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GUERRE E CRISI ALIMENTARI

(28 Giugno 2019)

Dal n. 78 di "Alternativa di Classe"

monitoring food security

Sono 113 milioni le persone nel mondo che non hanno la possibilità di mangiare a sufficienza, di accedere a cibo nutriente, di procurarselo per le proprie famiglie, di bere acqua potabile. Una porzione di popolazione quasi doppia rispetto a quella italiana si trova, secondo la definizione delle organizzazioni internazionali che si occupano del tema, in una condizione di grave insicurezza alimentare. Ciò è determinato da guerre, disastri ambientali e cambiamenti climatici.
Questo, in sintesi, è il fosco quadro disegnato dal “Global Report on Food Crises” del 2019, presentato a Bruxelles nel mese di Aprile. Si tratta di un documento elaborato dalla Unione Europea, dalla Organizzazione delle Nazioni Unite per l'alimentazione (FAO) e dal Programma alimentare mondiale (WPP). Il Report evidenzia in maniera chiara il numero di persone che vivono in condizioni di insicurezza alimentare a causa della guerra.
Il 56% delle persone colpite da conflitti vive nelle zone rurali. Si parla di decine di milioni di yemeniti, nigeriani, congolesi e afghani. Le endemiche crisi di Siria, Iraq e Palestina, fanno sì, inoltre, che più di dieci milioni di persone si trovino in situazioni di estrema difficoltà, senza accesso continuativo e sicuro al cibo e senza possibilità di bere acqua potabile.
Nei giorni scorsi la coalizione a guida statunitense, che dal 2014 bombarda Siria e Iraq nella guerra allo Stato islamico, ha ammesso di aver ucciso 'non intenzionalmente' almeno 1300 civili tra l'Agosto 2014 e l'Aprile 2019 in 34.502 raid aerei. Molto diversi i numeri forniti dall'Ong di monitoraggio Airwars: sarebbero un minimo di ottomila e un massimo di 12.805 civili uccisi in quello stesso periodo.
Gli Stati Uniti, prima potenza imperialista, sono presenti in 80 Paesi con decine e decine di basi militari fisse, oltre 60 “Centri per la lotta al terrorismo” e truppe sparse su tutti i continenti. Non è vero che la guerra al terrorismo si sta esaurendo, anzi è diffusa in oltre il 40% dei Paesi del mondo. Si tratta, per i capitalisti, del business del secolo. Un giro d'affari spaventoso.
Il flagello della guerra continua ad incidere fortemente sulla sicurezza alimentare nei suoi due fattori condizionanti: produzione e accesso al cibo, ostacolati anche da frequenti circoli viziosi fra guerra ed eventi climatici estremi. Questo è quanto emerge dal rapporto “Monitoring food security in countries with conflict situations (Monitoraggio della sicurezza alimentare nei Paesi con situazioni di conflitto)”, presentato al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite a fine Gennaio dalla FAO sull'insicurezza alimentare in 16 Paesi: Afghanistan, Burundi, Repubblica Centrafricana, Repubblica democratica del Congo, Guinea-Bissau, Haiti, Iraq, Libano, Liberia, Mali, Somalia, Sud Sudan, Sudan, Siria, Ucraina e Yemen.
Per l' Afghanistan, il 2018 è stato l'anno più letale in termini di vittime civili (operatori umanitari compresi) da quando, nel 2009, la missione di assistenza ONU nel Paese ha iniziato a documentarle. Ora la maggior parte delle famiglie rurali si trova nella peggiore emergenza dal 2011 a causa della siccità. Nell'Aprile 2018 il governo ha dichiarato l'emergenza siccità in venti (20) province. La capacità di far fronte a questa difficoltà atmosferica (acuita dai cambiamenti climatici) è stata messa a dura prova da decenni di conflitti; gli aiuti alimentari hanno tuttora grandi difficoltà ad arrivare, quando gli scontri armati infuriano.
Molte famiglie hanno dovuto ripiegare su comportamenti di emergenza come: migrare in città, vendere il bestiame, consumare le sementi e ridurre le aree coltivate. Oltre il 90% dei contadini non ha semi per la stagione successiva. Gli allevatori lamentano pascoli aridi e morie di animali. Fra il 2012 e il 2018 sono tornati a casa quasi due milioni di afghani fra sfollati interni e rifugiati, ma l'acuirsi del conflitto ne ha fatti spostare oltre 270 mila, e altrettanto ha fatto la siccità.
Secondo una recente inchiesta, quasi il 40% della popolazione afghana lascerebbe il Paese, se potesse. Ma, precisa il rapporto, 'non hanno dove andare, visto che l'ambiente in Europa e Iran è sempre più ostile'. L'Italia è ufficialmente in Afghanistan per “ripristinare i diritti umani”, ma addestra e sostiene la polizia nazionale afghana, che secondo l'Onu utilizza da molti anni anche bambini, e supporta l'esercito afghano che pure, in violazione del diritto internazionale, distrugge scuole e centri sanitari.
In Yemen il 60% della popolazione si trova in situazione di emergenza alimentare. Il World Food Programme della Fao deve occuparsi di 12 milioni di yemeniti, fra i quali i bambini di meno di due anni, trattati con cibi a base di pasta di arachidi arricchita, e complessi di cereali per le donne incinte o che allattano. Si intrecciano vari elementi: il conflitto armato e le condizioni ambientali avverse, lo scarso accesso ai servizi sanitari, l'aumento delle malattie a causa delle diete povere di nutrienti.
In Yemen, prima della guerra, anche nelle circostanze più favorevoli solo il 20% del cibo era di produzione locale. Ora poi, i salari e le pensioni dei dipendenti pubblici non vengono pagati e questo, insieme all'aumento dei prezzi dei beni importati, aggrava la situazione. La guerra in corso nello Yemen ha provocato la più grande EMERGENZA PER LA SICUREZZA ALIMENTARE AL MONDO. Le parti in conflitto non hanno rispettato lo ”STATUS PROTETTO” delle strutture umanitarie, e ciò ha reso difficili e pericolosi gli interventi per prevenire la carestia.
Nella Repubblica democratica del Congo, nella seconda metà del 2018, si è registrato il secondo maggior numero (13 milioni) di persone con insicurezza alimentare acuta, a causa dei conflitti armati. Attualmente, il 23% delle popolazioni rurali si trova in una situazione di emergenza alimentare. I conflitti in atto nel Nord e Sud Kivu, Tanganika, Kasai e Ituri, hanno ridotto in particolare le colture di cassava, mais e riso. L'attività agricola è resa ardua anche dal cattivo stato delle strade rurali, e delle infrastrutture necessarie alla conservazione dei raccolti.
Nel 2017, in due regioni del Sud Sudan, è stato dichiarato lo “Stato di carestia”, ovvero lo scenario peggiore dal punto di vista della sicurezza alimentare, determinato da almeno il 20% delle famiglie dell'area, impossibilitate ad accedere al cibo e ad altre risorse basilari. In tale condizione, gli effetti della fame e il pericolo di morte sono evidenti. Attualmente, nel Sud Sudan, dove il conflitto civile persiste, il numero di coloro che hanno bisogno di sostegno urgente è di oltre cinque milioni.
Nella regione del Lago Chad, (Niger, Chad, Nigeria e Camerun), un grave deterioramento della sicurezza alimentare è previsto per l'estate in arrivo. Nella Repubblica Centrafricana, il conflitto armato ha portato la fame per 1,9 milioni di persone. La guerra crea fame ovunque. Sicuramente oggi la maggior parte degli immigrati che si dirige verso l'Europa, proviene e attraversa Paesi che stanno vivendo dilanianti conflitti.
”Guerra” non è solo quell'atto umano caratterizzato dall'uso di armi, che mirano alla distruzione fisica di uno schieramento avversario, composto di uomini, donne, macchinari e tecnologie. Questa è solo una tra le tante forme di guerra, che porta alla luce qualcosa di più profondo, quotidiano, non necessariamente operato mediante armi, ma anche attraverso accordi, strette di mano, firme di contratti.
Il concetto di guerra va ricondotto al concetto di antagonismo sociale e lotta di classe. Quella a cui noi pensiamo è la guerra tra borghesia e proletariato, le due classi entro cui si raccolgono in maniera più generale gli interessi e i bisogni degli uomini e delle donne all'interno della società capitalistica.
Le guerre attuali colpiscono in modo massiccio la popolazione civile, provocano spostamenti di massa di persone che fuggono con ciò che è rimasto, abbandonando i loro mezzi di sostentamento, e concentrandosi in luoghi con acqua e servizi igienici precari, dove è sempre più arduo sopravvivere. Nei Paesi in guerra le colture vengono abbandonate, i periodi di semina e raccolto saltano, le vie di approvvigionamento e di trasporto vengono interrotte, tutto questo ha un impatto feroce sulla popolazione.
Una indagine marxista ha il compito di non fermarsi ai moti apparenti, che risaltano sulla superficie degli schermi di televisori e computer. Si tratta, prima di tutto, di porsi la domanda: perché la miseria? La miseria è il risultato del modo in cui gli uomini producono e riproducono la loro esistenza (ossia della loro struttura sociale variabile nel tempo), appropriandosi della natura per trasformarla in beni, il cui valore è l'uso, cioè la capacità che hanno di soddisfare bisogni umani naturali (mangiare, bere, ripararsi dalle intemperie, etc.).
Attualmente la relazione dominante, entro cui gli uomini organizzano la produzione della loro vita materiale, è il rapporto di produzione capitalistico. E' entro le sue specifiche leggi, che bisogna dunque ricercare la risposta alla domanda: perché la miseria? I conflitti sono necessari alle potenze imperialiste per conquistare o incrementare le rispettive sfere di influenza economica, rendendo quindi le zone occupate delle vere e proprie colonie, mascherandole da “Stati indipendenti”, in cui si svolgono “libere“ elezioni.
Le crisi alimentari sono diretta conseguenza dello sfruttamento continuo, con cui le multinazionali, diretta emanazione delle borghesie nazionali imperialiste, operano nei centri economicamente più redditizi, depredando senza sosta le risorse energetiche e alimentari, che poi saranno introdotte nel mercato capitalistico globale.
La borghesia di tutti i Paesi maschera i propri scopi di rapina con una ideologia “nazionale”. Occorre un'azione unitaria del proletariato per uscire dall'isolamento e dagli antagonismi nazionali dei popoli, perché lo sfruttamento di una nazione da parte di un'altra dipende, in ultima analisi, dallo sfruttamento di un individuo da parte di un altro all'interno di ogni singola nazione, insomma dall'esistenza della lotta di classe tra lavoro salariato e capitale, tra proletariato e borghesia.
Lo stato d'animo dei lavoratori, dei precari, dei disoccupati e degli studenti a favore della pace esprime spesso un principio di protesta, di indignazione e di coscienza del carattere reazionario della guerra. Sfruttare questo stato d'animo è doveroso, ma non basta!
La guerra è necessaria al processo di accumulazione di capitale, funzionale alla riproduzione del sistema di produzione capitalistico, perché capace di diminuire i costi di produzione, con lo sfruttamento di materie prime e forza-lavoro a basso costo, e costituire così una controtendenza alla caduta del saggio del profitto. Il capitalismo internazionale non può fermare la guerra, perché è in essa la sua unica possibilità di sopravvivenza.
Oggi i lavoratori di tutti i Paesi devono lottare contro le rispettive borghesie, responsabili allo stesso modo del massacro di milioni di proletari. La divisione di classe tra sfruttati e sfruttatori è netta e profonda, e la necessità di farla finita con il capitalismo, un regime di miseria e di sangue, è perentoria.
L'azione comunista potrà effettivamente sfruttare la grande opportunità, prodotta dal sistema capitalistico contro cui lotta, solo mobilitandosi per connettere le diverse parti del mondo del lavoro salariato e sfruttato, costituendo un fronte unitario, che tenga insieme lavoratori autoctoni e migranti, sulla base materiale della comunanza di interessi, bisogni, obiettivi, che la classe dei lavoratori condivide per la sua condizione di classe dominata. E' chiaro il carattere internazionale dei fenomeni che agitano l'attuale sistema capitalistico: contro guerre e crisi alimentari bisogna lottare per porre all'ordine del giorno la rivoluzione comunista mondiale.

Alternativa di Classe

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