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(19 Gennaio 2019)
All’atto della chiamata “Presente!” si alza il saluto fascista. Persino la stampa borghese non ha potuto ignorarlo.
Dal 2011, in prossimità di metà gennaio, in via Terenziana a Monfalcone ha luogo una adombrata e isolata cerimonia, organizzata dall’associazione di estrema destra Monfalcone Pro Patria, davanti ad un cippo che ricorda Pietro Dominutti ucciso – si legge – per aver “difeso l’italianità” delle terre isontine per mano – si asserisce - di non precisati partigiani “filotitini”. Per “filotitini” si vuole sottintendere la classe operaia comunista del cantiere navale nel periodo della lotta di liberazione. Il Dominutti venne effettivamente ucciso in circostanze mai chiarite il 14 gennaio 1948.
Ora, la definizione di difensore dell’”italianità” delle terre isontino-giuliane ha, dal punto di vista storico, una precisa collocazione politico-pratica: l’opposizione alla lotta partigiana, il fiancheggiamento dell’occupazione nazista in funzione antiproletaria e anticomunista. La collaborazione e unificazione nella guerra resistenziale delle forze partigiane locali con l’Esercito Popolare di Liberazione della Jugoslavia (opzioni peraltro avvallate dal CLNAI) sono state fondamentali per la sconfitta del nazifascismo in queste terre: la zona del monfalconese-goriziano-triestino è stata liberata il 1 maggio dalle operazioni dirette dal comando del IX Corpo d’Armata del EPL jugoslavo che in quell’epoca aveva alle proprie dipendenze operative anche la Divisione d’Assalto Garibaldi- Natisone, la più grande formazione partigiana d’Italia.
D’altro canto i cosiddetti difensori dell’italianità “contro gli slavi”, cioè l’apparato fascista, era stato inglobato nei dispositivi politico-militari di occupazione del Terzo Reich al quale i fascisti italiani avevano consegnato la sovranità giuridica di questo territorio attraverso l’Adriatische Kunstenland. Non proprio una “difesa dell’italianità”….
Tra l’altro questa attività di “italica difesa” del monfalconese conferita al Dominutti risulta anacronistica negli anni ’46-’48, poiché questi territori compresi nella cosiddetta Zona A già erano stati assegnati all’Italia.
In realtà ciò che nella contingenza politica del 1946-50 si concretizzava come “difesa dell’italianità” era la lotta di rappresaglia neofascista contro i protagonisti della resistenza popolare. Di più. Per il suo ruolo centrale nell’organizzare la lotta antifascista e alimentare le file partigiane, la classe operaia del CRDA di Monfalcone (l’allora nome dell’attuale stabilimento Fincantieri), la cui ampia avanguardia militava nel PCI, fu la destinataria principale delle ritorsioni dell’immediato dopoguerra. La Lega Nazionale divenne la principale organizzazione dell’attività terroristica contro gli operai antifascisti. Soprattutto tra il 1946 ed il 1950 da Trieste e Gorizia, passando per Monfalcone, Ronchi dei Legionari, Gradisca, Romans d’Isonzo, essa promosse aggressioni fisiche, lanci di bombe nelle case delle famiglie operaie e contadine di antifascisti, attentati contro le sedi dei partiti operai, dei circoli culturali di amicizia italo-jugoslava, delle Case del Popolo. Testimonianze dirette parlano che in quel periodo le bombe nazionaliste lanciate contro obiettivi antifascisti furono circa 1100. Una campagna di terrorismo nazionalistico che è sparito dalla storiografia ufficiale, persino talvolta censurato.
L’obbiettivo era di destrutturare la forte organizzazione operaia e del PCI (a prescindere dal suo reale orientamento), creare un clima di intimidazione nel quadro politico del nuovo Stato borghese a dominio democristiano. Tanto più che le manifestazioni a sostegno dell’entrata dell’isontino e di Trieste nella federazione socialista jugoslava come risultanza di internazionalismo rivoluzionario, incluse le manifestazioni di piazza dei cantierini di Monfalcone che venivano represse dalla polizia militare del governo anglo-americano della Zona A (“soprattutto gli inglesi bastonavano” ricordano alcuni protagonisti dell’epoca) si erano oramai sopite a fronte del cambiamento di situazione. Di quella sincera vocazione rivoluzionaria - tradita dallo stalinismo nelle sue declinazioni togliattiane e titoiste - rimanevano soltanto delle scritte inneggianti alla Jugoslavia socialista leggibili sui muri delle case (alcune delle quali sono visibili ancora oggi).
L’attivismo nazional-fascista, che si rafforzava con l’arrivo dei fascisti rientranti dalle zone istro-dalmate, era impiegato anche come spionaggio nelle fabbriche per riferire ai padroni gli elementi politicamente sgraditi. Molti partigiani, pionieri della riorganizzazione della Fiom nel cantiere navale del dopoguerra, si trovarono costretti a rientrare nella clandestinità per la loro militanza sindacale mentre comandanti partigiani finivano arrestati per essere “protetti” dagli attacchi neofascisti o processati per aver ucciso un fascista in epoca di guerra….provocazioni che finivano spesso con l’assoluzione o il proscioglimento. Questo era il clima politico in cui maturò l’assassinio di Pietro Dominutti.
Iscritto al Partito d’Azione, il quale nel dopoguerra nella regione giuliana fece da captazione del revanscismo nazionalista, fu membro di quel Moto Club di Monfalcone diretto dall’ex segretario del Fascio locale che era diventato in quegli anni luogo di ritrovo di fascisti. C’è chi lo ricorda come partecipante alle squadracce che aggredivano gli antifascisti nel dopoguerra.
Dicevamo all’inizio che i suoi esecutori non furono mai trovati, né fu chiaro il movente.
“L’Emancipazione” – giornale del Partito d’Azione – non menziona nemmeno l’episodio nei mesi di gennaio-marzo 1948. “Il Lavoratore”, organo del Partito Comunista della Regione Giulia, nell’edizione del 16 gennaio 1948 parla di indizi relativi a questioni passionali o legati a ritorsioni dovute ad un traffico di armi dentro il cantiere navale in cui il Dominutti era coinvolto. Di certo è che dopo la sua morte vi furono manovre neofasciste per provocare disordini e ci furono fermi di polizia nei confronti di quadri antifascisti con la scusa di “proteggerli” da ritorsioni.
Fin qui i fatti storici. Ma come mai dopo decenni di silenzio su una figura così controversa si è giunti ad un rito annuale di commemorazione nazional-fascista con tanto di saluto romano che è balzato anche sulle cronache?
Si potrebbe pensare che l’amministrazione di destra della leghista Cisint, che governa anche con il voto di Fratelli d’Italia il cui consigliere comunale è l’organizzatore della cerimonia patriottarda, sia direttamente responsabile del viatico politico di tale pubblica manifestazione. E sarebbe sbagliato. Ovviamente la Cisint da quando è sul trono municipale ha mandato il suo riconoscimento all’adunata spedendo esponenti di giunta (come il leghista Asquini ancora “caldo” per le sue filastrocche razziste pubblicate sui social e diventate anch’esse un caso mediatico, ndr).
Ma il vero sdoganamento politico è stato attuato dalle precedenti giunte PD. Prive quindi di un’opposizione di sinistra in aula. L’allora assessora alla cultura Paola Benes – si era nel 2010 – dedicò al Dominutti un intero articolo sulla stampa partendo dalla ristrutturazione della lapide commemorativa. Da lì si alimentarono le ipotesi per intitolare una via o una piazza. Benes, già attivista DC, e che nel 1983 nell’organo arcidiocesano faceva la voce “critica” rispetto la politica amministrativa democristiana, evidentemente non si fidava del tutto della natura borghese liberale del PD, e per controbilanciare quello che verosimilmente sentiva ancora come un eccessivo peso del passato (soprattutto i legami con Fiom e Anpi), si ispirava alla “conciliazione nazionale” dell’asse Fini-Violante.
Vero che poi il PD non proseguì con l’intitolazione e la sua giunta non spedì nessun rappresentante alla cerimonia, probabilmente proprio per pressioni interne, ma fu proprio l’amministrazione Dem a riesumare la questione di cui i nazional-fascisti ne fecero poi un appuntamento seriale. Da ricordare che l’allora assessora di Rifondazione, con delega alla toponomastica, aveva dichiarato che pur preferendo monumenti partigiani “riconosceva le sensibilità altrui”: una forma criptica per accettare la “conciliazione nazionale”.
Nel tentativo di mimetizzare l’evento in chiave “democratica”, gli organizzatori dichiarano pubblicamente che non si tratta di un raduno fascista ma della commemorazione di un “patriota” e di un ricordo familiare. Ma chi sono questi organizzatori? L’animatore principale è il consigliere comunale di Fratelli d’Italia, nonché presidente dell’associazione Monfalcone Pro Patria che ufficialmente gestisce la cerimonia. La sua militanza nell’arcipelago neofascista inizia dal Msi per svilupparsi in Forza Nuova, Fronte Sociale Nazionale, La Destra e approdare nel partito della Meloni. Il discendente del Dominutti che interviene specificando di non fare politica e di essere presente solo per commemorare un congiunto, è stato candidato nelle liste della Fiamma Tricolore alle amministrative del 2011. Date queste premesse il finale con il saluto romano diventa perlomeno protocollare. E questo con buona pace della consigliera di centrosinistra Furfaro, presente anche quest’anno alla cerimonia. La Furfaro è rappresentante di una lista promossa dall’ex presidente PD della provincia Enrico Gherghetta (già consigliere regionale nonché ex segretario DS e PCI); una lista che sosteneva l’ex sindaca Altran alle ultime elezioni (quindi alleata anche del Prc) che, evidentemente, sostiene coerentemente la linea della “conciliazione nazionale”.
L’anno scorso ci fu un efficace presidio antifascista promosso dal Coordinamento libertario isontino e dall’Usi-Ait (che hanno la sede proprio nei pressi della lapide). Quest’anno le forze antifasciste suscettibili di mobilitazione hanno deciso di non fornire occasione di pubblicità ad un raduno con una trentina di presenti, inclusi gli effettivi della Digos. Non è intenzione di questo intervento entrare nel merito di questa decisione.
Le forze antifasciste (tra cui il nucleo isontino del PCL) saranno invece presenti a Gorizia sabato mattina 19 gennaio a contestare l’annuale benedizione della X Mas da parte dell’amministrazione comunale con annessa adunata di Casapound e della sempre attiva Lega Nazionale (che “non ricorda” ufficialmente il suo passato squadrista e dinamitardo dell’epoca in cui fu ucciso Dominutti).
Tra l’altro il sindaco forzista Ziberna, ex presidente nazionale dei giovani PSDI nella quota degli esuli istro-dalmati destrorsi camuffati dentro i partiti “laici” del pentapartito, graziato dalla prescrizione da un processo per turbativa d’asta quand’era direttore del CONI proprio alla vigilia delle elezioni che lo hanno fatto sindaco, già in passato riteneva inopportuno celebrare a Gorizia il 25 aprile per via dell’”occupazione jugoslava”. Ziberna all’occupazione degli sloveni partigiani probabilmente preferiva quella degli sloveni del Domobranstvo, occupatori di Gorizia per conto del Terzo Reich prima della liberazione.
Vi è un filo conduttore che lega l’attacco nazional-fascista alla classe operaia cantierina antifascista dell’immediato dopoguerra isontino e le vicende attuali complessive. Siamo di fronte alla ripetizione della negazione di una soggettività politica proletaria indipendente e contrapposta a quella della classe dominante. Il contemporaneo corporativismo nazional-economico (l’”azienda Italia”) della partitocrazia capitalistica (PD, Lega, M5S, FI e relativi satelliti elettorali) offre alla borghesia una forma di governabilità fondata sulla totale mancanza di indipendenza politica del popolo lavoratore, legittimato esclusivamente come oggetto di supporto alle varie ipotesi di governo borghese, inteso sia come governo statale che come governo d’impresa. Tutte le relazioni industriali, modelli contrattuali collettivi, gli accordi integrativi aziendali, la legislazione sociale, le politiche attive del lavoro, le politiche di bilancio, sono impostate dentro questo paradigma. Al venditore della forza-lavoro viene detto: solo così puoi salvarti dalla rovina. L’immigrazione, elemento esogeno, viene presentata come fattore di perturbazione di questa impalcatura debole e quindi un pericolo per la salvezza del popolo lavoratore (come occupazione e come spesa pubblica). L’offensiva violenta di gruppi neofascisti contro i picchetti di sindacati conflittuali o contro la sindacalizzazione dei lavoratori migranti (Gioia Tauro, Tortona ecc.) rappresenta la punta di lancia conservatrice di questa governabilità. E’ per questo che i neofascisti possono contare su dei margini di manovra, inclusi quelli della costruzione di consenso. Ma la realtà materiale è diversa. Le masse lavoratrici (con lavoro o senza) per difendere le proprie condizione di vita sono invece necessitate a rilanciare la battaglia per imporre una democrazia proletaria intesa come costruzione di un contro-potere politico, declinando attraverso di essa la lotta transitoria per il controllo sulla produzione, per i consigli aziendali, per la redistribuzione delle ore di lavoro a parità di paga, per l’abolizione del segreto finanziario e commerciale, nella prospettiva di un governo dei lavoratori come rottura con il quadro politico-istituzionale presente.
Questa necessità era valida nel 1946, è valida oggi.
Partito Comunista dei Lavoratori - nucleo isontino
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