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Violenza sulle donne

Violenza sulle donne

(30 Aprile 2012) Enzo Apicella

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    8 MARZO: UNA LUNGA MARCIA, UNA LOTTA DA FARE ASSIEME TUTTI I GIORNI

    (2 Marzo 2019)

    Un documento redatto in preparazione dello sciopero dell8 marzo (e pubblicamente esposto nel corso di un'assemblea svoltasi il 1 marzo presso la Scuola di Lettere dell'Università di Roma 3)

    comunicatousi

    Il numero di violenze e dei “femminicidi” resi pubblici, come dati sarebbe già un elemento di valutazione sufficiente, per dimostrare quanto la condizione della donna nella società e nell’economia attuale anche in Italia, sia in costante peggioramento. un femminicidio ogni 72 ore, circa 50.000 richieste di aiuto per violenza domestica ai Centri Antiviolenza, più di 500 stupri denunciati.
    Questi i ufficiali. I piani antiviolenza, promesse da campagne elettorali e quelli messi in piedi, si sono rivelati negli anni insufficienti anche solo alla “riduzione del danno”, non tanto e non solo perché non accompagnati da concrete azioni di sostegno economico, ma perché la violenza fisica, psicologica e il ricatto sul lavoro, in famiglia, ai danni delle donne è legittimata, dalle condizioni di vita delle donne stesse. Femminicidi, discriminazioni, disparità di trattamento, violenze e stupri, sono solo l’aspetto rilevante, del fenomeno chiamato «violenza di genere», speculari anche a campagne di stampa, utilizzate strumentalizzate non solo a fini elettorali, ma con l’effetto di operare una ripresa anti-culturale, che ci riporti al passato e in peggio. Esiste una realtà sommersa, fatta di lavoro precario e sottopagato, di latenti e continui processi di disparità di trattamento, di affievolimento e lesioni di diritti che si darebbero per acquisiti, di conciliazione di tempi di lavoro e di vita sempre più frenetici, di cura della famiglia, di lavoro domestico, di affetti mercificati dallo stesso modello e sistema di sfruttamento capitalistico, nella quale le donne affrontano forme di discriminazione, di violenza meno visibili, della quale si parla poco o solo in occasioni viste in termini di “emergenza”. Una battaglia continua e costante, che non deve essere delegata e relegata ad una “questione di donne”,ma che riguarda tutti e tutte coloro che lottano, si battono, si aut organizzano per un cambiamento reale, verso un altro futuro
    E una società, una visione complessiva dei rapporti sociali culturali, opposta a quella dominante.

    La situazione generale, qualche dato per una situazione che non emerge a sufficienza…
    Nel mondo del lavoro le donne italiane, pur con livelli di istruzione e studio, superiore agli uomini, in Italia anche con una diversificazione territoriale consistente dal punto di vista statistico (al sud del Paese, il livello proporzionale di donne diplomate e laureate, rispetto ai maschi è superiore e non è poi coerente con le possibilità concrete in campo occupazionale) e quindi come forza lavoro maggiormente qualificata dal punto di vista del titolo di istruzione, sono circa il 30% della popolazione lavorativa.
    La differenza salariale in peggio tra donne e uomini, si attesta al 18% circa, nel settore privato e spesso il percorso lavorativo, occupazionale, prima dell’assunzione stabile, ha una durata più lunga e condizioni di lavoro precarie maggiori (utilizzando spesso molte delle 44 tipologie contrattuali esistenti, dai processi di trasformazione dei regimi contrattuali, di flessibilità, in ingresso e nella fase di reale occupazione, che dal pacchetto Treu nel 1996 fino al c.d, jobs act, hanno ridotto molte rigidità tipizzate nel rapporto di lavoro, subordinato o camuffato come tale). La percentuale di differenza salariale, è più accentuata nella fascia di età tra 20 e 35 anni, diminuisce con l’aumento dell’età anagrafica, nella fascia tra 45 e 55 anni si riduce a poco più del 7-8%, anche se non corrisponde ad effettive progressioni di carriera,rispetto all’universo maschile.
    La minore capacità retributiva che si accompagna con una minore capacità pensionistica, comporta l’effetto che una parte rilevante, della popolazione femminile italiana, si ponga sotto la soglia di povertà e di progressiva esclusione sociale.
    Le cause della difficoltà per le donne a inserirsi, mantenere il lavoro o evitare cambi di mansioni, settori e attività, anche con peggioramenti salariali o di regime contrattuale (part time, per esempio), sono di diversa origine. Un fatto che troppo spesso favorisce l’uscita dal mercato del lavoro, o l’accettazione di forme flessibili di “scambio” tra riduzione salariale e tempo di lavoro, o di cambio di lavoro per cercare, in modo personalistico, di conciliare tempi lavorativi e tempi di vita con le responsabilità di madre, moglie, compagna, nonna, figlia… è rappresentata dalla maternità, che costringe anche in settori lavorativi che si riterrebbero secondo la credenza popolare, garantiti, ad abbandonare il lavoro, a cambiare il lavoro o a ridurre l’occupazione retribuita (part time).
    Le difficoltà lavorative delle donne aumentano in corrispondenza dell’aumento del numero di figli: il 30% delle donne occupate abbandona il lavoro dopo la prima gravidanza, mentre il 78% delle dimissioni «volontarie» ha riguardato le madri lavoratrici e non sempre, si è accompagnata ad altra occupazione rispetto al lavoro precedentemente svolto e alle stesse condizioni salariali e normative.
    Gli economisti e i “tecnici”, affermano che la risoluzione del problema, sarebbe da ricercarsi nella mancanza di interventi a sostegno della donna lavoratrice italiana…bella scoperta e di stampo nazionalistico, per giunta (…prima gli italiani…?). Il graduale ritiro dell’intervento attivo dello Stato e delle amministrazioni pubbliche, in lesione e violazioni di diritti di fonte costituzionale, da molti settori strettamente legati al lavoro di cura, ha messo in ulteriore difficoltà le donne. Tagliare o ridimensionare, in nome di processi di razionalizzazione della spesa o di minori investineti nell’istruzione, nella sanità, nella ricerca, nei servizi sociali, porta la spesa pubblica destinata allo stato sociale complessivamente intesa significa, non garantire la minima copertura di risorse economico finanziarie, necessarie per gestire i servizi pubblici per l’infanzia, i centri di aggregazione giovanile, i servizi di assistenza domiciliare per le persone non autosufficienti, gli anziani e i disabili.
    L’effetto che si vuole ottenere è riportare le donne, come fino a 50-60 anni fa, a rimanere a casa, tra le mura domestiche, per sopperire agli insufficienti servizi pubblici, sia perché la maggior parte del personale impiegato in tali settori di cura e assistenza, socio assistenziali e socio sanitari, come lavoro salariato e non sempre contrattualizzato, è di genere femminile. Per questo motivo infatti le donne italiane, e non solo, lavorano molto più degli uomini, perché oltre al lavoro ufficiale, quello retribuito, devono aggiungere tutte quelle attività del lavoro di cura e di assistenza, un costume considerato normale, in tutti i Paesi industrializzati, ma in Italia è un peso che ricade per tre quarti, sulle donne: si stima che al lavoro domestico le donne dedichino 3 ore e 25 minuti al giorno e al lavoro di cura dei familiari conviventi, in particolare dei figli fino a 17 anni, minimo 2 ore e 16 minuti. Insomma un quarto della giornata occupata da lavoro cosiddetto «improduttivo» dal punto di vista capitalistico, ma funzionale al modello culturale dominante. A consolidare queste pressioni perché la donna riprenda il «naturale ruolo di angelo del focolare», ci pensa inoltre lo svuotamento dei diritti riproduttivi e di salute, anche di tutela della salute dal punto di vista del benessere psico fisico e sessuale. A partire dalla quasi totale inapplicabilità della L. 194/78 che ha permesso in Italia il diritto all’aborto libero, gratuito e in strutture pubbliche: l’alto tasso di obiezione di coscienza (circa il 90% di media nazionale) tra i medici e il personale ausiliario e non, mina spesso non solo l’effettiva possibilità per le donne di ricorrere all’interruzione volontaria di gravidanza, ma persino alla contraccezione e ad informazione corretta, anche per le giovani generazioni.

    Le novità degli ultimi anni, la tendenza al peggioramento di condizioni materiali e di limitazioni, affievolimenti delle libertà e dei diritti civili, sociali e di cittadinanza.
    Un peggioramento alla condizione delle donne italiane si è prodotto con manovre come il Jobs Act con la pesante accentuazione del precariato, la Buona Scuola legge 107 2015 con la «deportazione» di migliaia di insegnanti, la Legge Fornero 92 2012, con l’allungamento dell’età pensionistica, i consistenti tagli a sanità ed istruzione con il conseguente impoverimento dei servizi; un peggioramento in una situazione già compromessa di inserimento e permanenza nel mondo del lavoro, che ha reso le donne sempre più spesso oggetto di una violenza da cui è quasi impossibile sottrarsi senza autonomia economica e senza punti di riferimento.
    Un altro attacco alla condizione femminile è di stretta attualità: la riforma del “congedo di maternità”, che modifica il Testo Unico D. lgs. 151/2001 e il ddl Pillon. La prima riforma prevede per le lavoratrici in gravidanza, la possibilità di restare al lavoro fino alla data del parto, utilizzando tutto il periodo di astensione (5 mesi) dopo la nascita del figlio. Un’alternativa rispetto al sistema attuale che impone l’obbligo di astensione di uno o due mesi prima della nascita del bambino (e la conseguente astensione obbligatoria di 4 o 3 mesi dopo il parto). La proposta tuttavia mina la libertà di scelta delle donne, soprattutto di quelle più precarie e meno tutelate, perché le espone al ricatto del datore di lavoro, e mette in discussione la tutela della salute per le mamme e i nascituri. Con l’aumento dell’età anagrafica per la stabilizzazione o l’occupazione stabile, aumenta il rischio per le donne in età fertile, di parti con gravidanze a rischio, anche in settori dove non si è collocate automaticamente in astensione obbligatoria anticipata per maternità. Il secondo attacco è inaccettabile. La reale preoccupazione di questa proposta non sono le condizioni di vita di bambini-e, madri e padri, ma l’«unità della Famiglia», quella famiglia monogamica ed indissolubile, grazie alla quale il capitalismo si assicura ogni giorno la produzione e la riproduzione della forza lavoro: non tiene conto delle differenze salariali, occupazionali, del fatto che molte donne o lasciano o perdono il lavoro dopo la maternità, che una donna lavoratrice che è anche madre, riuscirà difficilmente a dare lo stesso tenore di vita che a figli e figlie, era garantito durante la convivenza e che potrà continuare ad essere garantito dal padre, causando enormi squilibri, con conseguenza, penalizzante, della possibilità di perdere l’affidamento.
    In questo scenario, si inserisce l’ennesimo attacco ai diritti civili, in particolare il diritto alla libera espressione della propria identità di genere, così come per le condizioni delle donne immigrate, sia per la c.d. residenzialità con l’art 5 del decreto Lupi, che con gli effetti relativi alla Legge Salvini.
    Un aumento di episodi di violenza, fisica, psicologica e verbale nonché gravi episodi di intolleranza e discriminazione sono riservati anche ai soggetti LGBT e alle donne immigrate che, oltre a subire le oppressioni tipiche di questo sistema come la precarietà e lo sfruttamento, sono oggetto di una profonda aggressione da parte della società, anche in nome di antiscientifiche e antiquate presunte superiorità di razza o di discriminazione etnica. Una lunga lotta, un compito che ci riguarda tutti-e.

    Unione Sindacale Italiana Usi fondata nel 1912

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