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Lottare per la libertà di amare, pensare a una rivoluzione complessiva

A colloquio con un'attivista della battaglia contro i dogmi patriarcali e le identità codificate

(28 Febbraio 2019)

La battaglia contro l’omofobia e per una piena affermazione della libertà di amare è più che mai necessaria in questo paese, in una fase che vede la massiccia offensiva dei settori politico-culturali più tradizionalisti. I quali propongono quell’aggiornata versione del discorso patriarcale che, a nostro avviso, va contrastata con decisione e, soprattutto, sulla base di un discorso autenticamente radicale, lontano da qualsiasi illusione nei confronti dei residui della sinistra istituzionale. E’ muovendo da quest’ottica che abbiamo conversato con Carlo, da tempo attivo nella battaglia per la libertà di amare e militante in un percorso, denominato Classe contro Classe, che, in un momento in cui anche negli ambiti antagonisti dilaga la frenesia elettorale, continua a richiamarsi alla centralità del conflitto e a sostenere il rifiuto della stessa idea di rappresentanza parlamentare.

IntoTheBaobab

La copertina dell'album "Verdi Acidi Pensieri", che contiene il pezzo "Chiamerò mio figlio Andrea"

Comincerei subito con un problema: perché, in un’Italia dove tornano forme estreme di omofobia, la comunità gay si mobilita così poco?
Diciamo che, a tratti, la comunità gay può ricordare certe rappresentazioni che se ne danno al cinema, ovviamente le meno stereotipate. Per dire, ho visto di recente il film su Freddie Mercury (Bohemian Rhapsody) dove ci si concentra pure sulla scoperta della propria identità sessuale da parte del celebre cantante. Bene, quando questi diventa famoso comincia a dare festini, a divertirsi alla grande, anche se si percepisce differente rispetto agli altri membri dei Queen, che hanno tutti una famiglia, e in alcuni momenti affiora in lui il senso del vuoto. Ora, molte delle persone con cui sono in contatto, intrattenendo scambi di opinione non superficiali, tendono a dare centralità al lato ludico, alla giusta espressione della fantasia sessuale e sembrano porsi poco altri problemi. Che però incombono, come appunto dimostrano le numerose aggressioni ai nostri danni che ancora si registrano in Italia. Al riguardo, tempo fa con alcuni amici s’è favoleggiato circa la costituzione di una squadra di autodifesa ma poi abbiano concordato sull’assenza, in Italia, del sostrato cognitivo e ideale affinché si sviluppino esperienze simili.

Negli anni passati, però, qualche esperienza gay militante a Roma c’è stata, anche grazie al tuo contributo...

Sì, anni fa ho dato vita con altri al Collettivo Autonomo LiberidiAmare. Noi che l’abbiamo fondato eravamo colpiti dalle elaborazioni e dalla contagiosa irruenza di Helena Velena, storica figura del movimento transgender in Italia. Tra le azioni che abbiamo svolto come LiberidiAmare segnalerei la partecipazione ad una contestazione a Fausto Bertinotti, nella primavera del 2008. Era stato invitato dal Circolo Mario Mieli e noi cogliemmo l’occasione per fargli notare una contraddizione enorme: la sua vicinanza allo psicanalista-guru Massimo Fagioli, scomparso due anni fa. Uno studioso che, di fatto, negava alcune libertà fondamentali, perché continuava a vedere nell’omosessualità una sorta di male da cui guarire.

Puoi parlare meglio di questo influsso di Helena Velena?
Per spiegarlo occorre tornare indietro e occuparsi della cultura punk, che spesso è stata attraversata dalla rivendicazione di una sessualità non codificata. Certo, nel rock, di cui il punk è espressione tra le più eversive, non mancano elementi di machismo, sia nei testi che nei comportamenti dei divi. Tuttavia, alcuni gruppi – come quelle New York Dolls che rappresentano un po’ la congiunzione tra il rock classico e il punk – già negli anni ’70 hanno esplicitato una sessualità altra. Con la cultura punk degli anni ’80, questa spinta liberatoria ha assunto una connotazione più politica, anche in Italia. Helena ne è stata pienamente partecipe, in un percorso scandito da tappe che sono state indicative del suo auto-riconoscimento sessuale, della consapevolezza che l’identità maschile le stava stretta. Per dire dalla prima esperienza musicale con i Raf Punk (Rebel Anarchist Fraktion) è passata alla costituzione dei Trans XXX, che nella loro breve hanno rappresentato una base per la successiva teorizzazione del transgenderismo come liberazione da tutte le gabbia e dalle identità definite a priori dalla società. Alla teoria, poi, Helena ha sempre saputo unire la prassi, perché oltre a rivendicare questa rottura con regole sessuali arcaiche ha sempre dato vita a performance in cui il tema della liberazione del corpo si connota in modo nuovo, coincidendo con lo sprigionarsi delle energie di chi non si auto-reprime più, ma esprime sino in fondo la propria identità. In generale, lei ha svolto una funzione pionieristica e il suo esempio è stato raccolto, tra gli altri, dagli IntoTheBaobab, un gruppo di Bologna che, in un bellissimo pezzo intitolato Chiamerò mio figlio Andrea, eleva un vero e proprio inno al rifiuto del dualismo “maschio/femmina”.

In sostanza, stai parlando di una battaglia che si esprime moltissimo sul terreno della creatività…
In verità, questa lotta può esser condotta in mille forme, non solo in quelle sinora citate e in Italia risulta urgente, perché qui il patriarcato esiste ancora, così come persistono certi dogmi, legati al tradizionalismo religioso. E non solo nei piccoli centri, dove spesso le persone omosessuali sono ancora oggetto del chiacchiericcio del villaggio, ma pure nelle città vere e proprie o nelle metropoli come Roma. Magari, qui come a Milano i vecchi e presunti “sani principi” si presentano in forme più mediate. Nel senso che non si ha il coraggio di confessare agli altri e forse neanche a se stessi la propria sessualità fuori dai canoni. Così emergono figure come gli “etero-curiosi”, che magari si materializzano nei locali per omosessuali cercando qualche avventura, senza però mettere in discussione la propria faccia istituzionale da mariti e padri di famiglia rispettosi delle convenzioni. Di più, costoro, nell’atto di consumare le infrazioni che non minano la regola, si dichiarano attivi e non passivi, secondo quel logoro codice per cui la prima modalità del rapporto non etero può essere in qualche modo accettata perché ancora interna al “discorso virile”.

E’ vero, il quadro italiano risulta a tratti desolante. Ma tornando alle mille forme di lotta cui dicevi, so che tu fai parte di percorsi interni all’antagonismo sociale e politico: come fai vivere, al loro interno, questi discorsi?

Be’, io adesso partecipo al percorso denominato Classe contro Classe, che mi piace per la sua radicalità e per il suo rifiuto della politica istituzionale. D’altra parte i nostri bisogni non possono essere rappresentati in qualche parlamentino, ne va conquistata la soddisfazione attraverso il conflitto. Rispetto alla tematica specifica che porto in quel contesto trovo disponibilità, sebbene certamente che non vive in prima persona certe cose, se non riceve stimoli precisi (ancorati a eventi o mobilitazioni) difficilmente può andare oltre la solidarietà generica. Nel mondo gay non ci sono forme di mobilitazione come quelle legate all’8 marzo, che spingono le compagne e i compagni a interrogarsi su come coniugare le tematiche di classe, incentrate sulla denuncia dello sfruttamento capitalistico, con quelle di genere, culminanti nel rifiuto della cultura patriarcale. Per noi, invece, c’è il Pride che, purtroppo, negli ultimi anni ha perso parecchio del suo senso politico, proponendosi soprattutto come momento festoso. Il che mi potrebbe pure andare bene se la gioia fosse quella che emana dalla lotta, dal ritrovato protagonismo di persone che si riappropriano insieme del proprio destino.

Quel che tu adesso dici del Pride qualche anno fa lo asserivano in molti (e soprattutto molte) anche rispetto all’8 marzo, che però sembra aver ripreso vigore...

Certo, perché nel mondo femminista ci sono contraddizioni, c’è un dibattito serrato tra anime diverse, alcune un po’ borghesi, ma nel corso del tempo sono emerse realtà davvero di rottura, che personalmente apprezzo molto. Per dire, frequentando da anni il Comitato di Lotta Quadraro ho potuto conoscere l’elaborazione e l’iniziativa concreta della Coordinamenta Femminista e Lesbica, che riesce a sviluppare un discorso complessivo, antipatriarcale e anticapitalista, così come segnato dal contrasto alle guerre e all’imperialismo.

Sembra di capire che la tua opinione delle realtà antagoniste sia positiva...
Sì è positiva ma in termini generali e senza eccessive illusioni. Neppure nel mondo alternativo e/o antagonista l’omofobia e il machismo possono ritenersi del tutto superati. Pensa agli skinheads di sinistra: molti di loro, non tutti, ma in ogni caso molti, oltre a veicolare un’estetica militaresca, che già non mi piace, mettono in moto una serie di atteggiamenti volti all’antico culto della virilità. Spesso arrivando a concepire ruoli diversificati tra donne e uomini. Di più, se ci confrontiamo con i tanti, troppi partitini comunisti incontriamo un segretario generale come Marco Rizzo che critica pubblicamente i Pride non perché hanno perso molta della loro valenza politica, ma in quanto ritiene la liberazione sessuale un tema secondario, da affrontare eventualmente dopo aver preso il potere. Prima verrebbero i diritti dei lavoratori, poi tutto il resto... Ma questa è una prospettiva che rifiuto: non ci dovrebbe essere una così rigida gerarchia fra temi ma un’idea globale, complessiva della liberazione, che punti allo stesso tempo al superamento del lavoro salariato, così come di tutte le istituzioni repressive, a partire dalla famiglia, in cui ancora si impartisce un’educazioni atta a cristallizzare per sempre i ruoli di maschio e di femmina, non volendo prendere atto dell’infinita varietà di identità che attraversano il reale. Per me, o si parla di una liberazione complessiva o non ha senso impegnarsi. In quest’ottica, mi sono sempre definito un autonomo libertario, ritenendo necessaria la convergenza di tutte le forze rivoluzionarie che, sganciate dalle culture autoritarie, non ritengano utile svolgere la propria azione in quel teatrino della falsità che sono i parlamenti borghesi.

Bene, il tuo punto di vista anti-istituzionale è chiaro. Però la maggior parte delle associazioni gay impegnate politicamente coltiva relazioni con forze interne all’arco parlamentare...
Direi che i rapporti di queste associazioni con alcune forze politiche istituzionali hanno portato a qualche piccolo risultato concreto, che può aver alimentato illusioni a lungo termine. C’è stato un sia pur timido riconoscimento delle unioni civili, ad esempio. Io personalmente non ho mai abbracciato la causa della “legalizzazione” dei rapporti omosessuali, ma non si può impedire a chi lo vuole di perseguirla, anche per i vantaggi che ne possono derivare nella vita concreta, ossia in un mondo burocratizzato dove muovere da riconoscimenti formali ti agevola.

Quindi questi rapporti politici rinviano a dati concreti e non a valutazioni a monte...

In verità c’è di più e parlo di una valutazione che parecchi gay condividono: quella per cui il capitalismo dei paesi liberali sarebbe il male minore. Invece, dal mio punto di vista, si tratta di un modello sociale che genera forme sempre nuove di sfruttamento e di oppressione. Certo, nel contrastarlo non ci si può limitare ad evocare i principi fondamentali del movimento operaio. Il rimando a quell’instaurazione del comunismo che, in automatico, risolverebbe tutti i problemi del mondo, rischia di essere inefficace o di passare per una mitologia. In più, rivolgendosi al mondo gay, forse c’è un altro discorso che potrebbe suscitare più attenzione...

Quale?
Il punto è questo: oggi, in Italia, si riafferma la celebrazione della famiglia tradizionale, nel segno della più netta e, apparentemente, arcaica divisione dei compiti tra maschio e femmina. Ciò, in un quadro che esclude le identità sessuali “altre”, ossia non consacrate dal discorso cattolico “puro”. Ma questo apparato ideologico ha un rilevante risvolto materiale, che a suo tempo fu individuato dal Coordinamento Facciamo Breccia. In sostanza, si celebra di nuovo la famiglia, nella sua forma più “ortodossa”, perché si sta procedendo allo smantellamento di qualsiasi servizio sociale, all’eliminazione di ogni tipica tutela sociale. In questo quadro, la famiglia svolge un ruolo di supplenza, attraverso il sacrificio di una persona, ovviamente la donna, che deve rinunciare a tutto e dedicarsi esclusivamente al lavoro di cura del marito e dei figli. Ora, per attaccare seriamente questo impianto non basta il discorso, poniamo, dell’Arcigay, perché questo si fonda sul rifiuto del nuovo medioevo senza però che di tale apparente ritorno al passato si colga la radice. Dunque, per contrastare la deriva in questione occorre una posizione anticapitalista e sganciata da ogni illusione circa le forze politiche istituzionali. Del resto, l’indipendenza da partiti e partitini è necessaria anche in un’altra ottica. Che è quella di un ampliamento del concetto di internazionalismo, fondato anche sulla solidarietà a chi, in varie parti del mondo, viene perseguitato perché il suo orientamento sessuale non è conforme. Anche questa battaglia, che ritengo importante, va svolta in totale autonomia, in modo da solidarizzare con tutti quelli che vivono una siffatta oppressione. Nei media di casa nostra, per convenienze geopolitiche, si parla dell’Iran teocratico, patriarcale e omofobo, ma non dell’Arabia Saudita, che ha le stesse caratteristiche. Bene, noi dovremmo infischiarcene di queste linee geopolitiche e solidarizzare con tutti: le forze politiche istituzionali non lo possono fare, ma le componenti autonome, anarchiche e comuniste libertarie sì.

Stefano Macera

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