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L'angoscia dell'anguria

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(24 Luglio 2013) Enzo Apicella

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(Memoria e progetto)

Profondità della crisi generale e ritardo storico della rivoluzione proletaria

(da “Il programma comunista”, n. 1/2012; ripubblicato nel n.3/2019)

(13 Luglio 2019)

Ormai da almeno quattro anni, con intensità crescente e sviluppo sempre più complesso, viviamo dentro una profonda crisi di sovrapproduzione capitalistica. La stessa borghesia valuta questa crisi superiore, per profondità ed effetti, a quella del 1929, che inasprì la gigantesca operazione di repressione seguita alla sconfitta internazionale della rivoluzione proletaria (1922-1927) per tutti gli anni ‘30, e culminò nel secondo macello mondiale. La breve crisi successiva nel dopoguerra, quella del 1974-’75, chiuse il ciclo di accumulazione postbellico: “un’epoca d’oro”, come viene spesso descritta. Di lì a poco, avviene un processo di straripamento capitalistico nella “forma imperialista”, il più violento mai registratosi su scala mondiale – che chiude anche il “ciclo delle rivoluzioni nazionali” ed è punteggiato da crisi economiche e finanziarie sempre più pesanti e ravvicinate, fino a oggi (1980-’81; 1987-’91; 1997-’98, 2001-2003; 2007- 201?). Da quella data (1975), trentasei anni di accumulazione sempre più faticosa hanno trasformato lo scenario dell’intero mondo economico e sociale. La potente dinamica capitalistica, partita della Gran Bretagna a metà del XVII secolo, ha invaso ormai ogni angolo della terra. 
Alcuni anni fa, all’inizio di questa crisi, ripubblicando gli articoli usciti sulla stampa di partito nel 1974 e del 1975, dai titoli “Crisi e rivoluzione” e “Ancora su crisi e rivoluzione”, scrivevamo (n°1 e 2/2008 di questo giornale): “Compito dei rivoluzionari è analizzare correttamente il procedere e l’approfondirsi della crisi economica e attrezzare il partito a lavorare tra le file della classe proletaria, per guidare e dirigere la crisi sociale, che si sprigionerà dalla crisi economica in maniera non automatica e meccanica”. Un compito, estremamente importante e decisivo per le sorti della rivoluzione futura.
Nella premessa, dunque, sottolineavamo l’errata correlazione automatica tra crisi e rivoluzione nei processi economico-sociali e il rinnovato invito a non lasciarsi travolgere, nel corso dello sviluppo delle crisi, dalle elucubrazioni idealiste, di cui si nutre tanto l’attendismo fatalista (“la crisi nella sua evoluzione ci porterà alla rivoluzione”) quanto l’attivismo impotente (“solo l’azione ci consentirà di far partire il treno della rivoluzione”) – in entrambi i casi, di natura meccanicista. La crisi economica del 1974-‘75 (crisi storica, come la chiamammo), da noi prevista alla fine degli anni ’50 sulla base dello studio dei cicli economici, è stata esaminata dal partito molte volte, evidenziandone nelle nostre Riunioni Generali (“Corso del capitalismo mondiale”) le cause economiche di fondo che l’hanno spinta a emergere violentemente in superficie, in forma sincrona in tutti i grandi paesi capitalistici del mondo – quelle stesse cause economiche su cui poggiò la più vivace dinamica delle classi sociali alla fine degli anni ’60 e negli anni ’70.
Ciò che occorre affrontare e chiarire ogni volta è la dinamica che il proletariato è costretto a percorrere, nell’epoca di tardo capitalismo: dinamica che non si presenta in forma lineare e uniforme. Rimane, infatti, molto complessa la contraddizione tra il grado avanzatissimo dello sviluppo economico del capitalismo e il ritardo storico della rivoluzione proletaria. La relazione tra politica, schieramenti di classe e forze produttive è indubbiamente legata da funzioni di ordine superiore. Ma esse, come affermavano Marx ed Engels e continuarono a ripetere Lenin e Trotsky, hanno una soluzione reale: la realtà capitalistica porta in grembo la soluzione rivoluzionaria e la lotta di classe è capace di sciogliere i nodi della complessità. Determinante, ai fini della conoscenza, è in che modo il processo allo stato potenziale si posiziona ed evolve, all’interno del sistema dinamico.
“Il corso di sviluppo di un paese [è Trotsky a parlare], incluso il suo sviluppo rivoluzionario, può essere interpretato dialetticamente solo dall’azione, reazione e interazione di tutti i fattori materiali e sovrastrutturali, sia nazionali che mondiali, non mediante giustapposizioni o analogie formali” [1].
Così Trotsky indica il percorso (materialismo storico-dialettico) di ricerca nella connessione (azione, reazione, interazione) dei fattori (strutturali e sovrastrutturali) spaziali (nazionali e internazionali) nel corso del tempo. La complessità, così espressa, è l’unica che merita il nome d’indagine scientifica della realtà.
Sulla scorta della scienza marxista, noi cercheremo d’indicare, e non di “scoprire”, i parametri storici e materiali che permettono di far uscire dalla nebbia quel che sembra oscuro: il ritardo della rivoluzione. Per farlo, occorre innanzitutto mettere al centro dello scenario materiale la storia politica della classe dominante borghese, che è di ben altra natura rispetto a quella del proletariato, la classe oppressa. Solo dopo (per quanto dialetticamente connesse siano le due storie), è possibile mettere sotto il microscopio quella del proletariato e le sue profonde contraddizioni oggettive e soggettive. Ci limiteremo soprattutto alle osservazioni molto generali di Trotsky. Per quanto riguarda la prima (la borghesia), così egli spiega:
“Anche se la borghesia è in antitesi completa con le esigenze dello sviluppo storico, resta pur sempre la classe più forte. Non solo, ma si può dire che, dal punto di vista politico, la borghesia raggiunga il vertice della sua potenza, il vertice della concentrazione delle sue forze e dei suoi mezzi politici e militari, d’inganno, violenza e provocazione, cioè l’apogeo della sua strategia di classe, nel momento in cui la minaccia di un crollo sociale pesa più immediata su di lei. La guerra e le sue spaventose conseguenze […] hanno svelato alla borghesia il pericolo incombente della rovina. È questo che ha acuito al massimo il suo istinto di conservazione. Quanto è maggiore il pericolo, tanto più la classe, come il singolo, affina le proprie energie vitali per la sua lotta di conservazione. Non dobbiamo inoltre dimenticare [è questo il grande privilegio della classe dominante - NdR] che la borghesia si è vista in pericolo di vita dopo di avere acquisito un’enorme esperienza politica. La borghesia ha creato e distrutto ogni sorta di forme di governo: si è sviluppata sotto l’assolutismo puro, sotto la monarchia costituzionale, sotto la monarchia parlamentare, sotto la repubblica democratica, sotto la dittatura bonapartista, nello Stato alleato con la chiesa cattolica, nello Stato che perseguitava la chiesa ecc.; tutta questa ricca, multiforme esperienza, penetrata nel sangue e nella carne della casta dirigente della borghesia, è ora mobilitata da essa per mantenersi ad ogni costo al potere. Ed essa agisce con tante più doti inventive, raffinatezza, mancanza di scrupoli, quanto più i suoi capi riconoscono il pericolo che la minaccia” [2].
Aggiungiamo a tutto questo l’esperienza del servizio reso al dominio borghese dalla socialdemocrazia internazionale, partorita dal seno stesso della realtà operaia (principalmente nel periodo della II Internazionale, ma già in nuce nella I Internazionale), e successivamente la dittatura diretta e brutale della borghesia nelle vesti del fascismo e nazismo e delle altre forme liberali e democratiche, che hanno visto lo Stato borghese scendere in campo aperto contro il proletariato nelle due guerre mondiali. E, ancora, la funzione ultima dello stalinismo, il mostro che uscì dalle acque di una III Internazionale allo sbando, annientando e disperdendo, dopo il 1926, tutto il lascito di esperienze proletarie accumulate negli anni della preparazione rivoluzionaria, le energie dell’epoca rivoluzionaria e tutti i sogni e le speranze del futuro rivoluzionario sul piano mondiale. Il nostro partito, rovesciando il senso di queste esperienze, facendole nostre, le ha chiamate Lezioni delle controrivoluzioni, non risparmiando nulla che potesse servirci per la nostra rivoluzione futura sulla scorta degli insegnamenti di Marx, che fin dalle prime righe delle Lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850 così scrive: “In una parola: il progresso rivoluzionario non si fece strada con le sue tragicomiche conquiste immediate, ma, al contrario, facendo sorgere una controrivoluzione serrata, potente, facendo sorgere un avversario, combattendo il quale soltanto il partito dell’insurrezione raggiunse la maturità di un vero partito rivoluzionario”.
Un groviglio di contraddizioni, di resistenze, di attriti, d’inerzie oggettive, impedisce alla crisi economica anche nella forma più esplosiva di collidere, in forma diretta e immediata, con i fattori soggettivi, che promuovono, alimentano e guidano il salto storico, trasformandoli in fattori che, al contrario, ritardano, disperdono, spengono la crisi rivoluzionaria, pur essendo le condizioni di sviluppo economico più che mature a causa dell’esaurirsi della spinta d’accumulazione del modo di produzione. La forza dell’esperienza acquisita dalla borghesia è descritta ancora da Trotsky per i vari paesi, mettendo in rilievo le cause intrinseche del ritardo che pesa sulla classe.
Per la Gran Bretagna, l’esperienza di “pirateria mondiale”, “la posizione di privilegio assicurata, non solo alla sua borghesia, ma anche a una frazione della classe lavoratrice”, “il serbatoio di risorse controrivoluzionarie derivanti al capitalismo britannico da una lunga tradizione parlamentare e dall’arte del maneggio dei mezzi più raffinati di corruzione, materiale e ideologica delle classi oppresse”; per la Francia, “una classe dominante che da un lato seduce le masse popolari, compresi gli operai, con uno sfoggio drammatico di tendenze antidinastiche, anticlericali, repubblicane, radicali, massoniche ecc., dall’altro sfrutta i vantaggi derivanti dalla sua primogenitura e dalla sua posizione di usuraia mondiale per rallentare lo sviluppo di nuove e rivoluzionarie forme d’industrialismo”; per la Germania, “un paese avvantaggiato dal possesso di una tecnologia ultramoderna e da una ‘scienza’ dell’organizzazione e combinazione ignota alle primogenite della rivoluzione industriale - e la crescita non meno vertiginosa del movimento operaio organizzato e del livello di vita delle grandi masse, fino alla trasformazione della socialdemocrazia in ‘vivente incarnazione del feticismo organizzativo’ al servizio e nell’interesse della controrivoluzione capitalistica” [3]
La conclusione di Trotsky ha la forza dell’enunciazione di una legge fisica: “Quanto più un paese è, dal punto di vista capitalistico, potente – a parità di condizioni – quanto maggiore vi è l’inerzia dei rapporti ‘pacifici’ di classe, tanto più forte deve essere la spinta necessaria per strappare le due classi ostili – proletariato e borghesia – allo stato di equilibrio relativo, e trasformare la lotta di classe in guerra civile aperta. Una volta divampata, la guerra civile, a parità di condizioni, sarà tanto più aspra e rabbiosa, quanto più alto è il livello di sviluppo capitalistico raggiunto dal paese dato; quanto più i nemici sono forti e organizzati, tanto maggiore è il volume di risorse materiali e ideologiche a disposizione di entrambi” [4]
***
Il rapporto tra crisi economica e dinamica del proletariato risponde dunque a fenomeni innanzitutto oggettivi, economici. Ma il proletariato esplica nella società anche una funzione politica (la “tendenza alla sua dittatura” sulla società capitalista, come transizione alla società senza classi – che è la vera scoperta di Marx – ha natura oggettiva): il rapporto economico di dipendenza, che lega il proletariato al capitale, e quindi alla crisi, dipende, oltre che dal suo numero, anche dalle forme organizzative che esso si è dato nelle diverse situazioni storiche (organizzazioni sindacali e politiche, nella loro più varia natura: reazionaria, riformistica o rivoluzionaria), a volte manifestatesi come resistenza, altre volte come semplice volontà di lotta immediata o, più raramente, di attacco portato alla borghesia, sotto la guida di un organo speciale, il partito di classe. In questo senso, la tendenza oggettiva si manifesta come organizzazione e come consapevolezza soggettiva. La crisi spinge allo scoperto le incrostazioni strutturali e sovrastrutturali, le pressioni sociali, ma anche le sfide, il programma di lotta, le finalità intrinseche. Nessun “automatismo e meccanicismo” economicista, dunque, potrebbe predeterminare le trasformazioni che il proletariato subisce nel tempo e quindi la sua azione rivoluzionaria.
Lo può credere soltanto chi, ancora una volta, “connette con puro formalismo il processo economico e quello politico”, dimenticando che per Marx, se “la classe operaia possiede un elemento di successo, il numero” (e la dinamica stessa di sviluppo del capitalismo quel numero lo aumenta senza posa), d’altra parte “i numeri pesano sulla bilancia solo quando sono uniti dall’organizzazione e guidati dalla conoscenza”; e che la prima (l’organizzazione), sul piano strettamente economico, è costantemente minata dalla concorrenza reciproca fra proletari, mentre la seconda (la conoscenza, posseduta soltanto dal partito, e da esso importata come azione di avanguardia nella lotta di classe) è in pericolo costante d’essere distrutta, anche quando e là dove è acquisita, dal peso immenso dell’inerzia storica dell’ideologia dominante, con riflessi profondi e duraturi che dell’organizzazione medesima fanno, o rischiano di fare, un elemento non d’impulso ma di freno.
Numero, organizzazione e consapevolezza definiscono una classe sociale, il proletariato, volta verso la propria dittatura. Ma quel numero di proletari, pur crescente (la sua massa critica attiva e di riserva è comunque determinante nel corso della lotta), non può avere efficacia senza l’organizzazione, la quale è minata dalla concorrenza (quindi, dalla lotta nello stesso campo proletario) – un’organizzazione che non è mai unitaria, in quanto segue i processi (mai uniformi, mai lineari) di sviluppo economico, dunque variabili nel tempo e nello spazio, che ha subito il proletariato (precarietà, flessibilità, concentrazione, dispersione nel territorio). Infine, la coscienza, ovvero la consapevolezza della propria condizione storica, che solo un piccolo numero di proletari riesce ad acquisire: per un verso, le avanguardie della classe, quelle nate sul terreno delle lotte (immediate, spontanee) di difesa economica, quelle invece che trascendono verso forme organizzate, le forme sindacali, e per un altro quelle che dialetticamente si costituiscono come forme già politiche, embrioni o nuclei del potere di classe (i soviet, ad esempio).
Ben altra è la forma politica, l’origine e la funzione del partito, che si presenta come organo e guida della classe proletaria. Nel rapporto tra partito e classe, nella funzione che il partito esercita sia sulle forme primitive della lotta di difesa sia su quelle politicamente avanzate (le avanguardie di classe), si misura il grado di capacità di guida che il partito esercita, dimostrando che il partito “non fa” la rivoluzione, ma la guida. Queste grandezze (popolazione operaia, organizzazioni economiche e politiche), pur discendendo dal processo produttivo, intervengono dunque allo scoppio delle crisi: sfasamenti nel tempo, esplosioni improvvise (rivolte), lunghe depressioni e improvvise accelerazioni, corporativismo immobilizzante e locali accensioni di lotta di classe, s’intervallano e accavallano senza alcuna periodizzazione.
Che il rapporto fra crisi e rivoluzione sia meccanico e automatico lo può credere soltanto chi dimentica che già Marx ed Engels avevano registrato il fenomeno di un’“aristocrazia operaia”, nata sul tronco dei profitti dell’espansione commerciale e coloniale e dell’afflusso di giovani e potenzialmente vergini leve proletarie in trade unions ormai cadute nelle grinfie di “luogotenenti borghesi nelle file delle classi lavoratrici” e marcianti sotto la bandiera della tricipite sirena “libertè, égalité, fraternité”; che la fabbrica è a un tempo la scuola di disciplina (Lenin) e il bagno penale (Marx) dei salariati; e che gli stessi fattori oggettivi – disoccupazione, insicurezza di esistenza, miseria, ricaduta periodica negli strati più bassi dell’esercito industriale di riserva, spettro ricorrente della guerra, ecc. – che spingono e senza dubbio risospingeranno ancora le masse sull’arena dello scontro sociale decisivo, agiscono non di rado come ragioni di sconforto e di demoralizzazione, come spinte verso l’aperto o velato crumiraggio.
***
Dunque, insistevamo in quegli articoli del 1974 e 1975, ripubblicati nel 2008, non esiste automatismo che spinga il proletariato alla rivoluzione in una situazione di crisi, anche la più profonda, perché, non solo all’interno del partito, ma anche all’interno della classe, si forma nel tempo un potente sistema di conservazione. Nel parlare di aristocrazia operaia, non s’individua un aspetto particolare e contingente, che nasce e sparisce a seconda delle situazioni storiche. Così come lo stato di penetrazione dell’ideologia borghese può trasformare il partito rivoluzionario in partito di riforme sociali e quindi in un partito reazionario (una dinamica del tutto irreversibile), allo stesso modo la struttura controrivoluzionaria, che chiamiamo aristocrazia operaia (nata dal fatto che la classe è anche classe per il capitale, funzionale al capitale), una volta costituitasi (Marx ed Engels la chiamarono “partito borghese”), non sparisce più. Lo stato di conservazione del sistema borghese si nutre e vive quasi esclusivamente di tutti gli elementi che ebbero e hanno sostanza parassitaria all’interno della classe operaia. Ogni “operaismo” (ideologia propria dell’aristocrazia operaia) esalta con la fabbrica l’emancipazione corporativa del proletariato, la sua professionalità, la sua coscienza tecnica, l’autocoscienza politica, e non la scuola di disciplina e di lotta mortale contro la classe nemica, non il bagno penale.
E ancora. Quel meccanicismo e automatismo lo possono pensare stoltamente coloro che dimenticano oggi (e sono legioni!) che sulla classe operaia mondiale pesa un secolo e più di sanguinose sconfitte, di emorragie senza precedenti, di olocausti senza nome, successivi a pur gloriose battaglie, e che, soprattutto, troppe volte e in momenti troppo decisivi si è spezzato – complici o esecutori diretti i transfughi del movimento operaio – il nesso che solo può stabilmente unire “organizzazione” e “conoscenza” mettendo l’una al servizio dell’altra ed entrambe a quello della preparazione rivoluzionaria prima, del “rovesciamento della prassi” nella rivoluzione poi: cioè, il Partito.
Se, come sosteniamo da sempre in quanto comunisti, la consapevolezza è nel partito, organo della classe e non una sua semplice parte, lo scompaginamento di quella base teorica (la conoscenza) è sempre allo stato critico dentro il partito. Essa (la conoscenza) è in costante pericolo anche quando e là dove è acquisita. Chi ne è responsabile? E’ il peso immenso dell’inerzia storica che l’ideologia dominante trasporta in esso mediante i suoi profondi riflessi, che trasforma l’organizzazione politica (programma, tattica, strategia) in un fattore di conservazione. L’organo, per cui il proletariato diventa classe, e non semplice numero e pura forma organizzativa, è attaccato dall’interno affinché il suo compito sia disatteso, frenato, impedito. La crisi economica rigenera la dinamica del partito, nello stesso tempo in cui aumenta il suo grado di conservazione, trasformandone lo stato. Il materialismo dialettico ci ricorda sempre che solo assoluto è il movimento: contenuto e forma del partito al punto della crisi subiscono cambiamenti in un senso e gravi contraccolpi nell’altro. Il partito è chiamato al rapporto con la classe, alla sua funzione rivoluzionaria, all’attività, a esplicare la sua funzione militante. I due errori di attivismo e di attendismo, riflessi appunto dell’ideologia borghese, agiscono a questo punto perché è richiesta capacità operativa collettiva, riflessi saldi, realismo tattico e organizzativo nello stesso momento in cui si teme che si perdano la base teorica, i principi e le finalità, e soprattutto che il localismo, risvegliatosi, si avventi sulle singole unità combattenti, le sezioni. Sorge da qui una più crescente necessità di centralizzazione (non solo formale) delle forze e della sua organicità, maggiormente sorretta dalle capacità collettive acquisite nel tempo.
I complici o gli esecutori diretti di questa realtà reazionaria, che agisce da immenso freno della classe, sono i transfughi della borghesia, passati attraverso il movimento operaio, all’interno del partito. Il marxismo conosce fin dal suo apparire questa loro funzione e Lenin farà scienza della loro presenza nel partito, negando loro fin dall’inizio la libertà di critica. Che intende Lenin? Egli parla di un’instabilità di fondo scaturita dalla loro provenienza sociale. Per questo egli afferma, nel Che fare? E in tanti altri testi, che il partito può fondarsi solo e unicamente sulla chiarezza teorica, programmatica, tattica e organizzativa; che la “libertà di critica” ha il significato di ecclettismo, mancanza di principi fermi, indeterminazione dei fini e della tattica: significa disorganizzazione, espedientismo tattico, anarchismo. Il nostro partito, fin dal 1921, intese il senso di questo pericolo, di questa presenza “necessaria e inevitabile”, perché il partito di classe si forma dal terreno della società borghese, ma non così il suo programma, le sue finalità, che nascono dalla lotta di classe. Esso non è un’emanazione diretta del popolo o di una sua parte, i lavoratori, né delle forme organizzative borghesi (la democrazia popolare, la democrazia sociale, la democrazia operaia): le sue sorgenti e la sua forza stanno in una classe storica, il proletariato, che appare in tutta la sua determinazione rivoluzionaria solo in brevi tratti di tempo. Il nucleo vitale del partito non è la forma organizzativa in sé, ma il programma storico di questa classe. Le fonti su cui il marxismo mette radici a metà del secolo XIX, chiarirà Lenin, sono l’immenso campo della tradizione storica economica, politica, filosofica umana, e non il liberalismo, non il laburismo. Il cambiamento di nome da socialdemocratico a comunista dimostra che è avvenuto un salto storico con la Rivoluzione d’Ottobre, perché ci si svincola da un’origine democratico-liberale anche radicale, operaista, ricollegandoci alle origini del Manifesto del partito comunista. Il nostro centralismo organico, che sta a fondamento della nostra organizzazione, è la soluzione che Lenin e il movimento di classe cercavano, perché elimina per sempre un metodo d’organizzazione interno di natura borghese, quello democratico. Su questa base, a coloro che entrano nel partito, è impedita la libertà di creare nuove teorie, tattiche, strategie, forme organizzative.
Molte dunque le dinamiche conservative e reazionarie, molto più grandi soprattutto in un’epoca di parassitismo sociale, nella fase finale del modo di produzione capitalistico. In un estremo bisogno di sintetizzare quello stato reale in cui ci siamo trovati dopo il 1926, gli articoli del 1974 e 1975 concludono che il proletariato è stato investito da una profonda “crisi di direzione”, che impone la “costruzione” del partito. Non si è trattato della semplice perdita di una forma organizzativa, ma dello smarrimento della teoria rivoluzionaria: “dobbiamo avere il coraggio di dire che, per quanto grande e profonda sia la crisi del mondo capitalistico, non lo è mai quanto la crisi di direzione del movimento proletario: esso non ne investe soltanto ‘il grosso’, ma la stragrande maggioranza. […] O s’intende che ciò significa costruire con questi mattoni la condizione soggettiva fondamentale della rivoluzione – il partito – , costruirlo e difenderlo in tutto l’arco delle sue condizioni di esistenza, o ci si dà per vinti in partenza di fronte ad una crisi che verrà come ne sono già venute tante, e che passerà sul corpo martoriato della classe operaia e della sua avanguardia militante come troppe ne sono già passate”.
Oggi, a trentasei anni da allora, dobbiamo aggiungere che c’è qualcosa di ancora più profondo, che impedisce la “costruzione” della condizione soggettiva fondamentale della rivoluzione - il partito: qualcosa che risale alla sconfitta subita ad opera dello stalinismo. Esso ha riassunto in sé tutte le controrivoluzioni: il riformismo socialdemocratico, il feticismo produttivistico, il social- nazionalismo. La ricostruzione teorica del nostro partito a partire dal 1952 è avvenuta sulla base delle lezioni delle controrivoluzioni: i militanti che ci hanno preceduto ci hanno trasmesso, come attraverso il latte materno, non solo gli insegnamenti del passato, ma anche l’orrore di ciò che è accaduto; ci hanno consegnato, con le loro narrazioni, anche il senso di smarrimento, di solitudine e d’attesa della sua rinascita. Su questa base straordinaria, mai è venuta meno la consegna vitale di non darsi per vinti di fronte ad un compito così gigantesco.
 
Non sembri strano che la formale “scomparsa politica” di quel mostro che si chiama stalinismo non abbia “liberato” il proletariato, che la sua “messa in soffitta” non sia stata opera di una sua lotta trasformatasi in coscienza critica rivoluzionaria, che la “confessione” non sia avvenuta sul nostro terreno, ma su quello del nemico: l’antistalinismo democratico, la peggiore eredità dello stalinismo. L’immenso “campo di esperienze” antiproletarie della borghesia non può essere abbattuto da ideologie, da fantasmi di vendetta, da volontarismi di vario genere o dall’intervento di una nemesi storica. Per quanto ricchi di esperienze per il proletariato, i cicli finali delle tre Internazionali sono rientrati nel bagaglio dell’esperienza storica della borghesia. E non poteva essere altrimenti: la cultura dominante è sempre in ogni tempo la cultura della classe dominante. La lotta di classe rivoluzionaria del futuro va iscritta ormai a condizioni oggettive esplosive, nel corso delle quali il proletariato e la borghesia saranno costretti a combattere una battaglia a morte. In questi punti di svolta (crisi di sovrapproduzione e avvicinamento verso un nuovo conflitto mondiale), la volontà di potenza, di conservazione e di reazione della borghesia e quella rivoluzionaria del proletariato presenteranno il loro conto finale alla storia. Se solo a metà degli anni ’70 abbiamo definito chiuso il “ciclo delle rivoluzioni nazionali borghesi” e aperto il “ciclo della crisi finale”, deve comprendersi che solo da tre decenni appena la tracimazione del modo di produzione capitalistico è avvenuta su tutto il pianeta. Il proletariato ha accompagnato lo sviluppo della borghesia, ne ha condiviso la nascita tentando di scavalcarla, ha resistito, opponendosi, durante la sua trasformazione riformista e democratica e ha subito un’aggressione aperta e terribile nella sua fase imperialista, nel corso stesso della sua prima dittatura.
 
***
 
Oggi, in una situazione di controrivoluzione imperante, in assenza di vere lotte di difesa (men che meno, per il momento, di attacco), in una situazione in cui, tra il partito allo stato embrionale e la classe, lo spazio di lotta si presenta ancora vuoto di avanguardie proletarie combattive, parrebbe che la sola prospettiva sia ancora una resistente attesa. E tuttavia dobbiamo ficcarci bene in mente che le più grandi espressioni della vitalità e di lotta del proletariato si sono espresse in periodi di profonde crisi economico-sociali o di conflitti bellici: 1848-1850; 1870-1871; 1905; 1915-1918. Ai comunisti rivoluzionari s’impone un atteggiamento aggressivo verso la società borghese sulla base di quella teoria, di quel programma, di quell’organizzazione, di quel piano tattico, che la storia ci ha consegnato: nessun volontarismo, nessun attendismo fatalista, nessun automatismo fra crisi e rivoluzione, nessun settarismo, ma realismo rivoluzionario, apprendimento sulle pagine della storia di classe e sul campo di lotta dell’arte dell’insurrezione. Solo la fiducia nel futuro, solo la volontà di lotta, permetteranno di attraversare e superare l’inferno capitalistico, quando lo scontro si riaprirà nella forma più violenta. I comunisti non si danno per vinti e impediranno che altre tragedie possano ripetersi abbattendosi sul corpo della propria classe. Essi devono tornare alle loro origini, al tempo in cui si battevano perfino nelle stesse rivoluzioni borghesi, cercando di approfittare della situazione rivoluzionaria per strappare la vittoria dalle mani della borghesia e condurla sotto la propria direzione (la rivoluzione in permanenza, come la definì Marx).
 
Ben prima della grande Rivoluzione d’Ottobre, i giovani rivoluzionari italiani così scrivevano, nel 1912: “La convinzione è figlia dell’entusiasmo e del sentimento e c’é qualcosa che non lascia spegnere questo sentimento: la solidarietà istintiva degli sfruttati. Chi non ha più fiducia in questa e vuole sostituirla con la scuoletta teorica, lo studio, la coscienza dei problemi pratici, si trova  […] malinconicamente lontano dal comunismo” [5]. Sulla base di questo entusiasmo e di questo sentimento, sulla base della solidarietà di classe, sotto la guida di un partito che ha meritato il titolo di partito di classe, la convinzione diverrà così forte che niente potrà impedire di strappare dalle mani criminali della borghesia il futuro della nostra umanità di specie.
 
NOTE
[1] “In viaggio. Pensieri sulla marcia della rivoluzione”, 29 aprile-1 maggio 1919.
[2] Die Neue Etappe, Amburgo 1921.
[3] “In viaggio”, cit.
[4] “In viaggio”, cit.
[5] Cfr. Storia della sinistra comunista. I: 1912-1919, Edizioni Il programma comunista, 1992, p.182.

luglio 2019

Partito comunista internazionale
(il programma comunista – kommunistisches programm – the internationalist – cahiers internationalistes)

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