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(30 Ottobre 2018)

Riceviamo e volentieri pubblichiamo

In questi giorni l’unica notizia internazionale che è riuscita a bucare la cortina di una informazione totalmente incentrata sulla finanziaria, la crescita dello spread ed il braccio di ferro tra il governo giallo/verde e l’Europa, è stata l’omicidio del giornalista Khashoggi avvenuto nel Consolato dell’Arabia Saudita ad Istanbul per mano dei sicari del principe ereditario bin Salman. Un assassinio che, se ancora ce ne fosse bisogno, dimostra l’arroganza ed il senso di impunità della corte saudita, alleata preziosa e braccio armato indispensabile degli USA e dell’Europa nella destabilizzazione dell’area mediorientale. Ed infatti, mentre l’Europa, per bocca dell’Alto rappresentante dell'Ue Federica Mogherini, si limita a chiedere “un'indagine approfondita, credibile e trasparente”, il Presidente Trump, dopo aver tergiversato e astenendosi, ovviamente, dall'accusare la famiglia reale saudita, ha definito il tentativo di Riad di occultare l'uccisione, "un fiasco totale, una delle coperture peggiori della storia" (come a dire: non avete imparato nulla da noi) ribadendo, però, che l'Arabia Saudita è un grande alleato degli Usa (oltre che committente miliardario per l’industria militare statunitense) e annunciando, tramite il suo segretario di Stato Mike Pompeo, che sarà negato o revocato il visto a 21 sauditi sospettati di essere coinvolti nell'assassinio del giornalista. D’altro canto lo stesso Presidente turco Erdogan, che della repressione di oppositori politici e di massacri di civili in patria e fuori se ne intende, è già arrivato a toni più miti verso il principe Salman, a dimostrazione che la “denuncia delle responsabilità saudite” ha poco o niente a che fare con la ricerca di verità e giustizia sull’assassinio di Khashoggi, quanto piuttosto con la concorrenza tra paesi che si contendono un ruolo strategico nell’area.

Nonostante questo tragico avvenimento abbia costretto a concentrare l’attenzione sull’Arabia Saudita, nessuna testata televisiva o della carta stampata si è soffermata sulle responsabilità che questo Paese ha nella devastazione dello Yemen. Eppure proprio in questi giorni, l’ONU ha lanciato l’ennesimo allarme sulla catastrofe umanitaria in atto: oltre 14 milioni di persone sono alla fame a causa del blocco navale imposto dalla Coalizione a guida saudita che impedisce persino gli arrivi degli aiuti umanitari, mancano l’acqua potabile e i medicinali mentre infuria l’epidemia di colera (900 mila infettati solo nel 2017). 130 bambini yemeniti muoiono ogni giorno solo per queste ragioni (50.000 l’anno), mentre i bombardamenti indiscriminati su scuole, ospedali, mercati, porti, in questi 3 anni di aggressione da parte dell’Arabia Saudita hanno fatto oltre 17 mila vittime tra i civili. Un disastro umanitario totalmente ignorato dai nostri mass media - gli stessi che sono sempre pronti a denunciare le “nefandezze” dell’Iran, della Siria di Assad o di qualche altro “stato canaglia” - che volutamente oscurano quanto accade in Yemen per non disturbare i lucrosi traffici che USA , Europa e soprattutto l’Italia fanno con l’alleato saudita. Proprio dall’Italia, infatti, provengono le bombe aeree del tipo MK 82, prodotte in Sardegna dalla Rwm Italia, responsabili del massacro del popolo yemenita. Ma mentre la Merkel, sull’onda di quanto successo ad Istanbul, ha bloccato (momentaneamente) le esportazioni di armi verso l’Arabia Saudita, nessun segnale è venuto in questa stessa direzione dal governo Conte.

Questo silenzio assordante e complice non riguarda solo lo Yemen. Altri teatri di guerra (Siria, Libia, Afghanistan, Sud Sudan, Ucraina, l’area subsahariana, la Repubblica Democratica del Congo, per citarne solo alcuni) sono quotidianamente ignorati o relegati a qualche trafiletto e tornano sulle prime pagine solo se e quando è necessario alimentare il solito “caso” (che siano armi chimiche, il terrorismo o l’invasione dei migranti, poco importa) con cui giustificare un incrudimento degli scontri sul terreno e l’inevitabile necessità dell’intervento occidentale in quei Paesi. Oppure, come nel caso della Palestina, avallare la versione di Israele e ribadire il suo diritto a portare impunemente avanti il genocidio del popolo palestinese in nome della propria sicurezza.

Persino il variegato mondo del pacifismo è in silenzio o in difficoltà. Nulla si sta muovendo, se si esclude la Perugia-Assisi, tenutasi all’inizio di ottobre, che, però, ancora più che in passato si è caratterizzata per un generico richiamo ai diritti umani e ad una generica pace più che per un’opposizione ai facitori di guerra quali sono la NATO e le grandi potenze tra cui l’Italia.

La verità è che nonostante i mal di pancia e, almeno per alcuni, la sincera rabbia per le politiche contro gli immigrati e l’approvazione del decreto sicurezza (che non solo rafforza il razzismo di Stato già operante con i precedenti governi, ma segna anche una svolta decisiva nella direzione della repressione delle lotte e del dissenso), in tantissimi a sinistra guardano al governo Salvini/Di Maio come al governo del “cambiamento”. Ad alimentare l’illusione c’è ovviamente la misura del reddito di cittadinanza e la veemente retorica contro i tecnocrati dell’Europa e le lobbies finanziarie, ma anche la presenza in Finanziaria di un taglio intorno ai 500 milioni delle spese militari.
Ma siamo davvero ad un cambiamento di rotta in fatto di spese militari come promesso dal Movimento 5S?

Anche il governo Renzi tra il 2014 e il 2015 tagliò i fondi per la Difesa, ma a partire dal 2016 sia Renzi che Gentiloni hanno fatto crescere le spese militari (+8,6% in due anni) portandole a 25 miliardi nel 2018. Addirittura, la spesa per gli armamenti è cresciuta di +88% nelle ultime legislature e solo nel 2018 si è attestata sui 5,7 miliardi (+7% in un anno).

In attesa di conferme circa l’entità e i dettagli dei tagli, ci atteniamo a quanto emerso sui giornali da cui si evince che la prevista riduzione dovrebbe essere il risultato di una razionalizzazione e, forse, di una posticipazione di alcuni capitoli di spesa. Quel che è certo è che del temuto taglio all’acquisto degli F35, promesso dai pentastellati, non c’è traccia; anzi, la Ministra della Difesa Trenta ha precisato che i costi di una eventuale uscita dal progetto (ormai avanzatissimo) sarebbero elevati.

Stando all’operato del governo in questi mesi, ci sembra, quindi, che il “governo per il popolo” sia in perfetta continuità con quanto fatto da quelli precedenti. Davanti alla contrarietà della NATO per i 500 milioni in meno previsti nel Def, la Ministra Trenta ha immediatamente assicurato il totale “ancoraggio alle organizzazioni e alleanze tradizionali”, leggasi Nato e Unione Europea, ed il mantenimento degli impegni presi con gli alleati. L’Italia, quindi, rispetterà l’impegno di raggiungere il 2% del PIL per la difesa, il rifinanziamento delle missioni militari all’estero (scaduto a fine settembre) e la partecipazione alla nuova missione NATO in Tunisia (n.b.: tesa a costituire un comando interforze per la contro insurrezione e la lotta al terrorismo). Persino per quanto riguarda la missione in Niger, a cui i 5S si erano opposti, la Ministra Trenta ha rivendicato al suo governo l’aver sbloccato l’impasse dovuta alle resistenze nigerine e al veto francese verso la presenza militare italiana in quel Paese.

Ma è tutta l’Africa ad avere la piena attenzione di questo governo. I viaggi del premier Conte in Etiopia e in Eritrea delle scorse settimane, le trasferte di Salvini in Libia e l’avvio della missione bilaterale di supporto al Governo di Accordo nazionale di Serraj (MIASIT), insieme alla conferenza, voluta dall’Italia, che si terrà a novembre a Palermo con tutti i protagonisti del caos libico, confermano l’attivismo di questo governo per acquistare posizioni rispetto ai concorrenti, europei e non, e difendere gli interessi del capitale italiano.

Ma c’è di più. Dalle linee di indirizzo programmatiche del ministro della Difesa Elisabetta Trenta emerge l’intenzione di sviluppare una “Strategia sistemica per la sicurezza nazionale” che prevede la “massima sinergia con gli altri ministeri, l’industria, il mondo accademico, nonché i settori della ricerca di base e avanzata, al fine di consolidare meccanismi stabili di collaborazione”. In altre parole una Cabina di Regia in capo a palazzo Chigi in direzione della “graduale trasformazione dello strumento militare, razionalizzando i sistemi di difesa”, e del supporto all’innovazione e all’industria militare descritta come comparto strategico “per la crescita del sistema-Paese”; la Difesa – viene detto – “è chiamata a fornire un contributo fondamentale, perché sarà necessario passare da un rapporto di semplice fornitura alle Forze Armate ad un rapporto di partnership in cui industrie e centri di ricerca (pubblici e privati, accademici e scientifici) siano parte attiva”.

E’, nei fatti, l’avvio del programma del Libro Bianco della Pinotti, restato fino ad ora nel cassetto. Modernizzazione, razionalizzazione, innovazione: parole d’ordine che riguardano anche la composizione dell’organico dei settori della difesa. Come lamentava già ex Ministra Pinotti, ci sono troppi ufficiali e sottoufficiali, più vecchi e che costano di più, e troppo pochi giovani professionisti da mandare alla guerra. Così, da una parte si sguinzagliano i militari nelle scuole a propagandare le bellezze della vita militare moltiplicando le iniziative verso i giovani e cominciando a parlare anche del ritorno al servizio di leva. Dall’altra si promuove l’iniziativa dell’impiego dei militari nella pubblica amministrazione. Come si può vedere sulla Gazzetta Ufficiale n.41 del 14 settembre 2018, le pubbliche amministrazioni, Comuni/Province di riferimento, potranno chiedere alla Difesa se ci sono tra le Forze armate professionisti in ausiliaria, come ad esempio medici, ingegneri, biologi, residenti presso il Comune stesso e chiamarli in supporto dell’amministrazione per i 5 anni previsti senza alcun costo aggiuntivo. Una vera e propria militarizzazione degli enti pubblici, ma anche la sottrazione di posti di lavoro a tanti giovani (potrebbero arrivare a 5.000). Altro che “prima il lavoro” con cui questo governo continua a lavarsi la bocca.

Stante così le cose, riteniamo che rimanere immobili e riporre fiducia nell’operato del governo sia deleterio.

Questo governo pratica una politica militarista ed interventista quanto quelli che lo hanno preceduto.

Visto che oggi la minaccia terrorista è meno spendibile, si agita maggiormente il pericolo di invasione da parte degli immigranti per giustificare questa politica. Un pericolo da contrastare nei paesi da cui essi provengono attraverso il sostegno indiretto e la vendita di armi proprio a quei regimi da cui gli immigrati scappano. Ma sempre di più si punta all’intervento diretto, come al solito mascherato dietro le insegne umanitarie e pacifiste, per consolidare una propria presenza militare ed economica in questi paesi per scopi di rapina e sfruttamento.

Un intervento destinato a rafforzare l’oppressione, e la miseria della stragrande maggioranza di quei popoli e con ciò anche le cause che spingono alla fuga milioni di persone. Immigrati destinati fuori dai nostri confini a morire nel Mediterraneo o stuprati e macellati nei lager gestiti dai torturatori e dai capò addestrati dall’Italia e sul suolo nazionale alla persecuzione, allo sfruttamento, alla contrapposizione con gli italiani il cui crescente razzismo è alimentato ad arte.

Le campagne contro la minaccia rappresentata dagli immigrati, l’ossessione securitaria rappresentano un ottimo alibi per rafforzare anche la militarizzazione dei territori italiani, ed incrementare la legislazione e i dispositivi repressivi contro chi dissente, chi si oppone, chi prova a difendere il proprio diritto al lavoro, al salario, ad avere una casa.

Riprendiamo la mobilitazione contro il militarismo e la guerra interna ed esterna. Nessuna delega a governi amici o di presunto cambiamento può salvarci. Riprendiamo in mano il nostro destino.

Napoli, 25/10/18

RETE CONTRO LA GUERRA E IL MILITARISMO

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