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(30 Dicembre 2010) Enzo Apicella

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Roma, 30 ottobre: un momento di discussione per organizzare un'opposizione complessiva al Governo Di Maio-Salvini

Resoconto della presentazione del n. 86 del "Che Fare", giornale dell'Organizzazione Comunista Internazionalista

(5 Novembre 2018)

manif romana del 27 ottobre

Dalla manifestazione romana del 27 ottobre (immagine ripresa dalla pagina fb Si Cobas Lavoratori Autorganizzati)

In questi mesi, Il Pane e le rose sta svolgendo una precisa battaglia politica, volta ad affermare la necessità di un’opposizione complessiva al governo Di Maio-Salvini. Un’opposizione, quindi, che non si limiti alla contestazione di questa o quella misura esplicitamente antipopolare e/o razzista, ma che che muova dal rifiuto dell’intero disegno dell’esecutivo. Proprio in quest’ottica abbiamo trovato di notevole utilità la presentazione romana, avvenuta il 30 ottobre, del n. 86 del Che Fare, giornale dell’Organizzazione Comunista Internazionalista. L’istanza di una battaglia a 360 gradi contro il governo giallo-verde vi è stata espressa con una chiarezza esemplare, frutto di un serio lavoro analitico.

Per un’opposizione senza se e senza ma al governo Di Maio-Salvini

Il rigore dell’approccio è emerso sin dalle prime battute della relazione introduttiva, laddove ci si richiamati all’urgenza di definire in primo luogo le reali intenzioni governative rispetto ai lavoratori e alla collocazione internazionale del paese. Sotto il primo profilo, non ci si può limitare a registrare la fiducia di cui il cosiddetto “governo del cambiamento” gode presso ampi settori del mondo del lavoro: va detto senza mezze misure che tale fiducia è malriposta. Perché le stesse promesse di carattere “sociale” legate a Di Maio e Salvini, come il reddito di cittadinanza e la revisione della Riforma Fornero sulle pensioni, al di là di come verranno concretamente attuate, hanno una preciso obiettivo di fondo: elargire delle briciole ai proletari per favorirne la passività, spingendoli a subordinarsi ancor di più alla propria azienda e alla propria nazione. Il punto è che i diversi provvedimenti di un esecutivo non possono esser valutati separatamente, ma vanno considerati in relazione al progetto globale che li ispira. Senza adottare questo criterio, bisognerebbe parlar bene pure del fascismo, che ha senz’altro portato avanti una sua “politica sociale” (dalle misure previdenziali alle colonie estive per i figli dei lavoratori), che però si sviluppava in un quadro di azzeramento della lotta di classe e mirava ad irreggimentare le masse. In relazione al nodo della collocazione internazionale, il compito del governo attuale è quello di separare l’Italia dall’UE, mettendola in vendita, quale “ascaro di lusso”, al miglior offerente, ossia agli USA, interessati a indebolire quel blocco europeo che è a un tempo alleato e concorrente. Rinsaldando il legame con la superpotenza d’oltreoceano, la penisola ne diverrebbe il più fedele alleato anche in occasioni di future aggressioni come quella all’Iran, di non facile attuazione ma preparata dalle nuove sanzioni volute da Trump. Oggi, in effetti, il discorso sovranista è ridicolo: l’epoca delle sovranità nazionali è lontana, quella che stiamo vivendo è invece la fase dei blocchi continentali o intercontinentali, aggregati attorno a uno Stato più forte che funziona da “magnete”. Le misure “sociali” del governo servono quindi anche a intruppare i lavoratori in un progetto dai chiari risvolti bellici, elaborato, tra gli altri, da Steve Bannon, l'ex capo stratega del Presidente Trump , che non a caso si è incontrato con Salvini pochi giorni dopo la vittoria elettorale di leghisti e pentastellati. E’ proprio vero: attraverso il sovranismo non si fa altro che allinearsi ai veri sovrani del mondo! Certo, l’Italia ha fatto retromarcia rispetto all’idea di fuoriuscire dall’euro, ma la stessa bocciatura della manovra economica, avvenuta il 23 ottobre e motivata dall’Ue con lo sforamento nel rapporto Deficit/PIL, è indicativa di una tensione crescente. Se le politiche economiche dell’esecutivo continueranno ad essere rigettate dall’Unione, le forze governative potrebbero tornare a paventare l’uscita dall’euro, presentandola come provocata dalle istituzioni europee. Molti lavoratori credono che ciò sarebbe un bene, perché il ritorno alla moneta nazionale permetterebbe all’Italia di attuare una svalutazione monetaria tale da favorire le esportazioni, ma il potere d’acquisto dei lavoratori diminuirebbe drasticamente. Negli anni ’60 e ‘70, quando la svalutazione competitiva funzionò da traino allo sviluppo italiano, i lavoratori si opposero con aspre lotte alla riduzione del loro potere d’acquisto, ottenendo l’introduzione, nel 1975, della scala mobile, ossia di un meccanismo volto ad allineare automaticamente i salari all'aumento dei prezzi. Ma già 9 anni dopo, tale dispositivo venne seriamente attaccato dal governo Craxi, per essere superato del tutto negli anni successivi. Oggi, in assenza di scala mobile, la svalutazione competitiva sarebbe devastante per la classe lavoratrice. Così come, molte ricadute negative avrebbe un altro scenario, remoto ma non impossibile: la scissione del paese in due, conseguenza dello scontro tra le componenti della borghesia prossime a leghisti e pentastellati e quelle europeiste. E’ perciò più che mai necessario lottare contro le ipotesi sovraniste da un punto di vista di classe e una battaglia così impostata può creare il terreno migliore anche per contrapporsi all’eventuale avvento di un governo del Presidente, di nuovo europeista e gestito magari da un tecnico alla Cottarelli. Una possibilità, questa, che potrebbe affacciarsi nel caso di un crollo dell’esecutivo attuale sotto i colpi dell’UE. Sviluppando concretamente questa opposizione, occorre prendere le distanze da quei settori della sinistra che vorrebbero “depurare” gli eccessi razzisti di Di Maio e Salvini per chiedergli il rispetto delle promesse di protezione sociale di cui si diceva. Tanto più che tali “eccessi” rientrano, in realtà, nel progetto di fare dei lavoratori immigrati una sorta di colonia interna, con meno diritti e nell'impossibilità di effettuare qualsiasi rivendicazione salariale. Ai lavoratori italiani, che al momento in maggioranza l’approvano, va fatto capire che dall’attacco sistematico agli immigrati non trarranno nulla di buono, perché la creazione di una vasta area di manodopera a bassissimo costo non può che indebolire l’intera classe proletaria. Inoltra, va indicata la necessità di non aggregarsi alla propria borghesia e al suo Stato, collegandosi invece agli altri lavoratori su scala internazionale. Non si parla di qualcosa di facile a farsi, però qualche esempio c’è già, come dimostra il caso della Ryanair, in cui lavoratori di vari paesi, spesso senza pregresse esperienze sindacali, si sono uniti per far valere i propri interessi.

Una lotta esemplare
Un episodio di lotta che è stato oggetto di un esame specifico, nel quale s’è ricordato come l’unione dei lavoratori, al di là dei confini nazionali, sia stata una conseguenza di ben precisi fattori materiali. Il fatto è che piloti, assistenti di volo e personale di terra della compagnia aerea irlandese low cost, pur essendo lavoratori “specializzati”, vivono una precarietà estrema, con condizioni di lavoro e salari nettamente peggiori rispetto a quelle dei loro colleghi di altre compagnie. La mobilitazione ha avuto il suo inizio il 15 dicembre 2017, con una sciopero di piloti e assistenti di volo con base in Italia: è stato l’avvio del percorso sfociato nel primo sciopero europeo, preceduto, al principio di luglio, da quell'incontro a Dublino in cui è stata stilata un'ampia carta di richieste, tra le quali un serio aumento retributivo, permessi e periodi di malattia pagati e il riconoscimento della normativa sul lavoro dello Stato in cui il dipendente è attivo (Ryanair applica a tutti la pessima normativa irlandese). Il 25 e il 26 luglio lo sciopero ha trovato attuazione in Italia, Spagna, Belgio e Portogallo; il 10 agosto, invece, in Germania, Svezia, Irlanda, Olanda e Belgio. Un altro sciopero a scala continentale, poiché l’azienda ha manifestato di voler recepire solo in minima parte le istanze dei dipendenti, si è svolto il 28 settembre. Si è delineato, insomma, un processo inedito, che rivela quanto possano essere incisive le azioni condotte con determinazione da lavoratori che superino la logica delle barriere nazionali: la sola induzione della compagnia aerea in questione alla trattativa già di per sé spezza il clima precedente, segnato dalla totale sottomissione della manodopera ai voleri aziendali. Certo, si parla di un segnale ancora lontano dal generalizzarsi, ma è chiara l’indicazione che ne deriva: i lavoratori, per difendersi, più che legarsi al carro della propria borghesia debbono organizzarsi su una scala internazionale.

Il consenso al governo nasce anche da fattori oggettivi

Un indirizzo che, se si affermasse definitivamente, segnerebbe una svolta in un contesto in cui i lavoratori, più che essere semplicemente passivi, si muovono contro i propri stessi interessi. Di tale spinta vanno indagate le cause ultime, che rimandano a un processo oggettivo. In un tempo non lontano, prevaleva una produzione di stampo nazionale, per cui per vie nazionali ci si poteva difendere; per dire, riferendosi alle storiche battaglie dei metalmeccanici, incrociando le braccia nei diversi stabilimenti della FIAT della penisola qualcosa la si otteneva. Ma oggi, l’accentuarsi dell’internazionalizzazione del capitale ha avuto conseguenze non solo sul commercio ma anche sulla produzione, tanto che una singola automobile viene prodotta in circa 60 paesi. Perciò, per esemplificare, se gli operai di Pomigliano scioperano, in tempi rapidi viene chiesto un aumento del flusso dei semilavorati da altri stabilimenti in giro per il mondo, di conseguenza neutralizzando gli effetti della lotta. Di fronte alla crisi dei passati modi difendersi, si ha la percezione di poter migliorare la propria condizione attraverso il successo della propria nazione. E’ quindi su queste basi che si spiega il consenso all’esecutivo odierno, che sarebbe un errore clamoroso far dipendere solo da una ben orchestrata campagna propagandistica. La questione è che, non individuando altre strade per far valere i propri diritti, molti lavoratori sono convinti che l’affermazione dell’Italia nel mondo, magari ottenuta schiacciando altri popoli, possa avere effetti positivi sulla loro condizione. In questo contesto vanno valorizzati tutti i segnali, grandi o piccoli, che si collocano in un’altra direzione, dalle appena citate lotte internazionali dei lavoratori Ryanair e Amazon al corteo svoltosi a Roma il 27 ottobre scorso, in cui i facchini della logistica, nella stragrande maggioranza immigrati, hanno espresso un netto rifiuto del destino di super-sfruttamento loro riservato dal padronato.

Degrado urbano e logica del mercato
Tra l’altro, la stampa obbediente al padronato, nelle ultime settimane ha inasprito la campagna contro gli immigrati. Al fine di giustificare le scelte governative (e provvedimenti feroci come il Decreto Sicurezza) si cerca di lucrare il più possibile da terribili fatti di cronaca, come la vicenda di Desirée, violentata e uccisa in uno stabile abbandonato a San Lorenzo, il quartiere che, in Via dei Reti, ospita anche la sede romana dell’OCI. Ma il degrado estremo in cui versano le città in ci viviamo è uno dei prodotti più rancidi della logica del mercato. Che spinge ad agglomerare nei grandi centri milioni di persone, facendole vivere in condizioni estremamente differenziate. Nella deliberata assenza di qualsiasi politica di regolamentazione dello sviluppo urbano, crescono i ghetti, luoghi della degradazione fisica e morale delle persone. E si sviluppano fenomeni funzionali al sistema, come lo spaccio capillare di sostanze stupefacenti, che raggiunge soprattutto i settori giovanili. La tragica morte di Desirée, direttamente perpetrata da bestie appartenenti al proletariato, rinvia a responsabilità ultime dello Stato, che favorisce la creazione di sacche in cui si dissolve completamente una dignitosa vita sociale. Del resto, in questa fase storica, la degradazione dei rapporti umani attraversa tutti gli ambiti, a partire da quello familiare, sempre più spesso luogo in cui si consumano violenze ai danni delle donne e dei minori. Intervenendo in quartiere, alle iniziative successive alla morte di Desirée, le compagne dell’OCI hanno sottolineato anche le responsabilità istituzionali a monte di questa tragica vicenda. In quest’ottica, hanno rimarcato una differenza rispetto alle femministe di Non Una di Meno, di cui pur apprezzano alcuni discorsi, tra cui quello per cui la violenza contro le donne non ha passaporto, viene agita dagli uomini e non può esser usata per avviare campagne strumentali contro gli immigrati. Ma l’impianto teorico di Non Una di Meno sembra rimandare ad un discorso di carattere educativo e/o di rivoluzione culturale, mentre quel che occorre è una lotta contro le ragioni materiali per cui la donna è oppressa, una lotta che non può essere scissa da quella più generale contro il capitalismo. In effetti, ad avviso di chi scrive, in queste precisazioni delle compagne e dei compagni del Che Fare c’è molto di vero: è solo partecipando a questa battaglia assieme alle donne che, per tanti uomini, sarà più facile “educarsi” ed autocriticarsi, liberandosi da quella cultura del dominio maschile che gli è stata trasmessa in famiglia e che gli viene confermata giorno dopo giorno sui media.

L’intatta forza del marxismo rivoluzionario
Questa discussione sul degrado, condotta a più voci, ha portato con sé una denuncia della natura sessista dell’alleanza giallo-verde, impegnata a mettere in discussione conquiste fondamentali, come dimostrano la mozione anti-abortista approvata al Consiglio Comunale di Verona o quel Decreto Pillon che, di fatto, s’ispira a principi opposti a quelli espressi nella Riforma del Diritto di Famiglia del 1975 e volti a tutelare le donne e i figli. Un’ulteriore conferma del quadro a tinte fosche in cui siamo indotti ad operare, ma ai comunisti non è consentito di crogiolarsi in quel pessimismo che viene diffuso consapevolmente dalla borghesia per far passare il concetto che il mondo non può esser cambiato. Certo, l’ottimismo di chi opera per il definitivo superamento del dominio capitalistico non può sganciarsi dal realismo, per cui sottolineare la positività di alcuni momenti di lotta, come è stato fatto nel corso della riunione, non significa dimenticare la situazione di arretramento complessivo nella coscienza dei lavoratori. Semmai, va ricordato che, in ogni caso, chi vuole abolire lo stato di cose presente continua a disporre di uno strumento potente, che offre grandi possibilità in termini di lettura della realtà e, conseguentemente, di definizione di un efficace agire politico: si tratta del marxismo rivoluzionario. Non sono state intuizioni di “menti eccelse”, ma un lavoro collettivo orientato da questa dotazione teorica che hanno permesso di restituire con precisione la natura di classe dell’esecutivo Di Maio-Salvini, evitando di farsi abbagliare, come tanti altri a sinistra, dal fuorviante scontro mediatico-politico tra la borghesia sovranista e quella europeista.

Il Pane e le rose - Collettivo redazionale di Roma

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