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(15 Agosto 2012) Enzo Apicella

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Fuori dall'euro o fuori dal riformismo?

Riflessioni (sulle necessità di classe) a partire da un recente libro di Domenico Moro

(10 Dicembre 2018)

gabbia euro moro

Nell’ultimo libro di Domenico Moro (La gabbia dell'euro. Perché uscirne è internazionalista e di sinistra, Imprimatur, 2018) la questione dell’euro è affrontata soprattutto come “una questione politica, cioè di scelte basate su interessi di classe e tese a modificare i rapporti di forza” tra le classi stesse. Un approccio che ci interessa perché consente di prescindere dal concretismo nel quale è ristretto il dibattito attuale, di fatto incapace di fuoriuscire dall’orizzonte capitalistico.
Come già il sottotitolo mette in luce, l’intento principale di Moro è quello di rispondere a chi, nell’ambito della sinistra, non prende in considerazione una proposta politica incentrata sull’uscita dall’euro, ritenendola politicamente e storicamente regressiva in quanto comporterebbe il ritorno alla nazione e quindi a un alveo concettuale di destra. Un rifiuto che, nel libro, viene contestato anche a partire dall’esame del dibattito ideologico delle classi dominanti.
A detta di Moro, nel contesto storico attuale, l’ideologia di riferimento, e necessaria, della classe dominante non sarebbe tanto il nazionalismo quanto il cosmopolitismo: “il nazionalismo non è la forma adeguata al capitale in questo momento storico. anche perché i meccanismi oggettivi dell'euro e i vincoli europei sono tanto più efficaci quanto più appaiono politicamente neutrali e progressisti, in particolar modo rispetto al neofascismo, al nazionalismo, alla xenofobia”. Entrando ancor più nel merito, egli asserisce che, “nella misura in cui l’integrazione europea (specie monetaria) favorisce i suddetti processi del capitale, l’ideologia europeista” si pone come “articolazione diretta, in Europa”, di una versione del cosmopolitismo che ha perso i suoi originari tratti progressivi, legati alle idealità del secolo dei Lumi. Per quanto riguarda invece, “il nazionalismo e la xenofobia, così come il successo di partiti cosiddetti populistici o di estrema destra”, essi sono considerati in quanto “risposta immediata a una situazione, determinata dal capitale, di aumento dei divari di crescita economica tra Paesi della Uem e della polarizzazione sociale tra le classi di ciascun Paese”. Ovviamente, si riconosce il loro utilizzo ai fini della divisione del “fronte del lavoro salariato” ma si precisa che sono cosa altra dalla ideologia oggi “tipica dell’élite capitalistica, cioè delle imprese multinazionali e transnazionali che rappresentato il vertice dell’accumulazione capitalistica in Europa occidentale e in Italia”.
L’autore inoltre sottolinea quanto la dimensione europea abbia consentito la sopravvivenza dei capitali nazionali nella competizione globale e nello scontro imperialista in atto. L’integrazione europea è stata dunque una condizione necessaria per allargare la base dell’accumulazione, e in questo contesto l‘euro ha operato da leva per la “riorganizzazione dell'accumulazione nella fase capitalistica globale“, resasi necessaria soprattutto in paesi come l’Italia. Qui, infatti, l’assetto dei rapporti di forza tra le classi precedentemente cristallizzatosi grazie alla forte conflittualità degli anni 70-80, rendeva problematico, senza il vincolo esterno europeo, operarne una modifica a favore del capitale. Così, a un processo di rafforzamento dell’esecutivo tramite l’uso esasperato della formula legislativa della decretazione d’urgenza, e con le modifiche al sistema elettorale in senso maggioritario, s’è affiancato, moltiplicandone gli effetti, il processo di integrazione europea. Mediante il quale, “il parlamento” è stato “superato dagli organismi sovrastatali” mentre “i meccanismi oggettivi dell’euro costringono alla disciplina di bilancio e alla compressione dei salari, permettendo l'imposizione di controriforme che in condizioni diverse non sarebbero mai passate”. Per questo, secondo Moro una prospettiva anti-euro e contro i trattati non rimanda alla difesa della nazionalità in quanto senso di identità culturale ed etnica, bensì al contrasto a precise politiche di classe.
Secondo l’autore, in effetti, nel nuovo quadro europeo non esiste una nazionalità tra le altre che in particolare venga oppressa dall’euro. Lo sono invece alcune classi, e certo non tutte con la stessa intensità. Una constatazione che permette a Moro di alludere (certo, a valle di un processo di ricomposizione della classe lavoratrice salariata, pena la debolezza del tentativo) alla necessità della costruzione di un nuovo blocco sociale tra le classi che hanno “subito la riorganizzazione dell’accumulazione capitalistica, attraverso l’espropriazione della volontà popolare” avvenuta mediante l’integrazione europea.
Il fatto che la battaglia per mettere radicalmente in discussione questo contesto non sia sentita come prioritaria, rinvierebbe sia all’incapacità di cogliere la funzione giocata dall’euro nelle trasformazioni socio-economiche degli ultimi decenni, sia a un certa mentalità della sinistra radicale, incapace di “muoversi sul terreno dei rapporti di forza complessivi tra le classi per realizzare la loro modificazione”. La politica infatti può diventare strumento di trasformazione della realtà, quindi farsi politica rivoluzionaria, solo se si ha la capacità di superare il particolare per andare su un piano generale: “Lenin definiva la tendenza particolaristica con il termine di economicismo o di trade-unionismo, perché impersonata dal sindacato, e quella generale come coscienza di classe, questa sarebbe dovuta provenire dall’esterno. Ma, al contrario di come alcuni hanno interpretato, l’”esterno” per Lenin non è il partito, inteso come avanguardia separata e detentrice di una verità assoluta da calare nelle teste dei lavoratori, bensì è il processo esperienziale delle lotte generali, la capacità di ricollegare nella pratica particolare e generale, tattica e strategia”.
E’ fondamentale secondo noi che tali questioni tornino all’interno del confronto tra i comunisti, ed è uno dei meriti del testo quello di riproporle. La debolezza intrinseca degli approcci parziali dovrebbe essere finalmente avvertita dai molti settori appiattiti sulla lotta vertenziale, sia che essa venga condotta sotto le spoglie del sindacalismo formale, sia che si fondi su un approccio alla politica tale da configurare un sindacalismo de facto. Dalla limitatezza di questi approcci non si esce con generici richiami ideologici appiccicati alle vertenze, e nemmeno fa fare passi avanti nella costruzione di una alternativa che si ponga il problema della modificazione dei rapporti tra le classi, lo svolgere una qualche funzione contingentemente “utile”, ché questa, in sé, non produce quel necessario accumulo di forza per produrre il quale è necessaria la capacità di fornire un indirizzo generale di riferimento alla classe.
Si sta parlando, dunque, di riallacciare l’azione quotidiana al discorso generale e la tattica alla strategia. Per quale via si può render concreto tale nesso? Secondo Moro “con la capacità di identificare e tenere con mano salda gli anelli che risultano di volta in volta decisivi nella catena del divenire storico della società capitalistica”. E oggi questo anello centrale sarebbe “l’integrazione europea e in particolare l’integrazione valutaria. In effetti, non è credibile lottare per la sanità, per il salario, per la creazione di posti di lavoro, per i servizi del proprio comune se si cozza contro la gabbia dell’integrazione europea, soprattutto valutaria”.
Si allude qui a una importante questione di metodo che dovrebbe caratterizzare il lavoro politico, ossia alla necessità di individuare quali siano i progetti politici di volta in volta centrali, messi in campo dello “strato di vertice e internazionalizzato del capitale“ per attestare i rapporti di forza tra le classi ad un dato livello, quindi per la perpetuazione del proprio dominio di classe.
In sostanza, il lavoro di Moro fornisce un quadro compiuto in merito all’euro, alla sua natura e alle sue conseguenze. Dal quale, a nostro avviso, non si può prescindere anche quando non si abbia come obiettivo prioritario l’integrale ripristino delle tradizionali leve dello Stato-nazione in materia economica. Non c’è dubbio infatti che il progetto di integrazione europea, in particolare monetaria, abbia rivestito il carattere di progetto centrale della borghesia ai fini della ridefinizione dei rapporti di forza tra le classi. Ed è quindi quanto mai necessaria un’operazione di denuncia della natura di questo progetto, intorno alla quale aggregare forze per un’opposizione al sistema capitalistico.
Qualche dubbio nutriamo, invece, sulla tesi secondo la quale l’uscita dall’euro, ripristinando condizioni più favorevoli all’iniziativa della classe dei lavoratori, produrrebbe un effettivo avanzamento politico nella rappresentazione dei suoi interessi generali, quindi in ultima istanza nel perseguimento dell’obiettivo di uscire dal capitale. Intanto va sottolineato che non c’è nessun automatismo nel ripristino di queste condizioni “più favorevoli”. Muovendo da una visione non apologetica del quadro pre-euro, differenziandosi quindi non tanto da Moro quanto da realtà politiche come Patria e Costituzione dell’onorevole Fassina, non si può non riconoscere che, nei decenni di maggiore espansione dell’economia italiana, la sovranità monetaria ha implicato anche quella svalutazione competitiva che, necessaria a trainare le esportazioni, intaccava fortemente il potere d’acquisto di lavoratrici e lavoratori. I quali, infatti, hanno dovuto dare vita ad aspre lotte per ottenere un reale adeguamento dei salari all’aumento dei prezzi (con l’introduzione, nel 1975, della scala mobile). E questo è un primo aspetto del problema, legato all’azione padronale. L’altro corno rimanda alle condizioni attuali della soggettività politica in Italia e al modo in cui essa interverrebbe in un contesto (sulla carta) meno svantaggioso per chi lavora.
Se è vero infatti che “non è credibile lottare per la sanità, per il salario, per la creazione di posti di lavoro, per i servizi del proprio comune se si cozza contro la gabbia dell’integrazione europea”, è altrettanto vero che queste lotte, soprattutto a partire dagli anni ’90, sono rimaste pur sempre confinate nella vertenzialità fine a se stessa (oltre all’aver prodotto una legittimazione delle sponde politiche istituzionali funzionali alla riuscita delle vertenze). In altre parole, queste lotte, anche quando magari “vincevano”, non producevano quella necessaria sintesi, richiamata anche da Moro, tra particolare e generale sulla quale soltanto può fondarsi la costruzione di una reale alternativa al sistema capitalistico.
Mancava una politicizzazione del conflitto in quanto questa cozzava contro altra formidabile gabbia contro cui hanno sbattuto appunto quelle poche forze allineate su posizioni di classe: quella edificata dalla sinistra collaborazionista.
In questo senso, viene quasi da evidenziare un paradossale “merito” del progetto di integrazione europeo che, oltre a produrre uno spostamento dei rapporti di forza tra le classi a favore del Capitale, ha anche marginalizzato quelle forze di sinistra (tutt’altro che radicali) che si erano dimostrate inadeguate alla rappresentazione degli interessi generali della classe dei lavoratori, risultando quindi responsabili del suo arretramento e della sua impreparazione di fronte all’attacco insito nel progetto “europeista”.
SI è fatta quindi piazza pulita anche delle illusioni di lavoratori e militanti che in buona fede si sono fatti in passato irretire nella trappola di chi ha propagandato una riformabilità del modo di produzione capitalistico, se non addirittura la possibilità di una gradualità del processo di emancipazione della classe lavoratrice attraverso le solite “tragicomiche conquiste immediate”.
Una semplificazione del quadro della scontro tra le classi che offre, oggi, spazi e opportunità alla ricostruzione di una sinistra di classe, che vada oltre la pur sacrosanta resistenza per la difesa degli interessi immediati e che si cimenti nel recupero di un punto di vista che metta in discussione le radici stesse del modo di produzione capitalistico. Insomma, da uno scenario in larga misura nuovo derivano nuove sfide e nuove responsabilità per i comunisti.

Il Pane e le rose - Collettivo redazionale di Roma

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