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(1 Novembre 2018)
Sabato 3 novembre un corteo antifascista si svilupperà lungo le strade triestine in risposta alla manifestazione di Casapound.
Cent’anni dopo la conquista di Trieste da parte del regno italico borghese, alla vigilia dei festeggiamenti istituzionali che ricordano l’entrata in vigore dell’armistizio di Villa Giusti e che vedranno per l’occasione la presenza di Mattarella nel capoluogo regionale, i neofascisti, sfilando per le vie centrali della città ottengono simbolicamente l’ouverture delle celebrazioni.
La marcia casapoundista potrà così dispiegare tutti gli afflati nazionalisti e irredentisti che volteggiano nei meandri mefitici degli ambienti reazionari caratterizzandosi così come una sorta di cappello introduttivo alle celebrazioni del 4 novembre.
L’esaltazione interventista della guerra imperialista del ’15-’18 si combinerà con la rivendicazione dell’italianità delle terre istro-dalmate assegnate all’allora Jugoslavia rivoluzionaria dal trattato di Parigi dopo la sconfitta del fascismo nel ’45. Ed infatti i neofascisti hanno già annunciato la traduzione operativa di questa rivendicazione ideale: l’organizzazione di un concerto dichiaratamente irredentista a Rijeka (Fiume) come proseguimento del corteo di sabato.
Il fascismo e Trieste
Al macello proletario e contadino causato dalla prima deflagrazione mondiale delle contraddizioni interimperialistiche, nelle terre friulano-giuliane, multilinguistiche e multinazionali, si sono aggiunte la distruzione di interi paesi e lo sfollamento forzoso di intere popolazioni. Questi fatti hanno rafforzato l’odio popolare verso le classi dominanti per una guerra subita e che ha deciso la collocazione politica dei popoli al tavolino dei potenti. Ancora di più se si pensa alle concessioni che il governo imperiale austriaco era disposto a fare ancora nel maggio 1915 pur di garantirsi la neutralità dell’Italia: cessione del trentino, del gradiscano e del cormonese ed elevazione di Trieste a “città libera”. Ma la prima guerra mondiale, con i suoi sovrapprofitti, era l’occasione che permise al capitale finanziario italiano di consolidarsi: dall’ascesa del gruppo Fiat all’ascesa della Banca d’Italia da istituto privato a banca centrale pubblica. Inoltre il crollo dell’esercito austro-ungarico permise al governo imperialista italiano, con le truppe operative già pronte in loco, l’annessione dei territori occidentali della Slovenia in esecuzione (ma andando anche oltre) del patto di Londra.
Terra nazionalmente composita, senza soluzione di continuità nei confini naturali, con la presenza di un forte movimento socialista prodotto da una classe operaia e contadina multinazionali, il litorale orientale fu teatro fin dal 1919 del aspetto più aggressivo del fascismo come corollario dell’omogeneizzazione forzosa italiana operata dalle autorità civili subentrate a quelle militari nell’amministrazione delle “terre redente”. A Trieste si sviluppò per primo lo squadrismo urbano. Episodi salienti dell’inizio del fascismo triestino furono l’incendio dell’Hotel Balkan del 13 luglio 1920, centro culturale della comunità di lingua slovena e, sempre nello stesso anno, la devastazione della sede del quotidiano locale socialista Il Lavoratore il 14 ottobre. Successivamente si aggiungeranno le pesanti conseguenze delle leggi razziali sulla folta comunità ebraica triestina.
Dopo l’8 settembre ’43 Trieste divenne la capitale della zona di operazioni Adriatisches Küstenland, territorio giuridicamente annesso al Terzo Reich e l’apparato politico-amministrativo fascista fu inglobato direttamente nel dispositivo repressivo dell’occupazione nazista. Luoghi sinistri della repressione della resistenza a Trieste come la sede dell’Ispettorato Speciale per la Venezia-Giulia in via Bellosguardo - denominata “Villa triste” per le torture inflitte agli antifascisti - o il campo di sterminio della Risiera di San Sabba sono diventati simboli esemplari di repressione nazifascista nell’immaginario di ogni memoria resistente.
E nell’immediato secondo dopoguerra ancora è Trieste a diventare l’epicentro della strategia irredentista del governo democristiano contro gli effetti del trattato di Parigi del febbraio 1947, con la gestione politica dei flussi degli esuli optanti provenienti dall’Istria, Dalmazia e Fiume anche come bonifica nazionale della città al fine di ridurre il peso dell’elemento sloveno, con la protezione agli scampati fascisti responsabili di crimini di guerra in Jugoslavia, con la creazione del martirologio italico degli “infoibamenti” da parte dei barbari “slavocomunisti” attingendo cifre e resoconti direttamente dall’ufficio propaganda della X Mas in Istria alcuni dirigenti del quale, nel 1946, furono impiegati dalla Croce Rossa Internazionale (con beneplacito del governo della coalizione del CLN) per curare gli archivi dei dispersi. E’ per opera di un deputato triestino ex missino che nasce la legge istitutiva del “Giorno del Ricordo”, non a caso divenuto un viatico per un medaglificio fascista anche in forza alla “conciliazione nazionale” santificata dall’asse Violante-Fini. E ancora Trieste, per la sua posizione geo-politica, fu crocevia di attività connesse con la strategia della tensione, che vanno dalla presenza di Ordine Nuovo e l’attentato dimostrativo ad una scuola slovena nell’ottobre ’69 al dirottamento del Fokker presso l’aereoporto regionale di Ronchi dei Legionari nel 1972 da parte dell’ordinovista Ivano Boccaccio, evento legato all’attentato di Peteano e che si incrocia con la vicenda Gladio e i suoi depositi nascosti nel Friuli Venezia-Giulia.
La marcia di Casapound, nell’epoca attuale, si inserisce nel periodo reazionario del governo giallo-verde che a Trieste trova interpreti “creativi” nella giunta del sindaco Dipiazza, autentico rappresentante della borghesia più retriva, a partire dal suo vice, il leghista Paolo Polidori, utilizzato come punta di lancia nella canea anti-immigrati quale arma di distrazione di massa e di educazione politica nazional-corporativa; cioè quell’educazione ideologica interclassista dell’“azienda Italia”, del “tutti uniti dietro alla classe capitalista per tenere botta nell’economia mondiale”.
Emblematici gli episodi del saluto fascista di Dipiazza nel comizio elettorale di Forza Nuova lo scorso marzo; i rastrellamenti dei migranti presenti sulle Rive da parte di Polidori; il consigliere comunale di FN Fabio Tuiach, di maggioranza, che schernisce Stefano Cucchi nel giorno della confessione ufficiale del suo omicidio; l’avversione della giunta comunale verso la mostra sulle leggi razziali del ’38 allestita da studenti; la campagna Lega-FN contro l’educazione al riconoscimento del pluralismo sessuale nelle scuole. Ma la peristalsi reazionaria della giunta Dipiazza trova diretta continuità nel governo regionale del leghista Fedriga, nella sua militarizzazione dei confini, nel taglio dei finanziamenti per i progetti di accoglienza ed integrazione, nell’assunzione in sede regionale del modello di quote di apartheid scolastico varato dalla leghista Cisint, sindaca di Monfalcone, per le scuole dell’infanzia.
In questo quadro si inserisce la legittimazione istituzionale della marcia casapoundista.
Il fronte antifascista
La tradizione antifascista triestina ha prodotto la costituzione della rete Trieste antifascista-antirazzista che ha organizzato il controcorteo che partirà da Campo San Giacomo lo stesso giorno del corteo neofascista. Questo raggruppamento ampio promosso inizialmente da ambienti scolastici (UDS, Cobas Scuola, Cgil FLC) ha permesso di avviare un processo mobilitante che ha travalicato i confini statali.
Ma più in generale, nella risposta all’attività neofascista e alla sua raggiunta agibilità istituzionale, si impone una riflessione profonda sulla struttura materialistica dei rapporti sociali (cioè a partire da quelli economici) e della loro natura classista. E da questa impostazione ricavare, oggettivamente, la determinazione di quel blocco sociale che, per sua stessa natura, è portatore dell’eradicazione delle basi materiali del fenomeno fascista: un blocco sociale anticapitalistico strutturato attorno alla classe operaia e lavoratrice (a partire dalla classe operaia della grande produzione).
La fiducia riposta sulla prefettura di proibire il corteo casapoundista, richiesta derubricata poi nella speranza (altrettanto disattesa) di impedire ai fascisti l’accesso alle vie centrali, rappresenta un po’ lo specchio della questione.
L’arco dell’opposizione antifascista si dispiega oggi dalle posizioni della borghesia liberale che informa la politica del PD - sul cui ruolo e responsabilità dello stato di cose presenti non c’è bisogno di aggiungere nulla - agli idealismi della democrazia piccolo-borghese (Anpi, intellettualità di ambiti accademici e scolastici, LeU) e delle illusioni riformiste-socialdemocratiche vecchie e nuove (Cgil, Prc, Pap, parte dei sindacati di base, realtà associative e di movimento ecc.).
Per acquisire quel necessario salto qualitativo politico e organizzativo per contrastare lo sfondamento di massa di orientamenti reazionari e neofascisti, bisogna avere chiari alcuni aspetti.
Le organizzazioni fasciste sono il reparto avanzato della borghesia per la sua guerra civile al movimento organizzato dei lavoratori e a tutte le resistenze popolari alla politica del capitale.
Per tale motivo di fondo, materialistico, anche in periodi avidi di grandi lotte di massa non ci può essere una contrapposizione totale e durevole tra la forma di difesa statale dell’ordinamento sociale capitalistico (“democratica”) e le propaggini dell’attività di gruppi fascisti, specie se è possibile far digerire nella legalità democratica (borghese) tali attività. Oggi i gruppi fascisti stanno già avviandosi al salto di qualità della loro ragion d’essere: da strumento armato della canea anti-immigrati (funzionale a dividere la forza-lavoro e sviare il campo popolare verso un’impostazione nazionalista) a dispositivo per gli assalti diretti contro sedi sindacali e picchetti di sciopero. Occorre rilanciare l’idea della democrazia proletaria come contro-potere politico al governo economico e statale della borghesia, per promuovere una piattaforma generale, unificante, di classe, partendo dalla costruzione (e loro progressivo raggruppamento) di organismi autorganizzati funzionali alle resistenze sociali sul posto di lavoro e sul territorio. In piena rottura con la partitocrazia della governabilità capitalistica. Ricorrere allo sciopero anche nella battaglia antifascista. Organizzare sul piano politico e sindacale le popolazioni migranti. Affrontare seriamente la questione dell’autodifesa dei cortei antifascisti e più in generale l’autodifesa popolare dal consolidamento organizzativo dello squadrismo. Ridare base operaia e popolare (cioè antiborghese) all’antifascismo.
Bisogna avere le idee chiare sin da ora che, in caso di sviluppo di una lotta di classe capace di mettere a rischio il blocco corporativo nazional-economico, che è la base dell’attuale governabilità dell’accumulazione capitalista, e tanto più a fronte della persistenza della crisi da sovrapproduzione, il ricorso della classe dominante ad un utilizzo più sistematico di strutture fasciste sarebbe inevitabile.
Partito Comunista dei Lavoratori - nucleo isontino
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