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(15 Ottobre 2018)
Ha viaggiato per una dozzina di giorni attraverso Afghanistan, Pakistan, Emirati Arabi, Arabia Saudita e Qatar Zalmay Khalizad, l’uomo che il presidente americano Trump ha nominato da una quarantina di giorni suo inviato speciale per l’Afghanistan. Ora, a Doha, ha avuto il primo incontro coi Talebani, che dall’estate scorsa hanno incontrato una delegazione statunitense. Le due sponde discorrono attorno a possibili accordi di pace, quel piano che il presidente afghano Ghani fa suo da mesi rivendendolo nelle elezioni in scadenza del prossimo 20 ottobre. In alcuni distretti si sta già votando, in altri è impossibile farlo o comunque pericoloso. Venerdì a Takhar (120 km est da Kunduz) la zona circostante a un seggio è stata oggetto d’un attentato che ha ucciso 14 persone e ferito oltre trenta. E’ il quarto della serie, stragi compiute non dai talebani colloquianti, ma da coloro che dissentono dalla linea tenuta a Quetta, parlano di Califfato e duettano col Daesh firmandosi Isis afghano. I turbanti ortodossi, nonostante i ripetuti inviti governativi a entrare nel governo e in Parlamento, boicottano la consultazione elettorale, però non attuano la linea aggressiva tenuta altrove. La linea del controllo del territorio che in tante occasioni li ha spinti ad attaccare l’esercito nazionale, fuori e dentro le caserme, tanto per mostrarne inefficienza e palesi limiti organizzativi ed esecutivi.
Infatti a Ghazni, nella settimana di fuoco dello scorso agosto, la forza talebana ha umiliato l’Afghan National Army, sebbene quest’ultimo la sopravanzasse numericamente. Per l’ennesima volta sono stati i marines a salvare gli alleati in divisa e tale fattore, assieme al controllo totale di sette, otto province, e parziale di un’altra decina, convince diversi capi talib di poter riprendersi Kabul, non solo per attentati o azioni dimostrative. Comunque una componente talebana non esclude i colloqui. Ha solo finora posto un’unica condizione: ritiro delle truppe Nato, che significa un proprio dominio assoluto su ogni provincia afghana, visto la vaghezza delle forze armate locali. Allora, se non ci sarà quell’abbandono del dialogo accaduto in altre circostanze, ciò di cui si discuterà è chi e cosa resterà in terra afghana. I passi di Ghani, suggeriti dal Pentagono prima ancora che dalla Casa Bianca, propongono ai taliban l’ingresso in un’alleanza di governo, in cambio chiederanno il mantenimento delle nove basi strategiche, create nei 17 anni d’occupazione statunitense. Le basi degli F16, degli AC-130, dei droni che decollano verso obiettivi diversi ma sempre portando morte e stabilendo dominio. Mollare questo bene strategico è per ogni amministrazione statunitense impossibile.
Non si tratta di posizioni democratiche, repubblicane o tantomeno personali alla Trump, la natura strategica di Washington prevede presidio e controllo in aree considerate strategiche, ovunque nel mondo. E nel Medio Oriente profondo oggi misure e contromisure si sono addirittura accresciute rispetto al 2001. Allora torniamo a Khalilzad, un pashtun di Mazar-e Sharif, già ambasciatore statunitense alle Nazioni Unite durante l’era Bush jr, formatosi in epoca dell’invasione sovietica al suo Paese alla Columbia University e già nel 1985 funzionario per il Dipartimento di Stato americano. Questo per dire che il diplomatico, oggi sessantasettenne, è un afghano fedelissimo alla politica Usa che ha servito in varie epoche le più varie strategie attuate dallo Studio Ovale. Tutto ciò non sfugge agli interlocutori in turbante, e seppure dovessero non essere completamente aggiornati su curriculum e trascorsi, saranno i concetti messi nero su bianco a confrontarsi. I taliban diranno: via le truppe, la delegazione guidata da Khalilzad non cederà sulle basi. E’ qui il nodo. Per il resto, e per Ghani stesso o chi lo dovesse rimpiazzare, i fondamentalisti di Quetta potranno unirsi a quelli che già siedono nella Loya Jirga.
15 ottobre 2018
articolo pubblicato su enricocampofreda.blogspot.com
Enrico Campofreda
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