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A 100 ANNI DALLA RIVOLUZIONE PROLETARIA IN UNGHERIA

(6 Giugno 2019)

Béla Kun

Béla Kun

Cento anni fa, nel marzo del 1919 in Ungheria il proletariato proclamava la Repubblica Sovietica, la dittatura del proletariato, il potere statale della classe operaia. A dirigerla vi erano i comunisti, per lo più ex prigionieri di guerra in Russia, che avevano combattuto a fianco dei bolscevichi nella Rivoluzione del ’17.

In Ungheria, alla fine della guerra, la classe operaia, organizzata e ribelle, appoggiata dai contadini poveri, durante la fase borghese della rivoluzione, aveva rovesciato la monarchia. Ma aveva rinunciato al potere perché la sua coscienza di classe non era ancora sufficientemente sviluppata per prendere il potere da sola.

Ma, forte di una grande energia sovversiva, il proletariato ungherese si andava avvicinando al suo giovane Partito comunista e alle sue adeguate e nette parole d’ordine del potere sovietico e dell’insurrezione armata. Queste trovavano terreno fertile e presto si radicavano fra gli operai.

In seguito alla sconfitta nella guerra e alla disgregazione delle forze armate l’agitazione e l’attività organizzatrice del PCU invitarono all’armamento degli operai. La crisi precipitava. In breve gli operai dell’industria occuparono con le armi in pugno le fabbriche e le grandi proprietà agricole, cacciandone i proprietari.

Ma nella maggior parte dei casi quelle armi non spararono: la borghesia aveva cercato protezione e salvezza dalla rivoluzione nel Partito Socialdemocratico Ungherese, ma questo, non avendo il controllo delle masse, non poté svolgere apertamente la infame parte di Noske.

I socialdemocratici, reggicoda della vigliacca borghesia al potere, finsero di venire a patti con il Partito Comunista Ungherese, mostrando di accettarne il programma.

Solo quattro mesi prima, il 1° novembre 1918, quando ormai era palese il crollo dell’Impero Austro-Ungherese, i ministri designati dal PSDU, Kunfi e Böhm, nella nuova coalizione “democratica” del governo borghese, avevano giurato fedeltà nelle mani dell’arciduca Giuseppe, governo che, per conquistarsi l’appoggio dell’Intesa vittoriosa, aveva acconsentito che l’Ungheria servisse da base militare per l’intervento armato contro la Russia sovietica da parte dell’Intesa.

Kunfi nel suo discorso al giuramento aveva dichiarato: «È un pesante compito, a me convinto socialdemocratico, quello che mi tocca, dire, ma tuttavia lo dico, che noi non vogliamo agire col metodo dell’odio di classe e della lotta di classe. Noi rivolgiamo appello a tutti affinché, eliminando gli interessi di classe, mettendo in seconda linea le vedute confessionali, ci vogliano aiutare nel grande compito».

Lo stesso Kunfi, con la rivoluzione che premeva, a marzo 1919 si presentava assieme agli altri socialtraditori nelle carceri dove erano imprigionati i comunisti, perseguitati dal loro governo, per simulare di accettare il programma del Partito Comunista, che prevedeva la dittatura del proletariato.

Tuttavia in Ungheria la rivoluzione vince. La classe operaia armata, diretta di fatto dal solo partito comunista, prende tutto il potere nelle sue mani. La borghesia cede il potere senza che sia necessario versare una goccia di sangue.

Al posto dei ministri del governo, dimissionario, sono nominati dei Commissari del Popolo. Il 21 marzo si costituisce il Consiglio governativo rivoluzionario, che dichiara subito la Repubblica dei Consigli e dà esecuzione con la massima energia al programma politico ed economico immediato del proletariato.

In breve tempo svolse un complesso potente, profondo ed esteso lavoro di espropriazione e riorganizzazione economica.

Distruzione immediata degli organi di rappresentanza politica della borghesia.

Quindi si iniziò subito alla istituzione degli organi per il controllo della produzione e della distribuzione, iniziando dalle grandi fabbriche e dalle banche.

Furono presi subito provvedimenti a difesa della classe operaia: giornata lavorativa di 8 ore, 6 per i giovani, unificazione dei salari, ferie pagate. Ville padronali assegnate ai Consigli contadini e nazionalizzazione delle terre. Per mezzo dell’espropriazione delle case in affitto decine di migliaia di operai e di famiglie proletarie ottennero abitazioni adeguate. Nei palazzi aristocratici furono ospitati asili per lavoratori invalidi e anziani e nelle dimore di lusso sul lago Balaton alloggiati migliaia di bambini malati o abbandonati.

Requisizioni energiche di alimenti si fecero dove i contadini ricchi avevano organizzato controrivoluzioni armate, le quali, sempre più frequenti, erano facilmente represse.

Ma i rapporti di forza fra i due partiti, comunista e socialdemocratico, sono nettamente a favore del secondo, che si commette l’errore di non escludere dal potere, a cui vanno la presidenza del Consiglio di Governo (Sándor Garbai) e ben undici sui tredici Commissariati istituiti; ai comunisti solo due Commissariati: quello degli Esteri (Béla Kun) e quello dell’Agricoltura (Károly Vántus) e la carica di vice-commissari.

Presto si palesa il ruolo dei socialdemocratici, che svelano il loro vero volto di traditori e stampelle della borghesia contro il potere dei Soviet. I borghesi espropriati, l’aristocrazia e il pretume tramano per la controrivoluzione e si armano contro la Repubblica dei Soviet. Le forze dell’Intesa accerchiano militarmente l’Ungheria e la invadono. I predoni imperialisti radunati a Versailles con il blocco economico ne decretano la morte per fame.

I socialdemocratici adottano una politica vacillante e debole contro le classi aristocratiche e borghesi. Col pretesto di doversi ritenere la religione una questione privata, impediscono il disciplinamento del clero, tanto che i preti nei villaggi possono eccitare indisturbati i contadini ad affamare le città e alla controrivoluzione. Gli aristocratici, gli ufficiali ed ogni borghese di sentimento reazionario si aggirano liberi per il paese perché il Commissario alla giustizia, un socialdemocratico, si oppone ad ogni offesa della “libertà personale”.

In conseguenza dell’applicazione “moderata” della dittatura imposta dai socialdemocratici, gli elementi avidi della borghesia e soprattutto della piccola borghesia s’infiltrano nelle istituzioni sovietiche. I socialdemocratici trovano troppo radicali anche le disposizioni economiche e le sabotano dove è loro possibile, grazie anche alla massa di ex impiegati di Stato e di parassiti borghesi, lasciati nell’apparato dell’amministrazione per “ragioni umanitarie”. Provvedere di viveri la capitale diviene sempre più difficoltoso. Le superstizioni dell’ideologia democratica impediscono l’applicazione dei provvedimenti decisi contro il contadiname renitente.

I socialdemocratici di destra e di centro tramano dall’interno per l’indebolimento della Repubblica dei Consigli e per il suo rovesciamento. Convocano riunioni segrete, spesso si recano a Vienna per trattare con le autorità socialdemocratiche austriache e con i diplomatici degli Stati dell’Intesa.

Sia Lenin sia Béla Kun ammetteranno poi che l’alleanza con la socialdemocrazia fu un errore.

Il 24 giugno con alcuni navi fluviali corazzate sul Danubio circa 300 allievi ufficiali dell’ex-Accademia militare tentarono di prendere Budapest, e cominciarono a cannoneggiare l’Hotel Hungaria, quartier generale del governo dei Consigli. La ribellione, preparata in grande stile con l’aiuto delle Missioni dell’Intesa, venne facilmente respinta. Ma la debole ritorsione ebbe per conseguenza una recrudescenza dell’agitazione controrivoluzionaria, specialmente in provincia: il Consiglio governante graziò i 300 allievi ufficiali ribelli; condannò a morte i tredici organizzatori della rivolta, ma anche questi furono graziati per l’intromissione delle Missioni.

Ma la rivoluzione ungherese, isolata ed accerchiata da ogni lato, non poteva resistere.

Ad agosto l’esercito romeno entrava a Budapest e occupava militarmente l’Ungheria. Tutti i provvedimenti economici della dittatura furono revocati.

Siccome la borghesia voleva vendicarsi e, come da sua tradizione, in maniera cruenta ed esemplare. In poche settimane la controrivoluzione trasformò l’Ungheria in un cimitero di proletari. Assassinarono decine di migliaia dei loro migliori, ne stiparono altrettante decine di migliaia nelle carceri e in campi di internamento, per torturarli a morte con le bastonature e la fame.

I fatti la dicono lunga su quanto sia capace di perpetrare la borghesia per ripristinare il suo dominio. Di contro la dittatura del proletariato, accusata dai borghesi di orrori infiniti, in quattro mesi non aveva che causato poco più di duecento vittime, e il gran numero di queste si ebbe in scontri armati.

Lenin tira la lezione della sconfitta della dittatura del proletariato in Ungheria.
«Una serie di articoli, nell’organo centrale del Partito comunista austriaco, La Bandiera Rossa (Die Rote Fahne, di Vienna), ha rivelato una delle cause fondamentali di questo crollo [la caduta della dittatura del proletariato]: il tradimento dei “socialisti”, che a parole sono passati dalla parte di Béla Kun e si sono dichiarati comunisti, ma di fatto non hanno attuato una politica corrispondente alla dittatura del proletariato, ma hanno tentennato, esitato, sono ricorsi alla borghesia, e in parte hanno sabotato direttamente la rivoluzione proletaria e l’hanno tradita.
«I briganti dell’imperialismo (cioè i governi dell’Inghilterra, della Francia ecc.) che con la loro potenza mondiale avevano accerchiato la Repubblica sovietica ungherese, schiacciano selvaggiamente, per mezzo dei carnefici romeni, il governo sovietico ungherese approfittando naturalmente delle incertezze che si verificano nel suo seno».

Lezione che sarà dal nostro partito nettamente formulata: la dittatura del proletariato non potrà che coincidere con la dittatura esclusiva del partito comunista. Scriveremo in “Dittatura proletaria e partito di classe”:
«Lo Stato proletario non può essere animato che da un solo partito, e non ha alcun senso che vada oltre la congiuntura concreta la condizione ch’esso organizzi nei suoi ranghi e riceva nelle “consultazioni popolari”, vecchia trappola borghese, l’appoggio di una maggioranza statistica. Fra le possibilità storiche c’è l’esistenza di partiti politici che sembrano composti di proletari ma che subiscono l’influenza delle tradizioni controrivoluzionarie o dei capitalismi esterni (...) Sarà anche questa una crisi da liquidare sul terreno del rapporto di forza (...) Il partito comunista governerà solo, e non abbandonerà mai il potere senza combattere materialmente».

Il tentativo rivoluzionario ungherese, come quello contemporaneo in Germania e come quello di mezzo secolo precedente della Comune di Parigi, finì in una sconfitta. Furono degli “assalti al cielo”, contro le forze preponderanti, scaltre e spietate dalla internazionale conservazione borghese. Non ne facciamo una questione di responsabilità di uomini ma di una immaturità storica oggettiva. La rivoluzione comunista di domani, grazie al loro sacrificio, procederà sicura e inflessibile alla definitiva vittoria ovunque della classe operaia.

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