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Turchia una media potenza in equilibrio fra gli imperialismi

Da "Il Partito Comunista" N. 391 - Settembre-Ottobre 2018

(5 Ottobre 2018)

La crisi finanziaria che ha colpito la Turchia in questi ultimi mesi ha riportato il paese sulla scena internazionale soprattutto per le conseguenze che potrebbe avere sul sistema finanziario europeo e mondiale.

Ma il paese destava proccupazione in molte Cancellerie anche per la svolta impressa dal governo dell’AKP, guidato da Recep Tayyip Erdogan, alla politica estera dopo il fallito colpo di Stato del 2016. Ankara non ha esitato infatti ad accusare gli Stati Uniti di aver appoggiato i golpisti e di dare rifugio al loro ispiratore politico, l’ex alleato di Erdogan, Fethullah Gülen. Da qui è iniziato il riavvicinamento alla Russia, anche perché sembra che siano stati proprio i servizi segreti di Mosca ad allertare i turchi, contribuendo al fallimento del golpe.

Indubbiamente la Turchia ha un forte interesse a mantenere buoni rapporti con la Russia, sia dal punto di vista economico sia politico, e lo stesso vale per la Russia. La Turchia ha una posizione strategica chiave, di cerniera tra Europa ed Asia; sul Mar Nero guarda verso l’Ucraina e la Crimea, recentemente annessa dalla Russia; nel Caucaso, la Turchia confina con la Georgia, l’Armenia e l’Azerbaigian, paesi sui quali la Russia intende mantenere il controllo; i Dardanelli, controllati da Ankara, sono l’unico accesso al mare per la flotta militare e commerciale russa del Mar Nero; la sponda mediterranea della Turchia guarda verso la Grecia e verso Cipro, paesi con i quali esiste un contenzioso da anni, acuito dalla scoperta di giacimenti in mare di petrolio e gas naturale. Inoltre confina a sud con l’Iran, l’Iraq e la Siria, tutti paesi al centro dell’attuale scontro tra le potenze imperialiste.

Di fronte all’atteggiamento conciliatorio di Ankara, la Russia ha messo da parte il risentimento seguito all’abbattimento di un suo aereo militare nei cieli al confine con la Siria nel novembre del 2015, riprendendo la collaborazione con la Turchia in diversi settori. Sono riprese le trattative per la costruzione di un nuovo gasdotto, il Tanap, per far confluire il gas naturale dai paesi dell’Asia centrale e dalla Russia verso l’Europa, e anche verso alcuni paesi del Medio Oriente, attraverso il Mar Nero e la Tracia fino in Grecia, rispondendo ad un interesse della Turchia, che per il gas e per il petrolio dipende dalle importazioni. Sempre in campo energetico la Russia si è impegnata nella realizzazione della centrale nucleare di Akkuyu, un progetto da 20 miliardi di dollari che sarà completato nel 2025 con l’attivazione di quattro reattori da 1,2GW ciascuno, capaci di produrre il 7% dell’attuale consumo turco di energia elettrica (fonte, Aspenia).

Ma, oltre che nell’energia e nel commercio, la collaborazione tra i due Stati si sta estendendo anche al più delicato settore militare tanto che nel dicembre 2017 il governo turco ha approvato l’acquisto dalla Russia del sistema di difesa missilistica S-400. L’accordo è a buon punto e «entro i primi mesi del 2020, due batterie del sistema, con una terza opzionale, saranno dislocate sul territorio turco al costo di 2,5 miliardi di dollari. La parte finanziata del pagamento avverrà in rubli».

Questa decisione del governo turco ha però avuto conseguenze negative nella collaborazione militare con l’alleato storico di Ankara, gli Stati Uniti: il Congresso USA ha sospeso per 90 giorni la fornitura alla Turchia degli aerei da combattimento F35.

Il contrasto con Washington si è aggravato alla metà di agosto quando, di fronte al diniego delle autorità turche di liberare il pastore evangelico statunitense Andrew Brunson, accusato di complicità con Fethullah Gülen, gli Stati Uniti hanno aumentato del 50% i dazi sull’acciaio e del 20% sull’alluminio importati dalla Turchia. Bisogna considerare però che il loro impatto sarà limitato perché solo il 13% dell’acciaio turco viene esportato negli Stati Uniti.

Questo ha dato ugualmente un colpo ulteriore alla moneta turca, che ha diminuito del 16% il suo valore rispetto al dollaro, dopo che dall’inizio dell’anno ne aveva già perso il 40%, accrescendo le inquietudini degli investitori internazionali sulla possibilità di recupero dei loro crediti.

Ciò ha rafforzato l’orientamento di Erdo­gan verso la Russia, proprio mentre si stava aprendo l’esplosiva questione dell’offensiva militare siro-russo-iraniana contro l’ultima sacca di resistenza dei guerriglieri anti-Assad nella regione di Idlib.

Finora la collaborazione tra Russia, Turchia ed Iran, zeppa di contraddizioni, si era basata su tre “principi generali” usciti dagli accordi di Astana: «Primo, la creazione delle cosiddette zone di de-escalation (Homs-Hama, Daraa, Ghouta, e Idlib) avrebbe consentito una serie di riconciliazioni locali che sarebbero poi confluite in un processo a livello nazionale. Secondo, la Turchia sarebbe assurta progressivamente a sponsor unico dell’opposizione, di fatto tagliando fuori e facilitando l’annichilimento di quei gruppi legati ad altri Stati sostenitori dell’opposizione come Arabia Saudita e Qatar e, soprattutto, di quelle formazioni legate alla galassia jihadista internazionale. Terzo, la Russia si sarebbe fatta garante degli interessi di tutte le parti in causa, dal regime passando per l’alleato iraniano, la Turchia, e includendo perfino Israele [e, aggiungiamo noi, gli Stati Uniti], preoccupata per l’espansione di organizzazioni legate a Teheran nel sud» (vedi ISPI, 10 settembre).

La Turchia ha dunque impiantato negli scorsi mesi una serie di postazioni nel governatorato di Idlib con lo scopo di isolare i gruppi più estremisti, come Hay’at Tahrir al-Sham, organizzazione di ispirazione qaedista, e permettere ai gruppi guerriglieri da essa manovrati di prendere il controllo della regione. Ma questo piano a quanto pare è fallito e gli “alleati” scalpitano per “normalizzare” al più presto l’intera regione in modo che Assad possa presentarsi ufficialmente, sul piano internazionale, come il vincitore assoluto della guerra e dare inizio al grande affare della ricostruzione del paese devastato.

Da qui l’incontro di Teheran del 7 settembre alla ricerca di una non facile collaborazione. La Turchia è contraria ad una offensiva generale contro Idlib, non solo perché è consapevole che i tre milioni di civili che si sono ammassati nella regione non potranno che cercare scampo al massacro riversandosi verso il confine turco, ma anche perché intende mantenere il controllo del governatorato dell’Alto Eufrate, anche se formalmente dovesse restare all’interno della Siria, un po’ come ha fatto con la parte orientale di Cipro.

Al vertice di Teheran un accordo è stato trovato almeno tra Turchia e Russia: l’offensiva contro Idlib non si farà. Intorno alla regione verrà istituita una zona “demilitarizzata” pattugliata da militari turchi e polizia miliare russa. Entro il 10 di ottobre tutte le forze in campo, compresi i gruppi jihadisti e i qaedisti di Hay’at Tahrir al-Sham dovranno ritirare le armi pesanti dalla zona smilitarizzata, larga dai 10 ai 15 chilometri. La Turchia si fa garante che anche i gruppi guerriglieri da essa influenzati ritireranno le loro armi. Questo permetterà di isolare i gruppi più radicali che sarebbero attaccati dall’esercito turco e dai guerriglieri del Fronte Nazionale di Liberazione Siriano. All’esercito turco e ai suoi alleati quindi toccherà di salvaguardare la sorte dei guerriglieri filo-turchi e isolare e annientare i gruppi radicali.

I territori controllati dall’opposizione siriana, ha precisato Erdogan, resteranno nelle mani dei ribelli, che però dovrebbero essere privati delle armi pesanti. Il piano prevede poi la riapertura ”entro il 2018" delle arterie stradali fra Aleppo, Latakia e Hama, per dare l’impressione di un ritorno alla normalità.

Ma la manovra non è di semplice realizzazione e la guerra, ammesso che i grandi strateghi dell’imperialismo putrescente sappiano come comincia, non sanno mai come può andare a finire.

Il nuovo accordo stipulato a Soci tra Russia e Turchia riporta in ballo la questione della crescente collaborazione tra questi due paesi e l’importanza dell’acquisizione da parte di Ankara del sistema antimissilistico russo: è difficilmente accettabile che un paese membro della Nato possa dotarsi di un sistema di difesa antiaerea prodotto da uno Stato considerato attualmente come la sua principale minaccia.

Se è vero che dopo la caduta dell’impero russo abbiamo assistito allo smembramento del vecchio ordine uscito dagli accordi di Yalta e a molti cambi di fronte da parte di vari Paesi, gli Stati Uniti cercheranno di mantenersi un alleato con l’importanza della Turchia, che dispone, tra l’altro, del secondo esercito della Nato per numero di uomini, subito dopo quello USA.

Lo scopo della Russia in questo momento non è di far uscire la Turchia dall’Alleanza Atlantica ma di allentarne i legami. Non è infatti escluso che nei prossimi mesi il Parlamento turco possa rimettere in discussione l’acquisto degli S-400, così come già fece dopo il 2013 quando Ankara aveva minacciato di adottare il sistema antimissilistico cinese.

A questo riguardo molto dipenderà dall’evolvere della guerra in Siria.

Un episodio a conferma di quanto per una grande potenza sia difficile controllare gli effetti del coinvolgimento in una guerra come quella siriana è l’abbattimento di un aereo militare russo con 15 uomini a bordo: la contraerea siriana avrebbe fatto fuoco contro alcuni caccia israeliani i quali si stavano facevano scudo dell’aereo russo. Lo stesso Putin ha moderato i toni parlando di una “catena di tragiche circostanze”, ma ha precisato che saranno adottate tutte le misure necessarie per “garantire la sicurezza delle forze armate e delle strutture russe in Siria”. Si tenga presente che i raid israeliani in Siria contro le milizie sciite legate all’Iran dal 2011 si contano circa in 150.


Impotenza del ‘dittatore’

Il 9 luglio scorso la vittoria elettorale, seppur di scarsa misura, del presidente Erdogan ha segnato il passaggio della Turchia dal sistema parlamentare, con la classica divisione dei poteri legislativo, esecutivo, e giudiziario, ad una Repubblica presidenziale, con l’esecutivo che tende a concentrare gli altri “poteri”, attribuendosi il diritto di emanare leggi e nominare metà dei giudici della Corte costituzionale e del Consiglio superiore della magistratura.

Il Presidente ha proceduto alla nomina del nuovo governo e ha insediato il genero Berat Albayrak al ministero dell’Economia per cercare di influire sulla politica economica e monetaria del paese.

Una delle pretese del Presidente è sempre stata quella che fossero tenuti bassi i tassi d’interesse praticati dalle banche alle imprese, in modo da favorire l’espansione economica. Questa politica monetaria autarchica ha contribuito al ribasso della lira turca sulle altre monete, provocato forse da un attacco concertato dall’estero. Erdogan ha volenterosamente continuato a premere sui dirigenti della Banca Centrale fino a poche ore prima della riunione del 13 settembre, indetta per decidere sui tassi.

Ma la Banca Centrale, vincolata com’è più alla dittatura del capitale finanziario internazionale che a quella del dittatore nazionale, seppure votato, eletto, nominato e democraticamente investito, ha alzato i tassi dal 17,75 al 24%, preferendo bellamente premiare gli investitori, frenare l’emorragia di capitali e arginare l’inflazione. Un bello schiaffo per il nuovo Gran Sultano!

I mercati hanno reagito positivamente e la lira ha subito riguadagnato posizioni sul dollaro. Nella presente società è il grande capitale a dettare legge e non gli uomini, muscolosi o languidi, che pretendono di governare: “povere marionette che si illudono di fare la storia”!

PARTITO COMUNISTA INTERNAZIONALE

Fonte

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