Garanzia con i professori è stata molto meno rigida e pignola che in altri settori, permettendo sugli esami universitari forme di sciopero “diffuso” su un ampio periodo di tempo; non dimentichiamo che una sessione di esame può durare anche tre mesi. Quasi che una giustizia differenziata, con pesi e misure diverse a seconda del lavoro che si svolge e della classe sociale di appartenenza, si sia realizzata anche in materia di diritto di sciopero.
Comunque, ovviamente, stando in una categoria generale della conoscenza come la FLC, conosco anche il mondo della scuola, nel quale intervengo. In fondo, la legge 146 ha proprio nella scuola una delle sue radici. L’esigenza di una legge di regolazione (e contenimento) dello sciopero fu imposta, non casualmente, subito dopo la vittoria del blocco degli scrutini nel 1987/88 (la conquista del tetto dei 25 alunni per classe, le 30mila stabilizzazioni ed uno dei maggiori aumenti contrattuali della storia). Davanti a quella débâcle, giudiziaria e sindacale, per il governo e il padronato, ed alla diffusione poi anche nei trasporti, in particolare tra i ferrovieri e gli autoferrotranvieri, di un simile ciclo di lotte , arriva quindi la legge 146 del 1990. Invece che la precettazione di massa e la strada giudiziaria, che aveva mostrato serie problematiche legali e politiche, sono state limitate a priori durata e incidenza degli scioperi, allargando a dismisura il concetto di servizio essenziale. Proprio a partire dalla scuola. Non esclusivamente in rapporto agli scrutini, ma in merito al servizio scolastico in generale. E, certo, differenziando personale ATA e docenti, non solo nel diritto di sciopero, ma anche nella fruizione di una serie di diritti sindacali (per esempio, anche in relazione alla possibilità di partecipare alle assemblee). Solamente per il personale educativo e ATA, infatti, è definito, nella contrattazione d’istituto, un quadro di prestazioni minime indispensabili e contingenti (vigilanza sui minori durante il servizio di refezione; vigilanza impianti e apparecchiature, ove si possono prevedere danni; cura degli animali in istituti agricoli; raccolta e allontanamento rifiuti tossici e nocivi; adempimenti rivolti ad assicurare il pagamento di stipendi e pensioni; servizi indispensabili negli educandati come cucina, mensa e vigilanza notturna sugli allievi). Per gli insegnanti, invece, queste prestazioni essenziali sono limitate esclusivamente all’effettuazione degli scrutini ed esami, con particolare riferimento agli esami finali.
E rispetto all'annosa questione della legittimità o meno dell'intervento della Commissione di Garanzia contro il blocco degli scrutini cosa ci puoi dire?
La questione in realtà non è poi così “annosa” o, almeno, non risulta indecifrabile o complicata.
Quello che rendeva così significativo lo sciopero degli scrutini era il suo prolungamento: la possibilità cioè, senza particolari sforzi ma solo con una buona organizzazione ed un certo consenso, di bloccarli per molto tempo. Uno scrutinio, infatti, per legge deve esser svolto da un cosiddetto “collegio perfetto”, cioè alla presenza di tutti gli insegnanti, altrimenti non è valido; infatti se qualcuno è malato o assente per cause di forza maggiore, è sostituito da un supplente. In caso di sciopero, in cui la legge vieta esplicitamente le sostituzioni, allora è sufficiente l’astensione dal lavoro di un unico insegnante per bloccare tutti gli scrutini di una classe. Quindi, con un meccanismo a rotazione (e la costruzione di casse di resistenza per suddividerne l’onere), in teoria è possibile prolungarlo all’infinito senza particolari difficoltà.
La legge 146 ha quindi inserito l’istruzione tra i servizi pubblici essenziali (art 1, comma 1), prevedendo poi al comma 2 (lettera d), “l’esigenza di assicurare la continuità dei servizi degli asili nido, delle scuole materne e delle scuole elementari, nonché lo svolgimento degli scrutini finali e degli esami, e l'istruzione universitaria, con particolare riferimento agli esami conclusivi dei cicli di istruzione”. La stessa Legge 146, all’art 2, rimanda poi la “definizione delle prestazioni indispensabili, le modalità e le procedure di erogazione e le altre misure”, dirette a consentire i servizi pubblici essenziali, ai contratti o a specifici accordi sindacali.
In prima battuta CGIL CISL UIL hanno sottoscritto un protocollo d’intesa il 25 luglio 1991. Alcuni docenti che scioperarono durante gli scrutini del 1992 (appartenenti alla GILDA di Milano) aprirono quindi una lunga battaglia giudiziaria contro la precettazione e le sanzioni che ricevettero in merito. Una battaglia giudiziaria che alla fine vinsero, sia per un vizio procedurale (non ci fu il tentativo di conciliazione tra le parti, obbligatorio proprio ai sensi dell’art 2, comma 2, della legge 146), sia perché i giudici non considerarono lo sciopero in tale ambito del tutto vietato, dovendo comunque accertarsi di volta in volta anche il carattere indifferibile delle prestazioni (sentenza della Corte di Cassazione depositata il 6/11/98).
In ogni caso, il 26 maggio 1999 è stato siglato un nuovo contratto che ha regolamentato gli scioperi nella scuola, compreso quelli degli scrutini (e la successiva legge 83 del 2000, che modifica ed integra la legge 146/90, ha infine “armonizzato” il tutto). In questo quadro, gli scioperi nella scuola, quelli degli scrutini compresi, non possono durare più di due giorni consecutivi e tra un’azione di lotta e la successiva deve intercorrere un intervallo di tempo non inferiore a dieci giorni. Inoltre, gli scioperi degli scrutini non devono comportare un differimento della conclusione delle operazioni ad essi legati superiore a 5 giorni rispetto alle scadenze fissate dal calendario scolastico. In ogni caso non possono esser differiti, gli scrutini, quando l’attività valutativa sia propedeutica allo svolgimento di esami conclusivi dei cicli d’istruzione (e ovviamente gli scioperi non possono riguardare lo svolgimento degli stessi esami finali, considerati servizi minimi essenziali).
A questo punto, gli scioperi degli scrutini si possono legittimamente fare e infatti si fanno, senza possibilità di discussione se non per inutili polemiche ideologiche (ne furono proclamati anche durante la battaglia contro la Buona Scuola). Però, e questo è altrettanto evidente e chiaro a tutti i soggetti in campo, tale modalità di sciopero è oggi limitata, perché non sono più legittimi scioperi prolungati. Attenzione, non sto dicendo che sono inutili: gli scioperi degli scrutini rimangono un atto politico significativo, sollevando anche grandi discussioni e polemiche (anche per una vaga rimembranza, una sorta di lungo effetto inerziale, degli scioperi “veri” del 1987/88). Ma se stanno nell’alveo di quanto previsto dalla legge, presentano una forza ed una valenza molto limitate.
A questo punto, comunque, la discussione non è più se lo sciopero degli scrutini sia legittimo oppure no. La discussione è di altro tipo, se si vuole rispettare questi limiti o se si ritiene necessario superarli (come talvolta è avvenuto ed avviene anche nei trasporti, ricordo ad esempio lo sciopero improvviso e prolungato degli autoferrotranvieri di Genova, qualche anno fa). È però un’altra discussione, che con la legittimità non c’entra nulla.
In questi anni, si sta spingendo molto in direzione di una interpretazione "estensiva" dei servizi essenziali richiamati nella legge 146. La Commissione di Garanzia, muovendosi sul terreno dell'arbitrio, ha già manifestato l'intento di includervi l'intero settore della logistica e della movimentazione delle merci...
Si, certo. È solo un altro aspetto, un altro momento, di quell’offensiva generale contro il lavoro di cui parlavo all’inizio. È semplicemente la logica dell’estensione dei servizi pubblici essenziali, inaugurata con la legge 146, che viene sempre più generalizzata, estendendola all’occasione a nuovi settori. Lo si propone nella logistica e nella movimentazione delle merci, perché lì oggi abbiamo un particolare ciclo di lotte, molto radicale ed in grado di colpire il sistema produttivo in un suo ganglio centrale.
Non è comunque solo lì che lo si vuole estendere o che lo si è recentemente esteso. La campagna del 2015 contro il diritto di sciopero (quella costruita a partire da assemblee sindacali da tempo annunciate in alcuni siti turistici romani), ha portato il governo Renzi e poi il Parlamento ad approvare rapidamente il cosiddetto “decreto Colosseo”, che ha previsto “misure urgenti per la fruizione del patrimonio storico e artistico della nazione”. Hanno cioè inserito anche i servizi culturali e turistici tra i servizi minimi essenziali, perché gli scioperi e le mobilitazioni in quel settore erano in grado di ottenere un impatto mediatico e politico particolarmente significativo (basti pensare alla lunga vertenza sui cambi di appalto, con le relative stabilizzazioni ai Musei Civici Veneziani).
La legge, in fondo, segue sempre il conflitto di classe, sfruttando gli arretramenti nei rapporti di forza generali tra le classi. Il problema non è neanche solo quello della 146 e della Commissione di garanzia. È in corso, nel quadro dell’offensiva generale di questi anni, un tentativo generale di limitare il diritto di sciopero per tutti, pubblici e privati. Marchionne in FCA e poi Confindustria nel Testo unico del 10 gennaio hanno cercato infatti di riprendere ed estendere alcuni principi e alcune modalità della legge 146: l’obbligo di conciliazione e raffreddamento delle vertenze, l’esigibilità (l’impossibilità di scioperare contro elementi previsti da un contratto sottoscritto), le sanzioni a sindacati e lavoratori/lavoratrici. Grazie alla capitolazione della CGIL, hanno fatto passare questi principi ma, visti gli ostacoli e le diffuse resistenze, ancora non si è giunti alla loro concreta applicazione, in particolare su esigibilità e sanzioni. Tuttavia, va evidenziato che l’accordo sulla contrattazione del marzo 2018 riprende esplicitamente l’obiettivo di arrivare ad una piena attuazione del Testo unico su questi specifici aspetti.
Il tentativo, appunto, è quello di considerare tutto “servizio essenziale”, quindi protetto il più possibile da scioperi e lotte. Questa è la cifra della fase che stiamo vivendo e a questo attacco generale bisogna rispondere con altrettanta generalità e forza.
Ecco, siamo arrivati al punto: quali sono, a tuo avviso, le mosse e quali i percorsi da intraprendere per contrapporsi efficacemente all’incalzante iniziativa padronale?
Come ho detto prima, non bisogna rispondere solo e semplicemente ad un attacco al diritto di sciopero. Bisogna rispondere ad un’offensiva generale su salari, diritti e condizioni di lavoro, di cui il fronte del diritto di sciopero è solo una delle componenti. L’obbiettivo è ottenere la subordinazione sindacale, ed ottenerla per poter variare all’occorrenza (velocemente e senza particolari frizioni) le condizioni di utilizzo della forza lavoro in relazione a condizioni di mercato sempre più incerte e ad una moneta, l’euro, che ricoprendo una funzione continentale non risponde alle esigenze del capitale italiano. Bisogna cambiare velocemente, senza particolari ostacoli, orari e salari nominali. Il sindacato quindi deve esser complice, o deve esser messo nelle condizioni di non poter reagire efficacemente; perciò, si diluiscono e diradano gli scioperi, se ne limitano la portata e la durata o si giunge a interdirne persino la possibilità d’indizione. Intendiamoci, tutto questo non ferma la lotta di classe ma la comprime, ostacolandone l’espressione e l’organizzazione.
In questo quadro complessivo, allora, credo sia importante cogliere, sostenere e far crescere una resistenza diffusa contro l’offensiva in atto. Ritengo cioè che tutte le forze del sindacalismo di classe e conflittuale (indipendentemente dalla sigla di appartenenza), dovrebbero esser pronte a sostenere ogni resistenza contro eventuali offensive contrattuali e per denunciare le pseudo-riforme del nuovo governo reazionario (Pensioni, flat-tax e reddito di cittadinanza). Oltre, naturalmente, all’eventuale ripresa di un conflitto diffuso su salari, orari, diritti e condizioni in continuo peggioramento nei luoghi di lavoro. Queste dinamiche parziali possono infatti rimettere al centro la contrapposizione tra i diversi interessi di classe, ricostruendo quindi nelle lotte una coscienza ed un’identità collettiva del lavoro. E quindi, al di là delle sigle e delle appartenenze, dovremmo esser pronti a sviluppare fronti comuni di lotta su parole d’ordine chiare, intorno alle quali possono ritrovarsi ampi settori di lavoratori e di lavoratrici. È infatti solo sostenendo scioperi e mobilitazioni, aiutandoli a diffondersi e generalizzarsi, che è possibile sviluppare il terreno su cui affrontare e respingere anche l’offensiva contro il diritto di sciopero, che altrimenti rischia di rimanere una questione astratta, a cui prestano attenzione solo le avanguardie e quegli specifici settori di classe che, di volta in volta sono colpiti, dalle nuove limitazioni.
In questo contesto, in sintesi ed in conclusione, penso che il miglior percorso da intraprendere, sul terreno del diritto di sciopero come su altri fronti di lotta, sia quello di superare la logica di sigla che è risultata dominante negli ultimi anni. Dobbiamo cioè riuscire a superare la tendenza a costruire mobilitazioni, scioperi e cortei “programmatici” (su un programma identitario di organizzazione), solo di posizionamento generale e non vertenziali. Va rimesso invece al centro della nostra azione, dell’azione di tutte le forze classiste e conflittuali, un piano vertenziale e rivendicativo, fondato su lotte che si pongano obiettivi tali da coagulare il maggior numero possibile di lavoratori, lavoratrici e, quindi, di organizzazioni sindacali. Creando, dunque, le condizioni per la crescita e la diffusione di un nuovo ciclo conflittuale. Perché, al fondo, il diritto di sciopero si difende in un solo modo: esercitandolo. Se serve, come insegna tutta la storia del movimento operaio, anche oltre i limiti che gli sono imposti.
A cura de Il Pane e le rose - Collettivo redazionale di Roma
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