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Mezza piena o mezza vuota?

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(22 Gennaio 2011) Enzo Apicella

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LA DEMOCRAZIA NON FERMA LA RIBELLIONE DEI PROLETARI TUNISINI

IL PARTITO COMUNISTA N. 393 - gennaio-febbraio 2019

(14 Marzo 2019)

Una nuova esplosione di malcontento proletario ha interessato la Tunisia a fine dicembre. La scintilla è stato il suicidio, dandosi fuoco, il 24 dicembre di Abdelrazak Zergui, un giornalista freelance di 32 anni. Nel suo messaggio denunciava le dure condizioni di vita delle aree interne del paese, quelle a ridosso del confine con l’Algeria, martoriate dalla povertà e dalla disoccupazione, che supera il 30% fra i giovani, e, rivolgendosi agli abitanti di Kasserine, “privi di mezzi di sussistenza”, annunciava la necessità di una rivoluzione. Intendeva suscitare una reazione simile a quella seguita all’autoimmolazione di Mohamed Bouazizi, il venditore ambulante di Sidi Bouzid che col suo suicidio, nel gennaio del 2011, dette vita all’ondata di proteste sfociata nel rovesciamento del regime di Ben Ali e nella propagazione nel Medio Oriente e nel Nordafrica di movimenti popolari, denominati “primavere arabe”.

Nuove proteste di piazza sono partite da Kasserine a partire dal 25 dicembre, successive ai funerali di Zergui. Le manifestazioni e gli scontri si sono propagati presto a molte città del paese per tre settimane. Tumulti hanno interessato Sidi Bouzid, Meknassy, Kasserine, Thala, Gafsa, Tebourba e Tunisi. L’8 gennaio, nella città di Tebourba, a trenta chilometri dalla capitale, un manifestante è morto durante gli scontri, soffocato dai lacrimogeni sparati dalla polizia. Il 14 gennaio, anniversario della cosiddetta “Rivoluzione dei gelsomini”, il sindacato UGTT ha indetto uno sciopero per il 17 dello stesso mese per ottenere aumenti salariali. La partecipazione allo sciopero è stata molto forte e altre iniziative di lotta sono annunciate per i prossimi giorni, segno del malcontento della classe operaia.

Questa nuova rivolta è dovuta alla depressione economica di vaste regioni e ad elementi di debolezza dell’economia tunisina; la disoccupazione si aggira sul 15% della popolazione attiva mentre si stima che l’economia “informale” pesi per il 50% del Pil occupando, senza alcuna assicurazione sociale, circa 2 milioni di lavoratori. A questi aspetti strutturali dell’economia vanno aggiunte le misure economiche approvate dal governo ed imposte dal Fondo Monetario Internazionale, che includono il deprezzamento del dinaro, l’aumento dell’Iva e i tagli alla spesa pubblica.

Il FMI può esercitare una forte pressione nei confronti del governo di Tunisi perché nel 2016 aveva aperto linee di credito al paese nordafricano per 2,6 miliardi di dollari. Dal 1 gennaio del 2019, con l’entrata in vigore della legge finanziaria e dunque con gli aumenti dell’IVA che va dal 2% fino al 300% a seconda dei prodotti, si è introdotto un incremento forzoso e generalizzato dei prezzi che secondo le stime costerà per ciascuna famiglia 300 dinar al mese: una cifra insostenibile per i lavoratori di un paese in cui il salario minimo intercategoriale è di 357 dinar. Fra i generi di prima necessità sui quali si sono registrati aumenti consistenti ci sono il pane, la pasta, il cuscus, il latte, l’olio vegetale e lo zucchero. La speculazione sui prezzi intanto prolifera. Lo zucchero sfuso è diventato introvabile al prezzo calmierato di 0,97 dinar.

Il peggioramento delle condizioni di molti settori del proletariato tunisino, dovuto all’erosione dei salari causata da un tasso d’inflazione del 7,5%, negli ultimi mesi dell’anno scorso si era tradotto in agitazioni dei lavoratori spesso smorzate dai sindacati collaborazionisti. Lo scorso ottobre il sindacato UGTT aveva indetto uno sciopero generale per chiedere aumenti salariali. Per placare la rabbia dei proletari e scongiurare lo sciopero il governo aveva concesso aumenti salariali da 205 a 250 dinari (rispettivamente 62 e 73 euro) per i lavoratori delle aziende del settore pubblico, riflettendo gli aumenti già ottenuti nel settore privato, si era impegnato nello stesso tempo a non privatizzare le stesse aziende pubbliche e aveva promesso aumenti salariali anche per i lavoratori della funzione pubblica.

Troppo presto il segretario generale dell’UGTT Noureddine Taboubi aveva esultato parlando di “una vittoria per la Tunisia e per la pace sociale”, come se quest’ultima non fosse da sempre la somma fregatura che i capitalisti e il loro Stato rifilano ai proletari. Per lo Stato gli aumenti dei salari sarebbero costati 8 miliardi di dinar, una somma non prevista dalla legge finanziaria, elemento che suscitava l’inquietudine degli investitori stranieri e del FMI, dato che i salari dei lavoratori pubblici incidono per 14,4% del PIL tunisino e per i 2/3 del gettito fiscale. Secondo le previsioni gli eventuali aumenti ai lavoratori dello Stato avrebbero fatto salire ulteriormente la quota dei salari dei dipendenti pubblici oltre il 17% del PIL.

Così, di fronte all’indisponibilità del governo a concedere aumenti non irrisori ai dipendenti statali, l’UGTT si è vista costretta convocare di nuovo lo sciopero dei dipendenti pubblici, che si è svolto nel novembre scorso. Un corteo al quale hanno partecipato molte migliaia di lavoratori ha sfilato per le vie di Tunisi raggiungendo la piazza antistante il parlamento dove i manifestanti hanno scandito slogan che chiedevano le dimissioni del governo.

Ora, con le nuove proteste di piazza, l’anno si apre all’insegna del fallimento dei sogni di pace sociale covati da borghesia e bonzi sindacali. Ma questo aspetto rischia di fare incrinare la stabilità di un paese la cui tenuta sarebbe un fondamentale successo di immagine per l’ordine borghese.

La Tunisia è stata descritta dai media come l’unico successo delle cosiddette “primavere arabe”, un paese che ha compiuto una “riuscita transizione democratica”, con tanto di pacifica alternanza di partiti al potere. Eppure, come è lecito aspettarsi in tempi di crisi cronica del modo di produzione capitalistico, le masse proletarie e semiproletarie non si fanno abbindolare dalla “democrazia”, che in paesi come la Tunisia viene presentata come “una novità” rispetto ai regimi apertamente dittatoriali del recente passato. Basti pensare che alle elezioni amministrative svoltesi nel maggio del 2018 soltanto il 33% degli aventi diritto è andato a votare.

La democrazia nell’attuale fase storica non può non essere “blindata”, al punto da dovere convivere con uno stato d’emergenza in vigore ininterrottamente dal novembre del 2015 e che rischia di diventare permanente, anche se il presidente Béji Caïd Essebsi, il 5 gennaio scorso, nell’annunciarne l’ennesima proroga fino al 4 febbraio, ha promesso che questa volta sarà l’ultima e che la situazione tornerà “alla normalità”. Una normalità anche questa blindata: in una situazione di perenne incandescenza sociale, anche in Tunisia il regime borghese non può rinunciare ai poteri speciali e allo stato d’eccezione, per proibire gli scioperi e le riunioni “che possono provocare disordini”.


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