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Psicocomunista

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(14 Novembre 2010) Enzo Apicella

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«Dio sopra tutti». Bolsonaro alla testa del Brasile

(31 Ottobre 2018)

bolsonaro spara

“Brasil acima de tudo, Deus acima de todos” (Brasile prima di tutto, Dio sopra tutti). Con questa parola d'ordine Jair Bolsonaro ha conquistato la Presidenza del Brasile, grazie a 11 milioni di voti di vantaggio sul concorrente del PT Fernando Haddad. Lo ha votato massicciamente la classe media del Sud, bianca e benestante, ma anche buona parte della popolazione povera delle metropoli e della stessa classe lavoratrice. Un blocco sociale nazionalpopolare sotto le bandiere della reazione.


UNA DESTRA NON ORDINARIA

Il profilo politico del vincitore è inequivocabile. Non si tratta di un ordinario esponente della destra tradizionale brasiliana. La destra brasiliana tradizionale (PMDB, PSDB...) esce anzi a pezzi dalla prova elettorale. Jair Bolsonaro ha costruito la propria ascesa proprio sulle ceneri della vecchia destra quale outsider estraneo al vecchio sistema politico. Nonostante 28 anni di grigia carriera parlamentare, egli è riuscito a presentarsi come l'uomo nuovo, il Messia finalmente trovato per la rinascita del Brasile. La polarizzazione del consenso contro il nemico è stata la chiave di successo dell'operazione, e il nemico ha riassunto in sé, in una volta sola, tutti i possibili volti: la laicità, i diritti delle donne e degli omossessuali, le popolazioni contadine, le minoranze indie, la minoranza nera, la criminalità diffusa, gli immigrati venezuelani, e naturalmente... “i comunisti”: intendendo per tali il PT di Lula, l'insieme delle sinistre, l'associazionismo democratico, tutti assimilati al sistema da abbattere. Del resto l'aperta rivendicazione del vecchio regime militare, inclusa la pratica della tortura, fornisce la misura del personaggio Bolsonaro: un ex capitano dell'esercito in cerca di avventura e di gloria.

Ma come ha potuto consumarsi una svolta reazionaria così radicale? Chi cerca spiegazioni nella potenza dei nuovi mezzi mediatici, dei finanziamenti ottenuti, delle Chiese evangeliche, si ferma alla superficie delle cose. In realtà la vittoria di Bolsonaro ha una radice ben più lontana e profonda: il fallimento di tredici anni di governo del PT di Lula e di Rousseff (2002-2016)


LE RESPONSABILITÀ DEL PT

Salito al governo nel 2002 sull'onda di una grande spinta popolare, Lula aveva incarnato la grande speranza di svolta della classe lavoratrice e della popolazione povera del Brasile. Ma il suo programma politico, sin dall'inizio, muoveva all'interno del quadro capitalista, alla ricerca di una legittimazione presso il capitale finanziario internazionale. Le carte in regola nel pagamento del debito estero, l'apertura al capitale imperialista (USA ed europeo), le misure di precarizzazione del lavoro furono non a caso l'atto d'esordio del lulismo, col plauso del FMI e delle banche. I rapporti privilegiati e ostentati con il centrosinistra europeo e col PD americano erano il naturale corollario di questa politica, inclusa la partecipazione brasiliana alle missioni imperialiste in Medio Oriente.

Tuttavia, per alcuni anni, l'ascesa dei prezzi del petrolio e delle materie prime garantì al capitalismo brasiliano una fase di sviluppo, e al governo Lula una dote finanziaria da spendere nel sostegno alla povertà: da qui un sistema di sussidi ai disoccupati e alle famiglie povere (Fome zero e Bolsa familia) che realmente alleviò la loro indigenza e legò al PT nuovi strati popolari.

Ma il periodo di grazia durò poco. Prima l'irrompere della grande crisi capitalista internazionale, poi il rallentamento del tasso di sviluppo cinese, innescarono un cambio di scenario. La caduta del petrolio e delle materie prime, di cui il Brasile era grande esportatore, innescò una profonda crisi dell'economia brasiliana (sino al crollo del 7,2% del Pil nel 2015) e restrinse la base materiale delle concessioni sociali. La stretta sociale dei governi Rousseff (2011-2016) aprì una linea di frattura tra il PT e larga parte del suo blocco sociale. L'aperta corruzione dei vertici del PT - figlia della contiguità con gli ambienti capitalistici - e il vortice di scandali che ne seguì, precipitò questa frattura. L'inchiesta giudiziaria contro Lula e l'operazione di destituzione del governo Rousseff, per mano della destra e della magistratura, capitalizzarono una sconfitta politica già in larga parte consumata.


LA RITIRATA DELLA BUROCRAZIA SINDACALE

Il nuovo governo Temer (2016) segnò la prima svolta a destra del Brasile. Ma era tutt'altro che una svolta irresistibile. Privo di un'organica base parlamentare, coinvolto anch'egli nella corruzione pubblica, Temer si avventurò su un sentiero di scontro frontale col movimento operaio brasiliano varando un progetto di controriforma delle pensioni. Il movimento operaio reagì. Nonostante gli effetti di disorientamento prodotti dalla precedente esperienza lulista, il 28 aprile 2017 la classe operaia brasiliana ha espresso il più grande sciopero generale della storia nazionale dopo l''89, con oltre 40 milioni di scioperanti, manifestazioni di massa, blocchi stradali, paralisi prolungata di intere città, come Brasilia. Il governo Temer fu costretto ad una retromarcia; era il segno di un possibile capovolgimento di fronte a favore del movimento operaio.

Ma il PT non aveva alcuna voglia di proseguire sulla strada dello scontro sociale. Lula e Rousseff si affrettarono anzi a disinnescarlo chiedendo elezioni anticipate, provando cioè a dirottare sul terreno istituzionale la forza sociale dei lavoratori. La burocrazia sindacale della CUT seguì a ruota. Un secondo sciopero generale già convocato per il 30 giugno per chiedere “misure di svolta” fu rapidamente revocato per non disturbare il PT. Tra i lavoratori prevalse il disorientamento: il grosso della classe si era mobilitato per la difesa delle proprie pensioni, non per identificarsi nelle manovre istituzionali di Lula. Lo spazio liberato dalla ritirata del movimento operaio fu subito occupato da Temer con un progetto di riforma reazionaria del diritto del lavoro. La burocrazia sindacale non reagì, e il progetto passò con un profondo effetto di demoralizzazione di milioni di lavoratori.

Proprio la passivizzazione di massa ha spianato la strada a Bolsonaro. Contro Lula, contro Temer, “contro tutti”.

La mobilitazione della destra brasiliana contro il PT e la “sua corruzione” non è una improvvisazione delle ultime settimane. Si è snodata in forme e fasi diverse dopo il 2013, raccogliendo attorno a sé la piccola borghesia urbana, settori studenteschi, strati popolari. La mobilitazione operaia dell'aprile 2017 aveva spezzato temporaneamente questa dinamica reazionaria, ponendo le premesse di una possibile svolta, ma quando la classe operaia si è ritirata dalla scena, per volontà delle sue direzioni, la dinamica reazionaria già incubata ha potuto dispiegarsi senza freni con una radicalizzazione significativa delle proprie pulsioni. La vittoria di Bolsonaro è il punto d'approdo di questo processo. Le direzioni politiche e sindacali del movimento operaio e brasiliano ne portano interamente la responsabilità.


FRONTE UNICO CONTRO BOLSONARO.
MA ANCHE LA NECESSITA' DI UN BILANCIO

Ora si apre una pagina nuova della politica brasiliana. Bolsonaro ha stravinto nelle urne, ma il suo programma non avrà vita facile.

Certo, tutti i grandi gruppi d'interesse che hanno investito nella svolta attendono ora che venga pagata la cambiale. I latifondisti e l'agrobusiness chiedono mano libera in Amazzonia e ovunque; gli industriali chiedono la compressione ulteriore dei diritti sindacali; grandi gruppi del capitale finanziario pretendono di incassare le massicce privatizzazioni delle aziende pubbliche che Bolsonaro ha loro promesso. L'economista di riferimento di Bolsonaro, l'ultraliberista Paulo Guedes, figlio legittimo dei Chicago Boys, ha annunciato pubblicamente “la privatizzazione del Brasile”. La borsa brasiliana l'ha preso sul serio, salutando il nuovo Presidente con una straordinaria impennata dei listini.

Ma le cose non sono così semplici. Il blocco sociale reazionario che si è raccolto attorno a Bolsonaro ha interessi compositi. Tenere insieme l'operaio e l'industriale, il povero e il miliardario “contro i politici corrotti” è relativamente agevole, ma quando si dovesse metter mano nuovamente al sistema previdenziale o tagliare il sistema dei sussidi quella contraddizione può approfondirsi e persino esplodere. Il populismo di governo ha bisogno di una base materiale su cui appoggiarsi e di uno spazio sociale di manovra, ma la crisi del capitalismo brasiliano limita questi spazi.
Non è un caso se le prime dichiarazioni pubbliche di Bolsonaro dopo la vittoria sono assai più misurate e prudenti della sua campagna elettorale e del suo programma.

Il movimento operaio brasiliano ha subito una dura sconfitta politica, ma non è certo finito.
I 45 milioni di voti contro Bolsonaro al ballottaggio, a partire dagli Stati del nord e nord-est, misurano una riserva di risorse sociali ancora grande sul terreno della possibile resistenza di massa. L'unità d'azione di tutte le forze politiche e sindacali del movimento operaio e popolare contro il nuovo governo è la parola d'ordine della nuova fase. È il momento del fronte unico.

Ma l'urgenza e la priorità del fronte unico e della resistenza non può rimuovere l'esigenza di un bilancio politico nel movimento operaio brasiliano e internazionale.

Il lulismo ha costituito uno dei tanti miti del riformismo. Prima del 2002, quando il PT era ancora all'opposizione, Lula divenne un riferimento centrale delle direzioni del movimento No global e dei riformisti e centristi di mezzo mondo: basti pensare ai peana dedicati all'esperienza di Porto Alegre, come metafora del nuovo mondo possibile. Così dopo il 2002 il nuovo governo Lula divenne l'esempio latinoamericano di “un possibile governo riformatore” sotto la pressione dei movimento sociali. Fausto Bertinotti non a caso salutò nel lulismo un paradigma di riferimento per il PRC nella svolta di governo del 2004-2006. Il fatto che il PRC e Sinistra Italiana abbiano continuato ad applaudire Lula anche dopo il disastro compiuto misura solamente l'insensibilità del riformismo alle lezioni pratiche dell'esperienza.

La questione del cambio di direzione politica e sindacale del movimento operaio non interroga solo il Brasile, ma certo in Brasile, dopo la disfatta, acquista un significato ancor più stringente. In questo senso, l'unificazione in uno stesso partito di tutte le forze marxiste rivoluzionarie conseguenti del Brasile, al di là delle differenze che abbiamo con diverse scelte politiche da loro compiute, risponde non solo ad una necessità generale, ma anche ad una urgenza politica. Così come, in uno scenario capovolto, nella vicina Argentina: ed anzi l'unità in uno stesso partito delle organizzazioni trotskiste del Frente de Izquierda in Argentina, sull'onda di una nuova ascesa operaia, darebbe un incoraggiamento decisivo a tutti i marxisti rivoluzionari del Brasile proprio nel momento più difficile.

L'ora di una piena assunzione di responsabilità è suonata da tempo per tutte le organizzazioni marxiste rivoluzionarie conseguenti, in America Latina e non solo.

Partito Comunista dei Lavoratori

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