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USA. 46 milioni di poveri

USA. 46 milioni di poveri

(28 Settembre 2011) Enzo Apicella
I poveri negli USA sono 46 milioni, il 15% della popolazione. I due terzi di questi poveri lavorano, ma per un salario da fame

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LAVORO ZERO

(27 Luglio 2018)

salario, prezzo e profitto

Il coniglio sbircia dal cilindro capitalista, annusa l'aria, si guarda intorno, cerca il segnale, in attesa del mago che lo farà spuntar fuori, per poi farlo saltare mandando a carte quarant'otto l'intera società.
Quel mago siamo noi!

IL CONIGLIO SPUNTA dal CILINDRO CAPITALISTA

LAVORO ZERO


La questione del lavoro,
per il movimento rivoluzionario,
si pone nel senso della sua abolizione.
Il lavoro, in questa società,
non nobilita né forma, ma sfrutta.
Il lavoro, sotto il dominio del capitale,
è salariato, cioè sfruttato.

Questa è la realtà del lavoro sotto la legge del profitto, valida in tutto lo spazio-tempo del capitale, cui oggi si aggiunge, come specificità della fase imperialista, la sua progressiva superfluità.
La scienza applicata alla tecnologia, la robottizzazione digitalizzata fusa al processo produttivo, il progressivo aumento della composizione organica di capitale, stanno facendo sempre piu’ a meno delle braccia, anticipando nei fatti la possibilità della futura società senza lavoro.
La storica lotta di classe per liberare l’attività umana dal profitto si incrocia col movimento reale che diminuisce la quantità di lavoro per la produzione di merci, beni e servizi.
E’ chiaro che questa tendenza, a causa dello sviluppo ineguale del modo di produzione capitalistico, si accentua in un occidente indebolito sullo scacchiere mondiale, mentre segna il passo nei luoghi dell’accumulazione originaria e delle officine del mondo Indocinesi.
Ovunque, però, la comprensione di questo processo contraddittorio del moto delle cose, non può portare, da solo, verso la liberazione dal lavoro salariato, che necessita invece della rottura rivoluzionaria, e dello strumento politico di questa rottura.

“Se la classe operaia cedesse per viltà nel suo conflitto quotidiano con il capitale, si priverebbe essa stessa della capacità di intraprendere un qualsiasi movimento più grande.
Nello stesso tempo la classe operaia, indipendentemente dalla servitù generale che è legata al sistema del lavoro salariato, non deve esagerare a se stessa il risultato finale di questa lotta quotidiana. Non deve dimenticare che essa lotta contro gli effetti, ma non contro le cause di questi effetti; che essa può soltanto frenare il movimento discendente, ma non mutarne la direzione; che essa applica soltanto dei palliativi, ma non cura la malattia. Perciò essa non deve lasciarsi assorbire esclusivamente da questa inevitabile guerriglia, che scaturisce incessantemente dagli attacchi continui del capitale o dai mutamenti del mercato. Essa deve comprendere che il sistema attuale, con tutte le miserie che accumula sulla classe operaia, genera nello stesso tempo le condizioni materialie le forme sociali necessarie per una ricostruzione economica della società. Invece della parola d'ordine conservatrice: Un equo salario per un'equa giornata di lavoro, gli operai devono scrivere sulla loro bandiera il motto rivoluzionario: Soppressione del sistema del lavoro salariato”.


K.Marx-Salario prezzo e profitto-1865


La lotta per il salario è una lotta che si “deve” fare, dice Engels.
Un “processo storico-naturale”, risponde Lenin.
Un dato oggettivo, delle cose, del movimento reale, ineliminabile, la prima arma di difesa di classe nel capitalismo, contro lo sfruttamento.
L’aumento salariale come la garanzia del salario sono, oltre che l’indice di ascesa o crisi del ciclo capitalistico, i sensori dei rapporti di forza tra le classi.
La lotta per la garanzia del salario dentro la crisi capitalistica acquista i caratteri dell’ incompatibilità proprio di fronte alla tendenza imposta dalla ristrutturazione padronale che diminuisce il salario reale “riformando” l’intero mercato del lavoro, rendendolo intermittente, precario, a tempo determinato.
In questo senso la lotta per il salario garantito, fuori dalle elemosine statuali e da utopistiche promesse di “nuovo welfare” e di “redditi di cittadinanza”, esprime il tentativo di costruzione di piu’ favorevoli rapporti di forza nell’autonomia di classe dal ciclo produttivo, e dai suoi effetti nefasti sul proletariato.
Una lotta quindi oggettivamente determinata, difficile da rendere vittoriosa, eppure da sostenere nella quotidiana lotta contro il capitale.
Vogliamo dire che oggi, anche una semplice ritirata ordinata di classe e di difesa normativa-salariale, nel suo svolgersi, acquista i caratteri della lotta politica contro le leggi di stabilità dei padroni europei.

Vogliamo dire che oggi, se la lotta economica rimane esclusivamente tale, senza porsi nella prospettiva del superamento dei vincoli di sistema, è destinata alla sconfitta.
Vogliamo dire che il nostro intervento nella lotta economica deve essere certo interno alla “resistenza” in difesa dei diritti e delle conquiste acquisite, promuovendo, sostenendo, collegando e radicalizzando ogni forma di autoorganizzazione sindacale, ma deve anche e soprattutto favorire il processo di conquista della coscienza di classe tra le avanguardie operaie, unendole nella costruzione dell'organizzazione politica ed autonoma di classe.
Vogliamo dire che il nostro intervento deve acquisire le caratteristiche del piano di lavoro organizzato, in grado di dare respiro politico generale ad ogni specificità di lotta settoriale, individuando e dialettizzandosi con i quadri operai che inevitabilmente queste producono.
Vogliamo dire che tattica contingente e strategia rivoluzionaria non sono divisibili, né possono piu' rispondere a vecchie scissioni e dicotomie fuori dal presente tempo capitalistico.
Una lotta, dice Marx, che ci permette di “intraprendere un movimento piu’ grande”.
Una lotta per un salario piu’ “giusto”, trovando un suo proprio punto di equilibrio nella conquista di un favorevole rapporto di forza, avvicina il livello di vita operaio alle condizioni ed alle esigenze di questa società, senza però cambiarla, senza modificarne l’ingiustizia di base.
La battaglia sul salario e sul salario garantito sono le classiche battaglie per il “miglioramento” e per il “giusto”, dove migliore e giusto si danno solo ed in quanto funzionali al mantenimento ed alla perpetuazione del sistema del lavoro salariato e della schiavitu’ salariata.
Per questo, e dialetticamente, la nostra lotta per il salario, e per il salario garantito “lavoro o non lavoro”, esprime un elemento tattico all’interno di una strategia rivoluzionaria contro il lavoro e contro il salario.

Inoltre, la lotta sul salario diretto può e deve essere accompagnata da una mobilitazione costante tesa ad intervenire con l’azione diretta sul salario indiretto, attraverso la realizzazione di campagne di massa sul “diritto proletario” a riprendersi ed autoridursi quanto da esso prodotto.

Ovviamente, se da un punto di vista strategico siamo per la fine del sistema del lavoro e del salario, e quindi per rivendicare il diritto alla vita lavoro o non lavoro, dal punto di vista tattico non possiamo non essere interni alla naturale, ineliminabile, storicamente determinata, lotta economica di classe.

La coalizione operaia, cioè il processo di unità materiale che rende piu’ forti gli sfruttati rispetto agli sfruttatori, è la prima, naturale risposta per vendere meglio, ed in migliori condizioni, la forza lavoro.

Oggi, ai tempi della fine del compromesso socialdemocratico tra forze sociali che ha caratterizzato il ‘900, e di fronte alla scarnificazione dei rapporti sociali figli della crisi di internazionalizzazione, ogni rivendicazione della coalizione operaia, cioè sindacale, diviene oggettivamente, e direttamente politica, perché cozza contro i vincoli imposti dalla sovradeterminazione continentale.
Ogni lotta per il salario, o per un qualche miglioramento normativo-contrattuale, incidendo oltre che sul profitto anche sul debito pubblico e sul pareggio di bilancio in costituzione, è una lotta politica contro i padroni europei.
Ecco perché l’antica dicotomia che scindeva tra la “scuola di guerra” sindacale ed il partito rivoluzionario oggi è superata dalla realtà, che impone una lotta, ed uno strumento di questa, politico-sindacale, che riunisca e concentri in se i due momenti della lotta di classe.
Se a questo aggiungiamo l’integrazione complice dei sindacati di stato dentro i processi ristrutturativi aziendali, completiamo il quadro di una insufficienza sindacale in se, non piu’ spendibile nei rapporti di forza tra le classi.

Stesso discorso vale per gli ininfluenti “sindacati di base”, sconfitti nella scommessa sostitutiva dei sindacati confederali, prede di scissioni personalistiche e microburocrazie che li rendono piu’ conflittuali tra di loro che con le aziende, oltrechè sconosciuti alla massa dei lavoratori.

DIRITTO alla VITA contro la PRECARIETA' CAPITALISTA

La strategia rivoluzionaria di ogni tempo e luogo tende ad approfittare delle contraddizioni del movimento reale con la coscienza di esserne parte e con lo scopo di acuirle e scioglierle nella rivoluzione sociale.
Questo è valido universalmente ed in tutti i gangli della vita sociale, in primis rispetto all'evoluzione dei tempi e delle forme del lavoro salariato.
I tempi della planetizzazione del modo di produzione capitalista, ma anche del consumo di massa corrispondente, impongono l'accelerazione dei processi di sveltimento e dis-umanizzazione delle filiere produttive: la cosiddetta digitalizzazione robottizzata.
L'automazione avanzata, con l'introduzione massiccia di robot, sta facendo sparire mestieri, trasformando il lavoratore in “operaio aumentato”, o abbondante, o digitale: un operaio capace di usare (o s-vendersi?) mani, testa e dispositivi interconnessi delle aziende.
E' il nuovo” operaio dell'industria 4.0 che, oltre a comprendere l'insieme delle innovazioni destinate a cambiare lavoro ed operai, tende anche ad un loro maggiore e massiccio coinvolgimento, attraverso la creazione di nuove figure professionali come i “comunicatori di fabbrica”, vere e proprie polifunzionalità capaci di interagire con colleghi come con clienti, nonché di riprogrammare gli strumenti di lavoro e controllo dei tempi.

Dalla qualità totale alla “qualità incrementale”, dove l'operaio “consiglia” l'azienda sul come migliorare il processo produttivo ricevendo un premio economico o un passaggio di livello per questo; in sostanza, la sperimentazione degli anni '80 del gruppo Fiat con le cassette dei “bigliettini operai” viene elevata a sistema di collaborazione di classe.
Un operaio digitale piu' veloce, attivo, ma anche proattivo, orientato all'azienda, meno conflittuale!
E' la cosiddetta quarta rivoluzione industriale, che basandosi sulle tecnologie digitali, su rinnovati moduli organizzativi e sulla “qualificazione costante” del lavoro sta estendendosi dalle imprese all’intero sistema produttivo, diffondendo, tra l’altro, l’ideologia della “professionalizzazione per tutti” a coprire una realtà fatta di discrezionalità padronale e di deregolamentazione di diritti normativi-contrattuali.
In sostanza, al fine di ridurre la non corrispondenza tra domanda e offerta di lavoro e di soddisfare le aumentate esigenze di mercato di lavoro qualificato ( introdotto per altro con un’iniezione selettiva di forza lavoro immigrata), si tende ad innovare i sistemi organizzativi alla stessa velocità di quelli tecnologici, sviluppando la cosiddetta “impresa integrale”, cioè l’impresa che prevede la partecipazione propositiva operaia, oltre che dell’adeguamento scolastico a queste tendenze.

Una rivoluzione industriale, quella 4.0, che può generare la rivoluzione sociale, perché contiene i germi della sua dissoluzione nella diffusione planetaria del proletariato, nella sua concentrazione nella metropoli imperialista, nella sua contaminazione migratoria.
E’ solo una delle due possibilità, cui si contrappone la barbarie della guerra o della supercompetizione tra blocchi continentali, che trova la propria possibilità di vittorioso svolgimento nella capacità di cogliere, da parte della soggettività rivoluzionaria, la contraddizione incompatibile di sistema tra sviluppo delle forze produttive ed accumulazione privata del prodotto, e di scioglierla nella rivoluzione.

Una rivoluzione industriale che, però, nel soppiantare e rendere obsoleti interi settori, non ne produce, come nel passato, di nuovi.
Niente settori “compensativi”, e, di conseguenza, scarsa o nulla crescita di redditi e lavoro.
La tecnologia, almeno in occidente con la controtendenza dell'”accumulazione originaria” dell'”officina del mondo” ad est, potrebbe avere effetti incontrollati sull'intera vita sociale: la robottizzazione, che progressivamente sostituisce lavori manuali ripetitivi ma che con l'introduzione dell'intelligenza artificiale sta cominciando ad occupare anche gli spazi del cosiddetto “cognitivo”, sta espellendo il lavoro e il lavoratore vivo dal ciclo produttivo.

E' un fatto, cui si può rispondere con l'utopia di riproporre un mondo finito (le lotte di resisteza per l'occupazione), con qualche tamponcino politico-assistenzialista (reddito di cittadinanza-universale etc...), o prendendone atto, muovendosi di conseguenza, accettando la sfida di una società con meno necessità di lavoro vivo.
Senza escludere naturalmente l'obbligatorietà della rottura rivoluzionaria, si può trarre vantaggio e parole d'ordine adeguate da un movimento reale che va nella direzione del suo proprio superamento in una società dell'attività libera, dove lavoro salariato e sfruttamento siano banditi.
Ancora una volta, piuttosto che resistere, o “lottare per conservare” il movimento delle cose reali, occorre intravvederne le direttrici a noi favorevoli, che fanno il nostro gioco, che lavorano per noi, e per la futura società.

Le rivoluzioni sociali del passato ci insegnano che, dietro ogni parola d'ordine semplice, c'erano un'analisi scientifica, un programma complesso, un'organizzazione forgiata.
Le rivoluzioni sociali ci insegnano cioè che, per oltrepassare il ghetto della militanza politica cosciente ad arrivare, e poi organizzare ed indirizzare, alle masse ed ai bisogni di milioni di esseri umani, occorre semplificare, racchiudere, esplicitare un intero progetto umano anche solo in una parola, chiara, comprensibile, fruibile ed utilizzabile da tutti.

Una parola d'ordine che superi gli steccati dell'eventuale appartenenza politica, sindacale o religiosa come quelli della nazionalità o del colore della pelle, per esprimere un'esigenza legata all'esistenza del genere umano (come di quello animale o vegetale!) , di cui tutti fanno parte.

VIVERE!
può essere questa parola d'ordine?


Di certo vivere, per donne, uomini, animali e natura è diventato difficile, se non impossibile, ai 4 punti cardinali del pianeta, sotto il dominio capitalista.
Di converso, è evidente, che per donne, uomini, animali e natura vivere diventa immediatamente incompatibile con questo dominio, ai 4 punti cardinali del pianeta.
Vivere è un progetto incompatibile unificante speranze, desideri ma anche interessi di classe, anche perchè per vivere, bisogna eliminare il profitto, lo sfruttamento e gli sfruttatori.
Vivere è incompatibile con guerre, fame, carestia, violenze, ma anche sfruttamento, devastazioni ambientali, metropoli concentrazionarie, ma anche città-vetrine, consumismi, cementificazioni, quartieri dormitorio ed assenza di rapporti umani e sociali.

E le “leggi uguali per tutti” o il “diritto individuale”, quando non sono direttamente un inganno, garantiscono una sopravvivenza talmente squallida alla quale in molte-i (anche in giovane età) preferiscono la fuga, e-o la morte.

La sopravvivenza “garantita” da questa società è di plastica, e risponde alla perpetuazione di interessi e profitti di una infima minoranza di sfruttatori.

E' una sopravviveza fatta di guerra imperialista
e di pace sfruttatrice, da combattere,
riprendendoci con la forza della lotta di classe,
il diritto a vivere.

Alla certezza del “diritto collettivo alla morte”
della barbarie capitalista,
al “diritto individuale alla morte”
come “scelta” della libertà borghese,
opponiamo la nuova umanità
del diritto alla vita nella società senza classi.

Pino ferroviere

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