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Morire in Afghanistan

Morire in Afghanistan

(29 Luglio 2010) Enzo Apicella
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Berlino-Kabul, rimpatrio fatale

(12 Luglio 2018)

seehofer

Non conosciamo tuttora il nome del migrante respinto che ha deciso di farla finita appena ricondotto a Kabul. Si sa che era un ventitreenne e da otto viveva in Germania. Su di lui e altri 68 rifugiati in terra tedesca era calata la mannaia del ministro di ferro Seehofer, un Salvini teutonico che odia gli stranieri disagiati e sul tema tiene sotto scacco la cancelliera Merkel. Il giovane sicuramente era giunto nell’area europea attraverso le rotte balcaniche e ancor prima iraniano-turco-greca, con le varianti del caso verso sud o nord del nostro continente, come hanno fatto altri disperati le cui storie sono finite anche romanzate sugli scaffali delle librerie. Una la conosciamo personalmente per aver incontrato anni addietro l’autore e protagonista (Ali Ehsani, Stanotte guardiamo le stelle, Feltrinelli) in un centro per rifugiati. Vicenda a lieto fine questa, sebbene l’Ali piccino, fuggito perché i suoi genitori erano morti sotto le bombe delle infinite guerre afghane, abbia perso il fratello maggiore durante la personale odissea. Ma fra le fughe dal travagliato Paese dell’Asia centrale di fine millennio e le attuali ci sono di mezzo gli interventi armati statunitense e della Nato, l’Enduring Freedom e l’Isaf Mission che dovevano pacificare la nazione, portare la democrazia, liberare la popolazione dalle grinfie di Signori della guerra e talebani.

Balle.
Coi primi le due amministrazioni Bush e Obama hanno formato governi presieduti dai locali ‘mister Conte’, Hamid Karzai e Ashraf Ghani, dei prestanome malleabili, maschere per poter proseguire politiche decise in altre sedi. Così l’Afghanistan è tornato l’inferno già conosciuto durante l’occupazione sovietica e la guerra civile, dal 1979 al 1996. Ma poi coi talebani e le suddette occupazioni occidentali, che alimentano la guerriglia dei turbanti fatta passare come resistenza alle truppe straniere, generazioni di bambini e ragazzi sono diventate adulte, avendo come unico panorama pacificante le bianche vette dell’Hindu Kush. Il resto è l’antica polvere degli altopiani afghani, la sedimentata miseria mai lenita dalla plurimiliardaria giostra degli aiuti umanitari in una nazione mantenuta volutamente in guerra. E soprattutto il sangue versato ogni giorno da gente che salta in aria: per via, mentre prega in moschea, quando raggiunge il mercato per acquistare un trancio di naan, il pane locale. Almeno quattro progenie di afghani non conoscono che guerra, precarietà e morte. Gliela porta la politica statunitense che chiede agli alleati maggiori sforzi economici per le spese Nato, come ha fatto Trump a Bruxelles.

Gliela portano i governi dell’Unione Europea che si prostrano servili e continuano a mantenere truppe in quei luoghi, senza nulla risolvere. E’ così da diciassette anni e potrà continuare a esserlo. Non serve neppure recarsi sul posto, e non ci si va se non si è soldiers, businessmen, reporters embedded. Tranne che nei casi, non numerosi, di operatori umanitari della sanità (Emergency e dintorni) o cooperatori non collusi coi governi corrotti. Quegli attivisti che collaborano con ong locali che si chiamano: Afceco, Hawca, Opawc, Saajs e si prendono cura di orfani, donne abusate, ragazze da istruire, familiari di vittime a cui promettere giustizia. Basterebbe seguire la cronaca del travagliato Paese mediorientale per comprendere da dove fuggono e perché decine di migliaia di ragazzi che sognano una vita diversa. Solo i più forti, gli attrezzati idealmente e ideologicamente, riescono a restare in loco a lottare, per provare di costruire alternative al plumbeo orizzonte che noi occidentali e le nostre politiche d’uso e consumo contribuiamo a rinnovare.

E non è un caso che le più strutturate, le più coraggiose siano le donne afghane. Loro che hanno poco o niente, hanno tutto da guadagnare pur in quadro così disastrato. Fra chi, come l’ultimo suicida, pensava di averla sfangata, di essere salito se non in Paradiso almeno d’essere uscito dal buio originario, lo scoramento del rimpatrio forzato dev’essere stato un colpo fatale. Dove si vedeva quel giovane uomo tornato a Kabul? A vagare in cerca d’un lavoro che, fuori dell’arte dell’arrangiarsi con micro commerci o artigianato povero oppure a vendere la propria esistenza alla burocrazia collusa con la politica corrotta, può condurre solo ad arruolarsi nei corpi combattenti locali messi su da l’Usa Forces, o affiliarsi nelle milizie talebane. Passi rivolti alla guerra, dunque. Passi di morte. La morte l’ha trovata nell’hotel dove attendeva d’essere ricollocato qui o là nel Paese, provincia più o meno sotto attacco dell’Isis o a giurisdizione talebana. Il suicidio liberatore l’avrà meditato durante l’intero volo di rimpatrio. Un tragitto nero, così diverso dalla luce che aveva sperato di trovare nell’Europa della sua salvezza.
12 luglio 2018

articolo pubblicato su
enricocampofreda.blogspot.it

Enrico Campofreda

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