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    AVOLA, CINQUANT'ANNI FA

    (2 Dicembre 2018)

    Muaro De Mauro

    Mauro De Mauro

    Il 2 dicembre 1968 ad Avola, in provincia di Siracusa, una manifestazione a sostegno della lotta dei braccianti per il rinnovo del contratto di lavoro finisce nel sangue: la polizia apre il fuoco e due lavoratori – Giuseppe Scibilia, di 47 anni, e Angelo Sigona, di 25 – vengono uccisi. Quarantotto i feriti, di cui due gravi.
    Un tragico episodio che sul piano storico lascia ancora un interrogativo: l’aggressione poliziesca quale ultimo strascico delle lotte bracciantili che si erano svolte nel Sud Italia a partire dagli anni’50 e che avevano avuto negli episodi di Portella della Ginestra, Melissa, Montescaglioso i loro momenti culminanti? Oppure si è trattato dall’avvio della nuova fase di repressione e di strategia della tensione destinata a contenere e soffocare l’ondata di libertà che arrivava dal ’68 che poi sarebbe diventato, in Italia, il 1969 dell’autunno caldo?
    Il dicembre 1968 rappresenta un momento di grande tensione nel Paese:sono in corso imponenti lotte sindacali e si sta spingendo molto per l’unità delle tre grandi sigle CGIL-CISL – UIL.
    Si sta formando un nuovo governo di centro sinistra presieduto da Mariano Rumor nella cui compagine assumerà l’incarico di ministro del Lavoro il socialista Giacomo Brodolini, padre dello Statuto dei Lavoratori cui si accennerà più avanti, che come primo atto del suo mandato si recherà ad Avola ad incontrare i contadini protagonisti di quelle rivendicazioni sindacali che avevano dato luogo alla dura reazione voluta dal Questore.
    Ma in quale Italia si svolsero i tragici fatti di Avola?
    Era ancora l’Italia delle “gabbie salariali”: le gabbie salariali nascono con un accordo firmato il 6 dicembre del 1945 tra industriali e organizzazioni dei lavoratori, per la parametrazione dei salari sulla base del costo della vita nei diversi luoghi. Entrate in vigore nel 1946, all'inizio furono previste solo al nord, e solo in seguito estese a tutto il paese. In origine, la divisione era in quattro zone, ciascuna con un diverso calcolo dei salari. Nel 1954 il paese intero viene diviso in 14 zone nelle quali si applicano salari diversi a seconda del costo della vita. Tra la zona in cui il salario era maggiore e quella in cui il salario era minore la distanza poteva essere anche del 29%. Nel 1961 il numero di zone fu dimezzato, si passò da 14 a 7, e la forbice tra i salari passò dal 29% al 20%. Il sistema delle gabbie salariali incontrò una progressiva e sempre più forte opposizione di sindacati e lavoratori, che le consideravano discriminatorie e poco eque. Il sistema fu abolito nel 1969 sulla spinta di forti mobilitazioni operaie. L'abolizione fu graduale e fu completata nel 1972 .
    Ed era l’Italia dove non era stato ancora approvato lo Statuto dei Lavoratori: La legge 20 maggio 1970, n. 300 - meglio conosciuta come statuto dei lavoratori - è una delle principali normative della Repubblica Italiana in tema di diritto del lavoro. Introdusse importanti e notevoli modifiche sia sul piano delle condizioni di lavoro che su quello dei rapporti fra i datori di lavoro, i lavoratori con alcune disposizioni a tutela di questi ultimi e nel campo delle rappresentanze sindacali; ad oggi di fatto costituisce, a seguito di minori integrazioni e modifiche, l'ossatura e la base di molte previsioni ordinamentali in materia di diritto del lavoro in Italia. Modernizzando finalmente il mondo del lavoro anche nel nostro Paese.
    Torniamo però a raccontare Avola, in quel giorno di dicembre 1968.
    Così, sei giorni più tardi, Rassegna Sindacale riporta l’accaduto: “L’eccidio di Avola ha destato in tutta Italia, in primo luogo, naturalmente, fra i lavoratori e le loro organizzazioni, un moto profondo di collera”. Appena informata dei gravissimi avvenimenti, la segreteria della Cgil esprime, per mezzo di un comunicato, “l’indignazione e la condanna dei lavoratori italiani per l’eccidio compiuto dalla polizia in armi contro i braccianti di Avola”.
    “Due morti e numerosi feriti gravi – scrive ancora Rassegna citando il comunicato della confederazione – sono il tragico risultato di un’aggressione della forza pubblica contro i lavoratori agricoli, in lotta unitaria per il rinnovo del contratto di lavoro nella provincia di Siracusa. Bombe lacrimogene e raffiche di mitra hanno violentemente represso una manifestazione sindacale e popolare causata dall’atteggiamento provocatorio degli agrari, i quali venerdì non si erano neppure presentati alle trattative convocate dal prefetto. La Cgil, mentre chiama i lavoratori alla protesta più larga e unitaria in Sicilia e in tutto il Paese, richiama i democratici tutti alla vigilanza contro questi metodi indegni di un Paese civile, e ripropone la necessità di un immediato disarmo della polizia e dei carabinieri in servizio di ordine pubblico e particolarmente durante le lotte di lavoro”.
    Torniamo alle fonti e riproduciamo in questa sede, senza commento, l’articolo apparso l’8 dicembre 1968 sulle colonne dell’Espresso (all’epoca ancora “formato lenzuolo”) e firmato da Mauro De Mauro: due anni dopo De Mauro sarà rapito, presumibilmente dalla mafia, e il suo corpo mai più ritrovato. Uno dei delitti più misteriosi di quel torbido periodo.
    Ecco l’articolo: per non dimenticare.
    Senza commento se non per ricordare la rabbia e la tristezza di allora che oggi si rinnova.


    I contadini uccisi ad Avola
    Volevano solo trecento lire in più

    di Mauro De Mauro
    Sono morti in due. Gli hanno sparato con i mitra. Protestavano per avere una paga uguale a quella dei braccianti di un paese vicino
    Avola – Al ventesimo chilometro della statale 115, quasi alle porte di Avola, non si passa più. Bisogna scendere dalla macchina e proseguire a piedi verso il grosso borgo che si intravede poco al di là della curva, quasi di fronte al mare. È difficile mantenersi in equilibrio sull’asfalto di pietre e di bossoli. È uno spettacolo desolante; si ha la precisa sensazione che qui, per diverse ore, si è svolta un’accanita battaglia. In fondo al rettilineo la strada è parzialmente ostruita dalle carcasse ancora fumanti di due automezzi della polizia dati alle fiamme. Sull’asfalto, qua e là, delle chiazze di sangue rappreso. Anche un autotreno, messo di traverso dagli operai in sciopero per bloccare la strada, è sforacchiato dai colpi e annerito dal fuoco. Proprio come una R4 e una decina di motociclette dei braccianti sui cui serbatoi i poliziotti hanno sparato per impedirgli di andarsene.
    Sono le dieci di sera di lunedì 2 dicembre. Giornalisti e fotografi, accorsi da tutta l’Italia, stanno raggiungendo un paese il cui nome resterà a lungo nella storia delle lotte sindacali italiane.
    È una prospera cittadina, a pochi chilometri da Siracusa, al centro di una ricchissima zona di orti e di agrumeti. Fino a ieri era noto come il “posto delle mandorle”, le buone, dolcissime, tenere mandorle di Avola. Da oggi non si potrà più nominare senza venir colti da un senso di sgomento e di profonda amarezza.
    Due chili di bossoli
    Giuseppe Scibilia, di quarantasette anni, era nato qui. Angelo Sigona, di ventinove, era nato a pochi chilometri di distanza, a Cassibile, il paese dove, nel settembre del ’43, il generale Castellano firmò l’armistizio per l’Italia sotto la tenda del generale Eisenhower. Ora sono tutti e due distesi nella sala mortuaria dell’ospedale civile di Siracusa. Gli hanno sparato poliziotti di ogni grado, appartenenti al battaglione mobile di Siracusa, con armi diverse: dai mitra corti in dotazione agli agenti, alle pistole calibro 9, 7.65 e 6.35 in dotazione a sottufficiali, ufficiali e funzionari di Pubblica Sicurezza. Una parte delle centinaia di bossoli raccolti poco fa sul campo di battaglia sono in possesso della Federbraccianti. Qualcuno, il deputato Antonino Piscitello, che si trovava sul posto al momento dell’eccidio, li ha anche pesati: erano più di due chili. Il piombo delle forze dell’ordine ha ridotto in fin di vita altri quattro braccianti. Uno di essi, Giorgio Garofalo, nato ad Avola trentasette anni fa, ha tredici pallottole nel ventre.
    Fa freddo. La statale 115 è in parte gelata. Ma dà un senso di gelo maggiore il doversi occupare ancora, dopo venticinque anni di lotte sindacali, di braccianti caduti sotto le raffiche della polizia. Stavano scioperando per difendere diritti e interessi elementari. Il presidente della Confagricoltura, conte Alfonso Gaetani, era in viaggio alla volta di Siracusa per contendere a questi uomini il miglioramento che reclamavano, ma la battaglia del chilometro 20 ha interrotto il suo viaggio.
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    Tutto cominciò dieci giorni fa, quando i braccianti agricoli aderenti alle tre maggiori organizzazioni sindacali (Cgil, Cisl e Uil) decisero d’intraprendere una grande azione unitaria. Si trattava di ottenere un aumento del 10 per cento sulle paghe, ma soprattutto il riconoscimento di un elementare diritto fino ad oggi negato: la parità di trattamento salariale tra addetti a uno stesso lavoro in due zone diverse di una stessa provincia. Questo infatti è un paese in cui si può ancora morire battendosi non per equiparare i salari di Avola a quelli di Milano, ma per ottenere che il bracciante di Avola abbia un salario non inferiore a quello del bracciante di Lentini. Perché la provincia di Siracusa è divisa in due zone: la zona A, che comprende i braccianti di Lentini, Carlentini e Francoforte, in cui la paga giornaliera è di 3480 lire; e la zona B, con Siracusa e i restanti comuni della provincia, in cui la paga è di 3110 lire.
    Tutto questo, nonostante che la provincia di Siracusa sia una tra le più floride della Sicilia. Florida cioè per i proprietari terrieri, che da ogni ettaro di agrumeto riescono a trarre annualmente un reddito netto che varia tra le 600 e le 800 mila lire. In realtà, il reddito medio pro capite in provincia di Siracusa è tra i più bassi d’Italia. E se la media statistica crolla a questi valori da mondo sottosviluppato, è per le condizioni di vita del bracciantato locale. Per questo già due anni fa ci furono rivendicazioni e proteste, e a Lentini una serie di gravissimi incidenti con poliziotti e carabinieri. Anche allora si trattava di un’azione sindacale originata dal rinnovo del contratto di lavoro. Ma allora c’erano stati dei feriti. Oggi si piangono i morti.
    Di fronte al rifiuto degli agrari di prendere contatto con i rappresentanti delle organizzazioni sindacali, il 25 novembre scorso, lunedì, 32.000 lavoratori agricoli incrociano le braccia abbandonando i “giardini” dove in questi giorni maturano gli aranci. All’azione partecipano, consapevoli dell’importanza del problema, tutti i sindaci dei paesi interessati, socialisti, democristiani, comunisti. Ma i proprietari non cedono, rifiutano l’incontro e la contrattazione, adottano ogni sorta d’espediente per prendere tempo. Così, dalle piazze dei paesi i braccianti in sciopero dilagano lungo le strade provinciali, innalzano blocchi di pietre nella speranza che le interruzioni del traffico attirino l’attenzione del governo. E infatti qualcuno si accorge delle pietre, dei blocchi delle strade, del traffico difficile: ma non del problema per il quale ci si batte. Il prefetto di Siracusa convoca il sindaco socialista di Avola e lo invita a intervenire perché i blocchi vengano rimossi e il traffico possa riprendere immediatamente. «Lei è il primo cittadino di questo paese», dice in sostanza il prefetto, «e il suo dovere è dunque quello di indossare la fascia tricolore e di raggiungere gli scioperanti per convincerli a sciogliere la manifestazione». Ma il sindaco Danaro non è affatto d’accordo. «Indosserò la fascia tricolore», risponde, «e andrò a unirmi agli scioperanti per presentarmi alla polizia e intimarle di abbandonare il paese».
    Così avviene, infatti. E così, nel primo pomeriggio di lunedì, mentre un centinaio di braccianti agricoli sono intorno a uno sbarramento di pietre eretto al 20° chilometro della statale 115, poco prima del bivio per il Lido di Avola, nove camionette cariche di agenti, per complessivi novanta uomini, arrivano da Siracusa e si arrestano di fronte al blocco intimandone lo smantellamento immediato. Sono novanta uomini col mitra in mano, il tascapane pieno di bombe lacrimogene, l’elmetto d’acciaio col sottogola abbassato. È quanto basta perché i braccianti esasperati reagiscano con un primo lancio di pietre. I poliziotti sbandano. L’ufficiale che li comanda grida un ordine secco, e una prima scarica di bombe piove sul gruppo degli scioperanti sprigionando una densa nuvola di fumo bianco. Ma il gas, invece di intossicare gli operai, investe, trasportato dal vento, gli stessi poliziotti i quali vengono contemporaneamente respinti da una seconda bordata di pietre. I piani di battaglia elaborati al tavolino dai comandanti delle forze dell’ordine sono travolti dagli avvenimenti. Da uno scontro frontale la battaglia si frantuma in una serie di piccoli episodi di violenza, uomo contro uomo, e dalla strada si trasferisce nei campi circostanti.
    Altri braccianti accorrono dal paese e dalle case coloniche vicine. Disseminati e privi di collegamento tra loro, i poliziotti rischiano di venire sopraffatti. Perdono la testa. Qualcuno comincia a sparare. In pochi secondi le grida che fino a quel momento avevano dominato il campo di battaglia vengono coperte da una serie di scariche frastornanti, ininterrotte, un inferno che soffoca il gemito dei primi feriti. Le file dei braccianti indietreggiano, gli uomini si danno alla fuga, la polizia rimane padrona del campo. Ma è una vittoria talmente amara e tragica, che le forze dell’ordine non se la sentono di presidiare il campo di battaglia. Dopo aver operato una diecina di fermi e aver smantellato il blocco stradale, gli agenti abbandonano la zona e lo stesso centro di Avola, consapevoli che la loro presenza potrebbe scatenare reazioni.
    Adesso, alle undici di sera, Avola sembra un paese di fantasmi. Dalle due del pomeriggio la vita si è fermata, i negozi hanno abbassato le saracinesche in segno di protesta e di lutto, le due sale cinematografiche hanno chiuso. Una folla immobile e muta indugia sulla piazza principale dove poco fa il sindacalista Agosta ha tenuto un comizio a nome della Federazione dei braccianti. In giro non si vede neppure una divisa. È come se l’intero paese stesse aspettando di riprender contatto con una realtà che tuttora appare incredibile. Ma il cordoglio, come del resto la destituzione del questore di Siracusa Vincenzo Politi o le deplorazioni ufficiali, evidentemente non bastano.

    Franco Astengo

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