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Sparire al Cairo, una mattina

(17 Gennaio 2019)

Hoda Abdel Moneim

Hoda Abdel Moneim

Dopo esser stata reclusa in luoghi segreti che non sono prigioni, dov’era stata condotta da agenti della National Security Agency con un prelevamento forzato, l’avvocato dei diritti l’egiziana Hoda Abdel Moneim è comparsa ieri davanti a un giudice. L’udienza non ha avuto conseguenze, ha semplicemente rimandato l’accusata a una nuova comparizione. Ma accusata di cosa? Di aver difeso altri accusati: attivisti dei diritti, spesso giovani e addirittura minorenni, colleghi e giornalisti, che sono le categorie oramai sotto il tiro del regime che per anni s’è sfogato con gli oppositori. Ma la sessantenne Hoda ha un’altra colpa: essere moglie d’un collaboratore del deposto presidente Morsi, anche per questo è finita nella retata lanciata con zelo dagli apparati della “sicurezza” contro i familiari di membri della Fratellanza Musulmana finora risparmiati dalla repressione. Ovviamente dietro input del ministro dell’Interno Ghaffar, il mandante col generale Sisi dell’omicidio del Regeni italiano e dei molti Regeni d’Egitto.

La fama di legale battagliera e di donna coraggiosa sta preservando Hoda da trattamenti peggiori, quelli denunciati dai suoi stessi assistiti (violenza e tortura), ma la mattina del 1° novembre quando una squadra di mukhabarat ha visitato la sua abitazione a Nasr City, sobborgo del Cairo, non è stata certo riguardosa della privacy. Lo testimoniano le foto scattate successivamente dalla figlia che qui pubblichiamo, e le sue domande su dove conducessero la madre sono rimaste per settimane senza risposta. La polizia non ha concesso informazioni neppure a Human Rights Watch, che coi suoi avvocati aveva chiesto i motivi delle retate che fra la fine di ottobre e i primi di novembre scorsi avevano provocato il fermo e la sparizione di un’ottantina di persone. L’ong internazionale, tramite suoi canali, aveva constatato il prelevamento certo di quaranta. Di altri non si sa neanche il nome. Sono attivisti, avvocati e familiari di esponenti della Fratellanza Musulmana. Qualcuno era parente di leader famosi, come nel caso di Aisha Khairat al-Shater, figlia del vicepresidente della Confraternita e famoso imprenditore, fra i primi del Gotha del partito islamista a finire ai ferri.

Essere anche solo conoscente di qualche militante della Brotherhood diventa un pericolo. Ma la stessa vita quotidiana, i momenti privati, gli incontri, i convivi, seppure svolti in luogo appartato, vengono perseguitati cosicché chi li vive desista definitivamente da frequentare gente e posti. Denunce di avvenimenti come quello descritto ad alcuni volontari che monitorano la violazione dei diritti dell’uomo sono ricorrenti. La scorsa estate, nel pieno centro della capitale egiziana, mentre erano riuniti in un locale apparentemente sicuro, un club privato, alcuni esponenti dell’opposizione a Sisi che banchettavano con amici e parenti hanno dovuto subìre l’irruzione d’una ventina d’energumeni. Questi li hanno minacciati, hanno rovesciato stoviglie e sedie, messo a soqquadro l’intera tavolata. I camerieri del locale rimanevano impietriti, la direzione non ha opposto resistenza né protestato. I presenti non si son fatti irretire dalla provocazione, immaginando che una reazione gli avrebbe creato danni ben peggiori con l’arresto. Si può supporre che gli energumeni fossero agenti in borghese. Molto più facilmente si tratta dei famigerati baltagheya, picchiatori da strada di cui la polizia si serve per intimidire persone e incastrarle con aggressioni dirette e indirette.
16 gennaio 2019

articolo pubblicato su enricocampofreda,blogspot.com

Enrico Campofreda

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