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Eric Hobsbawm

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(11 Ottobre 2012) Enzo Apicella

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Contro il “sovranismo” di destra e di sinistra la solidarietà internazionale e la preparazione rivoluzionaria comunista

(11 Agosto 2018)

manifesto del partito comunista bongiovanni

Le contraddizioni dell’economia capitalista erodono costantemente le fondamenta del dominio della classe borghese. Questa si vede costretta ad un’opera incessante per contenere gli effetti sociali della crisi. Se dal lato economico deve agire per intensificare lo sfruttamento del proletariato dall’altro deve impedire alle masse lavoratrici di riconquistare l’indipendenza di classe e di esprimere lotte difensive efficaci.

Tale contenimento del proletariato viene svolto in gran parte attraverso la coercizione materiale intrinseca al meccanismo economico di estrazione del plusvalore, ma un ruolo non secondario è assegnato al controllo ideologico sull’insieme del proletariato. La nostra scienza di classe, che vede un determinismo nel divenire sociale, non ha mai sottovalutato questo aspetto se già nella ”Ideologia tedesca”, un’opera di Carlo Marx e di Federico Engels del 1846, si affermava che l’ideologia dominante in ogni società è sempre e comunque quella della classe dominante, la quale non dispone soltanto del monopolio dei mezzi della produzione materiale ma anche dei mezzi della produzione intellettuale. Di qui il ruolo che viene affidato al gigantesco apparato di riproduzione dell’ideologia che comprende la stampa, le televisioni, le radio, la scuola, le chiese, le case editrici, ecc.

Non sorprende dunque che la stessa “politica” del mondo borghese sia divenuta da decenni oggetto di uno spettacolo mediatico tanto triviale quanto chiassoso e ridondante, al fine di mantenere confuso e paralizzato il proletariato. Così la incessante lotta politica fra le diversi sotto-classi borghesi, consumata fra manovre e intrighi di palazzo, oggi rimbalza nei pastoni vacui e insensati dei telegiornali e negli estenuanti starnazzamenti dei talk show. Non che mai la borghesia abbia offerto di sé uno spettacolo decente, se non eccezionalmente nella sua giovanile e rivoluzionaria stagione, una età dell’oro che in occidente è irrimediabilmente tramontata, e non saremo certo noi ad invocarne il ritorno.

Tuttavia negli ultimi tempi la scena “politica”, anche in Italia, ma il fenomeno è all’evidenza generale, offre uno spettacolo ancora più sguaiato e pacchiano. La borghesia nasconde la sua dittatura di classe e i suoi appartati reali centri di potere sotto una rutilante efflorescenza di partitini, di ideologie fatte solo di frasi ad effetto, di personaggi, tanto pubblicizzati quanto di crescente all’infinito inettitudine e nequizia, sia dentro sia fuori dei parlamenti.

Ne è un esempio il nuovo esecutivo italiano guidato dal prestanome Giuseppe Conte: grande novità! proclama sfacciatamente e “senza complessi” un nazionalismo aggressivo, xenofobo, “sovranista”, quello stesso che i governi precedenti avevano praticato fingendo un certo imbarazzo e in maniera malamente dissimulata. Poiché c’è il rischio che la classe operaia individui nel capitale il suo vero nemico, cosa di meglio che additargli gli immigrati, colpevoli di tutti i mali, con prese di posizione vilmente persecutorie nei confronti di questi proletari e delle minoranze etniche in nome di una pretesa purezza delle tradizioni nazionali, razziali, religiose...

E bene funziona alla conservazione anche la inevitabile reazione genericamente “umanitaria”, cristiana o laica che sia: “Prima gli italiani” o “Aiutiamoli a casa loro”?

Il “cambiamento” è solo nel codice del linguaggio di questi piazzisti della “politica”. Sovranismo. In primo luogo non è che un eufemismo del nazionalismo, termine che, almeno in Italia, per molti decenni, dopo la tragica esperienza dei due conflitti mondiali, non poteva essere agitato ad inquadrare un proletariato poco incline a genuflettersi di fronte all’idolo sanguinario della “patria” permanentemente in fregola di avventure militari. Dunque il sovranismo, già assente dall’uso e dai vocabolari, è stato introdotto in Italia dal francese insieme a una serie di termini coniati da certa politologia d’Oltralpe, sempre attenta a rivisitare e ribattezzare antiche e stantie categorie ogni qualvolta si prestino a rendere presentabili i fini inconfessabili della borghese ragion di Stato.

Insomma si sta tornando a sperimentare un nuovo oppiaceo, o allucinogeno, in un paese che parecchie volte nella storia moderna e contemporanea ha svolto il ruolo di laboratorio politico.

Del resto l’attuale panneggio “sovranista” della borghesia italiana, che ha fatto scaturire dalle elezioni politiche del 4 marzo scorso il “populismo di destra”, è il risultato del lavoro dei precedenti governi che spacciavano invece il “populismo di sinistra”, a preparare il terreno alla demagogia del suo infinito “cambiamento”, sempre esclusivamente mediatico. Fu il governo precedente che assecondò la mistificazione dell’”emergenza immigrazione” per orientare in senso reazionario e confondere le masse lavoratrici e sviarle dai problemi legati alle loro condizioni di vita in tempi di crisi economica. Non fu forse il governo Gentiloni a stabilire col governo di Tripoli che decine di migliaia di migranti finissero in campi di concentramento a scontare, fra orrende torture, la “colpa” di essere scampati alla guerra e alla fame?

Al regime del capitale serve il balletto delle false contrapposizioni fra schieramenti fittizi, espressione di forze politiche intercambiabili e tutte comunque confederate contro la classe lavoratrice. Come la democrazia nella fase imperialista del capitalismo è complementare e non contrapposta al fascismo, anche l’antifascismo si schiera soltanto a chiacchiere contro i fascisti, ammantandosi dello stesso totalitarismo, usando i suoi stessi metodi “post-democratici” e autoritari e condividendo lo stesso arrugginito arsenale ideologico sostanziato di pregiudizi e di triti luoghi comuni. Similmente anche le forze politiche che fanno della loro bandiera la lotta contro il populismo, rubano a quest’ultimo le parole d’ordine e scelgono gli stessi temi di propaganda elettorale e di diseducazione del proletariato.

Non scopriamo nulla di originale, né di nuovo nel sempre risorgente “trasformismo” italico. Elementi di fascismo erano presenti già nello Stato nei primi decenni successivi ad una Unità raggiunta dalla borghesia “liberale”, matura anzitempo e nella necessità di controllare le masse proletarie con una repressione la più brutale. Fu Francesco Saverio Nitti a dotare lo Stato sabaudo della famigerata Guardia Regia col compito precipuo della repressione antioperaia. Giovanni Amendola, campione dell’”irredentismo democratico” e interventista nella prima guerra mondiale, antifascista, fu poi famigerato ministro delle colonie del governo Facta fino alla Marcia su Roma. Lo stalinismo nella Seconda Guerra mondiale, schierandosi a fianco di uno dei due fronti imperialisti, sottomise l’organizzazione militare partigiana alla guida dei comandi alleati, che nel frattempo bombardavano i quartieri proletari delle città. Dopo la guerra il partito staliniano della cosiddetta “via italiana al socialismo”, quello dei governi di Unità Nazionale, ha seminato il germe dello sciovinismo in seno alla classe lavoratrice col costante richiamo agli “interessi generali della Nazione”. Intanto il PCI staliniano, con la sua politica collaborazionista piegò il sindacato da esso diretto, la CGIL, alle compatibilità economiche del capitalismo, assecondando con entusiasmo la sua progressiva sottomissione allo Stato. Dopo l’auto-scioglimento del PCI staliniano nel 1992 tutti i partiti che ne hanno preso il posto si sono alternati ai governi di destra nell’attuare politiche di attacco alle condizioni dei proletari: con varie leggi e con la concessione del precariato nei contratti, dalla “politica dei sacrifici” fino al Jobs Act del 2014, hanno visto la sinistra borghese svolgere gran parte del lavoro sporco, come e anche in misura maggiore dei governi di destra.

Da marxisti non neghiamo certo la funzione storica delle sovranità nazionali nel processo di affermazione della borghesia rivoluzionaria e dei suoi Stati. Ma, a differenza delle concezioni idealiste e romantiche con le quali la borghesia ha rappresentato ed esaltato il concetto di nazione, ne individuiamo la funzione essenzialmente economica volta all’unificazione e a protezione dei mercati.

Ma, come veniva sottolineato nel 1848 dal Manifesto del Partito Comunista già allora era assai alto il grado di interrelazione fra le differenti culture e aree geografiche del mondo al di sopra dei confini nazionali: «Con lo sfruttamento del mercato mondiale la borghesia ha dato un’impronta cosmopolitica alla produzione e al consumo di tutti i paesi. Ha tolto di sotto i piedi dell’industria il suo terreno nazionale, con gran rammarico dei reazionari. Le antichissime industrie nazionali sono state distrutte, e ancora adesso vengono distrutte ogni giorno. Vengono soppiantate da industrie nuove, la cui introduzione diventa questione di vita o di morte per tutte le nazioni civili, da industrie che non lavorano più soltanto le materie prime del luogo, ma delle zone più remote, e i cui prodotti non vengono consumati solo dal paese stesso, ma anche in tutte le parti del mondo. Ai vecchi bisogni, soddisfatti con i prodotti del paese, subentrano bisogni nuovi, che per essere soddisfatti esigono i prodotti dei paesi e dei climi più lontani. All’antica autosufficienza e all’antico isolamento locale e nazionale subentra uno scambio universale, una interdipendenza universale fra le nazioni. E come per la produzione materiale, così per quella intellettuale. I prodotti intellettuali delle singole nazioni divengono bene comune. L’unilateralità e la ristrettezza nazionali divengono sempre più impossibili, e dalle molte letterature nazionali e locali si forma una letteratura mondiale (...)».

«La grande industria ha creato quel mercato mondiale, ch’era stato preparato dalla scoperta dell’America. Il mercato mondiale ha dato uno sviluppo immenso al commercio, alla navigazione, alle comunicazioni per via di terra. Questo sviluppo ha reagito a sua volta sull’espansione dell’industria, e nella stessa misura in cui si estendevano industria, commercio, navigazione, ferrovie».

Alla vigilia del grande sommovimento del 1848, che sconvolse i vecchi equilibri europei, il Manifesto riconosceva ancora un ruolo progressivo alle nazionalità che dovevano scuotere il giogo della dominazione straniera, come la Polonia, oppure dovevano ancora concludere il processo di unificazione statale come la Germania e l’Italia. La formazione di nuovi Stati da parte di quelle che allora venivano considerate “nazioni vitali”, in riferimento alle loro potenzialità economiche, era un indubbio passo avanti nella rimozione di quegli ostacoli feudali che impedivano il pieno sviluppo del capitalismo. Marx ed Engels scrivevano che il proletari dovevano combattere contro “i nemici dei loro nemici”, cioè in un’alleanza con la borghesia contro la decrepita nobiltà.

Ma già allora avvertivano i due estensori del Manifesto del Partito Comunista: il proletariato non ha patria. Dunque il sostegno del proletariato alla borghesia nella sua fase rivoluzionaria non implicava affatto l’identificazione con i destini della nazione: una volta raggiunto l’obiettivo del rovesciamento delle classi feudali, il processo di “rivoluzione in permanenza” avrebbe posto il proletariato in urto armato contro la borghesia.

Questo avvenne in Francia già nel giugno del 1848 con il cruento scontro armato di Parigi, quella che Marx definirà «la prima grande battaglia fra le due classi in cui è divisa la società moderna, in una lotta per la conservazione o per la distruzione dell’ordine borghese».

I massacri di operai ormai inermi del giugno del 1848 furono replicati su scala assai più ampia con le fucilazioni di massa nella repressione della Comune di Parigi del 1871. In questo caso un ruolo decisivo venne svolto dalla collaborazione fra il governo prussiano e quello versagliese, nemici fino al giorno prima. Come commentò Marx in quella occasione «il supremo slancio d’eroismo del quale la vecchia società fosse ancora capace era la guerra nazionale; la quale ora si rivela come un raggiro di governo e niente più; che non ha altro scopo se non quello di provocare la lotta di classe e che si mette in agguato non appena la lotta di classe divampa in guerra civile. Il predominio di classe non è più in condizioni di nascondersi sotto un’uniforme nazionale; i governi nazionali sono tutti confederati contro il proletariato!».

Oggi, giusto 150 anni dopo, quando è da considerare chiusa la fase delle rivoluzioni nazionali non nella sola Europa ma nel mondo intero, in un mondo economicamente e politicamente interconnesso come quello attuale, la sovranità di uno Stato significa all’interno solo guerra alla classe operaia, all’esterno guerra, in tutti i sensi, agli altri Stati.

Perché nemmeno ci convince il neologismo di “globalizzazione”, e ancor meno quello di “mondialismo”, intendendo il tentativo delle “élite” dell’alta finanza internazionale di svuotare gli Stati nazionali di ogni reale potere economico e politico, per poi assoggettarli tutti insieme a un’unica “cabina di regia”: quando i fautori del sovranismo devono additare i responsabili dei guasti prodotti dal regime del capitale non individuano la classe borghese nel suo complesso, ma si accaniscono con alcune “grandi famiglie” o singoli magnati del grande capitale, come i Rothschild o George Soros.

Quando parlare di “mondialismo” non serve ad attaccare l’internazionalismo proletario, che sarebbe al servizio dei piani di un “complotto”, magari quello giudaico e massonico, e dei suoi disegni di sradicamento e cancellazione delle peculiarità culturali nazionali.

Ma, a voler esser veramente “aggiornati”, la categoria del sovranismo è ora messa in opposizione a “concertazione multilaterale”. È questa necessità che inquieta i vari Trump, gli “euroscettici”, i sostenitori inglesi della Brexit. Cosa c’è di vero? Che nel profondo gonfia una immensa e reale tensione: l’imperialismo stringe sempre più, connette e stritola il pianeta; ma il super-imperialismo è uno stato limite incompatibile con il capitalismo e che non raggiungerà mai. Questo permanente avanti-indietro muove il ciclo mondiale della pace e della guerra, con l’infrangersi di vecchie alleanze fra Stati e l’effimero stringersi di nuove. Già le cannoniere hanno cominciato a sparare: grossi calibri, per ora commerciali, miliardari, su Volkswagen e Google.

La classe borghese è sì una classe internazionale, ad essa appartengono gli Stati nazionali di cui si avvale per assoggettare il proletariato e per dividerlo. Ma anche il proletariato è una classe per natura internazionale, che soltanto attraverso la sua lotta unitaria in tutti i paesi potrà dispiegare la sua straordinaria forza, rovesciando il marcio regime del capitale e imponendo la sua dittatura. Ai “sovranisti”, di destra, di sinistra e di centro, le discutibili letizie della patria economica, le patrie tradizioni culturali posticce e il feticismo del denaro; ai proletari di ogni lingua e colore un mondo intero da conquistare.

PARTITO COMUNISTA INTERNAZIONALE

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