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(27 Agosto 2013) Enzo Apicella
Obama ha deciso di attaccare la Siria, in ogni caso.

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L’impossibile ritiro degli imperialismi e una pace borghese in Medio Oriente

Da "Il Partito Comunista" N.393 Gennaio-Febbraio 2019

(4 Marzo 2019)

L’avvenimento riguardante il Medio Oriente che nelle ultime settimane ha trovato maggiore eco sui media, è stato l’annuncio del presidente statunitense Donald Trump di volere ritirare le truppe dagli scenari bellici della Siria e dell’Afghanistan. Come sempre accade in questi casi, l’annuncio ha suscitato una ridda di reazioni e di commenti, il più delle volte confusi e inconcludenti, in cui molti hanno parlato di una grande svolta strategica che farebbe tornare gli Stati Uniti in una di quelle fasi di politica isolazionistica che più volte nella loro storia si sono alternate a periodi di ruggente interventismo bellico.

Dopo il “terremoto” al vertice della difesa americana, per una scelta che certo non può essere gradita alle gerarchie militari, e le dimissioni del segretario alla difesa Jim Mattis a dicembre, l’apice dell’isteria mediatica si è raggiunto quando “fonti riservate” hanno rivelato che Trump a un certo punto avrebbe manifestato addirittura l’intenzione di lasciare la Nato, suffragando così la veridicità dell’ipotesi che lo vede in intelligenza col nemico, lo “zar” Vladimir Putin, indiscusso padrone della Santa Russia.

Da marxisti siamo poco proclivi a trangugiare simili sbobbe sui machiavellismi e le levate d’ingegno delle cancellerie imperiali, e sappiamo bene che tali “grandi svolte” possono essere paragonate alle virate di un velivolo per adattarsi ai colpi di vento, lasciando sempre immutata la destinazione del viaggio. Una potenza mondiale di prima grandezza non può ritirarsi dalla contesa mondiale per i mercati, le rotte dei traffici e le regioni di approvvigionamento delle fonti energetiche e delle materie prime.

Se nel caso dell’Afghanistan 17 anni di presenza militare statunitense non l’hanno ripulito dei talebani, che pure l’intervento voluto da George W. Bush nel 2001 si proponeva di sradicare, questo è un segno che i rapporti di forza sul campo, riflesso in qualche misura dei rapporti di forza fra le maggiori potenze, non consentono una vittoria decisiva delle forze leali a un governo amico degli Usa. Se oggi soltanto poco più di un terzo dei distretti dell’Afghanistan sono sotto il controllo del governo, un ottavo è nelle mani dei talebani e oltre la metà è contesa fra bande armate ed esercito regolare, questo vuol dire che non ci sono le condizioni per pacificare un paese che, oltre agli interessi statunitensi, vede in gioco quelli di potenze globali e regionali come Russia, Cina, India, Pakistan, Iran, Arabia Saudita e altre.

Il ritiro di 7.000 uomini sui 14.000 complessivi del contingente americano in Afghanistan non significa affatto che il governo degli Stati Uniti abbia intenzione di adottare una politica rinunciataria o addirittura “pacifista”, poiché non sembra esserci allo studio nessun progetto di smantellamento sia pure parziale delle oltre settecento basi militari statunitensi disseminate sull’orbe terraqueo, al di fuori del territorio degli Usa.

L’isolazionismo americano è stato in genere un modo per prendere la rincorsa verso il riarmo e la guerra, e in questo senso gli Stati Uniti non accennano affatto a rinunciare alla loro supremazia bellica.

Se Trump vuole rinunciare a giocare il ruolo di gendarme del Medio Oriente è anche perché le risorse petrolifere non sono più così vitali per l’economia americana dopo che gli Stati Uniti, grazie allo sfruttamento degli scisti bituminosi e alla tecnica del fracking, sono diventati i principali produttori di petrolio a livello globale.

Nel caso della Siria l’annuncio del ritiro da parte di Trump riguarderebbe invece la totalità dei 2.000 uomini dislocati nel Nord del paese a sostegno delle milizie curde del Rojava. La ragione di questa decisione ha a che fare in questo caso con la strategia delle alleanze. Il sostegno alle milizie curde delle truppe statunitensi aveva come scopo di contrastare la riconquista del settentrione siriano da parte delle truppe fedeli al governo di Damasco e delle milizie dei pasdaran iraniani sue alleate.

D’altra parte il governo turco vedeva questa alleanza curdo-americana come un ostacolo alla sua politica espansiva nel Nord della Siria, volta ad impedire la continuità territoriale fra il Kurdistan siriano e quello turco, con conseguente sconfinamento della milizie del PKK curdo-turche ed eventualmente delle YPG curdo-siriane. Smarcandosi dallo scenario di guerra siriano gli Stati Uniti lasciano che sia il governo di Damasco a vedersela direttamente con i curdi, mentre permette a Washington di rinverdire la traballante alleanza con Ankara, piuttosto in crisi dopo il tentato colpo di Stato del 2015 e il successivo riavvicinamento della Turchia alla Russia.

Uno dei primi effetti dell’annunciato ritiro statunitense è stata la consegna avvenuta a fine dicembre della città di Manbij alle truppe dell’esercito regolare siriano da parte dell’entità politica curda del Rojava, per evitare che la zona cadesse nelle mani delle truppe di Ankara e delle milizie jihadiste a lei alleate.

Nonostante l’attentato rivendicato dallo Stato Islamico nella stessa città di Manbij, che a metà gennaio ha preso di mira un gruppo di militari americani uccidendone 4 insieme a 20 civili siriani, il processo del ritiro statunitense dovrebbe andare avanti. L’egemonia statunitense sulla regione lascerebbe uno spazio alla rinnovata smania di protagonismo dei suoi alleati tradizionali Israele e Arabia Saudita. Ma anche alla candidatura di Vladimir Putin al ruolo di grande mediatore della regione, aspetto questo già presente negli ultimi mesi se si pensa agli accordi diretti fra Mosca e Riad per regolare la produzione petrolifera e determinare il prezzo del greggio.

Resta sullo sfondo l’indebolimento economico e militare dell’Iran dovuto alle sanzioni economiche successive al ritiro americano dall’accordo sul nucleare, ma anche dagli scricchiolii di un fronte interno segnato dalla ripresa della lotta economica di un proletariato sempre meno disposto a sostenere il prezzo delle guerre per le velleità espansioniste degli ayatollah.

Il disegno egemonico della borghesia iraniana ha segnato il passo anche in Iraq, dove una parte dei partiti sciiti, in primo luogo la fazione guidata da Moqtada al Sadr, tenta di giocare un ruolo più autonomo dall’Iran, reggendosi in un precario equilibrio di equidistanza fra Teheran e Riad.

Un fattore questo che pesa nell’indebolimento della dipendenza di Damasco dal sostegno di Teheran e dall’alleanza fra Russia e Iran, nonostante a un certo punto questa sembrasse avere raggiunto un solido carattere strategico. Oggi si vede come la Russia tratti con grande disinvoltura con Gerusalemme e con Riad, ma anche con Il Cairo, mantenendo rapporti interlocutori e relegando sullo sfondo la rivalità fra Arabia Saudita e Iran, allontanando, almeno per ora, i rischi dell’esplosione di un conflitto regionale di grande ampiezza.

In questo senso vanno visti anche gli accordi raggiunti in Svezia per imporre una tregua nella guerra in Yemen, una guerra per procura che vede schierati da una parte il governo filosaudita e dall’altra le milizie filoiraniane degli Houthi. L’effettività della tregua lascia a desiderare, così come si sta dimostrando inefficace il “corridoio umanitario” per alleviare le sofferenze della popolazione locale flagellata dalla carestia e dalle epidemie, fra cui il colera, che, a causa della condizione disastrosa della sanità, ha mietuto migliaia di vittime.

Un altro timido segnale di riappacificazione nella regione nel segno della supervisione russa è arrivato con la riapertura dell’ambasciata degli Emirati Arabi Uniti in Siria. Un segno che potrebbe preludere al tentativo di altri paesi arabi, che pure si erano impegnati nel tentativo di rovesciare Assad, di rientrare nella spartizione della ricostruzione della Siria devastata dalla guerra. Come al solito, finita la devastatrice guerra borghese, arriva il momento in cui i vecchi nemici, detentori dei capitali, trovano l’occasione per stringersi la mano e spartire i dividenti della ricostruzione, sulla pelle dei proletari morti e sulle spalle di quelli vivi, ai quali succhieranno sudore, sangue e plusvalore.

Anche in Egitto prolifera la febbre immobiliare con la costruzione della Nuova Capitale Amministrativa, una città di cui non è stato deciso il nome, ma che ospiterà 6,5 milioni di abitanti in un futuro prossimo, dato che per giugno ne è prevista l’inaugurazione. Auspici della faraonica impresa, è il caso di dirlo nella terra delle piramidi, sono i capitali di Cina e degli Emirati Arabi Uniti. Sullo sfondo si rinnova la collaborazione militare con Israele, al quale il governo di Al-Sisi ha permesso di effettuare oltre 100 raid aerei per colpire le postazioni jihadiste nel Sinai, cioè sul proprio territorio nazionale.

Alternando pace e guerra i borghesi assassini fanno ottimi affari e quando la torta dell’accumulazione cresce sulle rovine di città e paesi, trovano l’occasione per ridiventare i buoni amici di un tempo. Chissà se domani anche Recep Tayyip Erdogan e Bashar al-Assad, oggi acerrimi nemici, torneranno a frequentarsi e con le famiglie ad andare in vacanza insieme.

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