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Le grandi opere, ma a scadenza, del Capitale

(29 Agosto 2018)

ponte morandi crollato

Il decreto ministeriale del 14 gennaio 2008 riportante nuove "Norme tecniche per le costruzioni" ha introdotto il concetto giuridico di "vita nominale" delle opere strutturali. Mentre era consuetudine presumere, non per l’eternità certo, ma praticamente indefinito il ciclo di vita di ogni tipo di edificio, in presenza di continua e corretta manutenzione, la legge viene ora a stabilire che un ponte, una diga e le altre opere infrastrutturali abbiano una vita utile di 50 anni; solo se sono di "grandi dimensioni" debbono resistere per 100 anni.

Quindi, se un ponte rovina dopo 50 anni dalla sua costruzione la responsabilità non è più ascrivibile né al progettista né al costruttore né al responsabile dell’esercizio. Una grande diga, si intende, per scongiurare la catastrofe a valle, ogni secolo va demolita (difficile immaginare come) e ricostruita (dalle fondamenta o dalla roccia viva?). Come fu per il morente regime feudale, oggi tutto quanto è borghese assume il grigno irreale del grottesco.

Viene portato a giustificazione di questo "usa e getta" dell’edificato il comprovato degradarsi della consistenza e resistenza di opere in cemento armato. In realtà, la causa di tale fenomeno, più che nei materiali e nella tipologia costruttiva, sono da individuare in una insufficiente conoscenza nei decenni passati del loro comportamento nel tempo ed inesperienza sul dimensionamento e sulle necessarie protezioni dall’esterno. Oltre che evidentemente e spesso del male costruire. Del resto anche per gli edifici in muratura solo l’esperienza portò ad escludere, per esempio, tipi di pietre non resistenti al gelo.

Ma la legge borghese, piuttosto che prescrivere di costruire e di manutenere meglio, impone di demolire e di rifare. Questa mancanza e disprezzo di memoria storica, finora apparsa all’uomo scritta nelle pietre delle nostre città, motivazione reale di questo "esistenzialismo" costruttivo, è solo una necessità economica e di una classe sociale: il ciclo dissennato della riproduzione del Capitale, la materiale urgenza di distruggere per poter iniziare la sua nuova riproduzione. La manutenzione del patrimonio fisso non gli basta né gli consente i massicci investimenti richiesti dai nuovi grandi appalti, e i conseguenti profitti e le rendite d’ogni tipo. Una catastrofe dischiude le condizioni per la successiva.

Il determinato ciclo di vita delle grandi opere, vanto e ragion d’essere di Stati ed Imperi storici, diviene oggi incompatibile con i tempi del capitale e della sua crisi generale di sovrapproduzione. Oltre che con quelli del corrente spregevole politicantismo tardo-borghese. Di qui il disprezzo per il lavoro delle passate generazioni e la foga del "modernismo", proprio dei mercanti verso tutto quello che è già "venduto".

Quindi a Genova – giusto a 50 anni dalla costruzione del ponte sul Polcevera – è accaduto quello che doveva, che era previsto e, impersonalmente, anche desiderato che accadesse.

Quel ponte fu una costruzione, all’epoca, consapevolmente sperimentale, per tipologia strutturale, a ponte strallato, e per l’uso dei materiali, il cemento armato precompresso. Anche per gli stralli, i tiranti aerei, fu deciso l’impiego del precompresso, che rispetto all’acciaio, nonostante il maggior peso, ne riduce l’allungamento sotto i carichi.

Presto questa scelta si rivelò infelice: il rivestimento in calcestruzzo, forse anche per la sua qualità negli anni sessanta, peggiore dell’attuale, non ha ben protetto dalla corrosione i cavi interni metallici e si è dovuto procedere al loro rinforzo con l’aggiunta di una serie di tiranti esterni. Ma questo è stato fatto limitatamente solo a una delle coppie di stralli, benché fosse strumentalmente provata e ben nota la sofferenza anche delle altre cinque.

Recenti verbali, gli ultimi di febbraio, che i giornali riportano, provano che i tecnici dello Stato e della Concessionaria erano pienamente a conoscenza del fatto che il gigante era pericolante. Ma il grande capitale troverà sempre, fra i tanti, degli ingegneri che, per adeguato compenso, firmano qualunque infamia.

"Pubblico" e "privato" sfumano l’uno nell’altro; l’uno e l’altro appaiono per quello che sono: intestatari di capitale; non i primi comandano al secondo, viceversa è l’unico capitale, che fluisce da un recipiente all’altro, a dittare le sue regole di ferro. La Concessionaria, quasi uno Stato nello Stato, che riscuote il dazio alle barriere, ha dichiarato nel 2017 un fatturato di 3,9 miliardi dei quali ben 2,4 di margine lordo: sai quanti ingegneri, universitari, avvocati, politicanti (di vecchio tipo o "cambiatori") e giudici si compra!

Si farà "giustizia"? Lo escludiamo. Anche perché: 1) le responsabilità più che di individui sono di una intera classe sociale, che ammorba per sopravvivere a se stessa e ad ogni sua storica funzione progressiva, e la magistratura borghese è lì appunto per difenderla la borghesia; 2) anche nella ipotesi che un gruppo di più grossi borghesi riesca a far severamente condannare gli esponenti del gruppo rivale, i nuovi manovratori che li sostituirebbero verrebbero necessariamente a fare quanto e peggio dei predecessori, pena rapido licenziamento da parte degli azionisti.

Tutti quanti hanno quindi firmato che il ponte sì era pericolante, ma che poteva restare ugualmente aperto al traffico. Nulla è stato fatto, nemmeno la semplice predisposizione di un monitoraggio automatico continuo sul cedimento degli stralli, che con molta probabilità avrebbe potuto dare l’allarme in tempo, e nemmeno la banale riduzione del traffico su una sola corsia.

Per questo diciamo che, di fatto, si è voluto provocare il crollo. Cosa sono per il capitale quaranta morti, quando in gioco ci sono miliardi? Pur di mettere presto a tacere quelli che si ostinano con la manutenzione, o che si oppongono alla nuova autostrada a monte. L’emergenza e la insipienza sociale giovano sempre al capitale.

PARTITO COMUNISTA INTERNAZIONALE

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