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Tanks giving day

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PROVE DI GUERRA NELLA FAGLIA DEL GOLFO PERSICO

(5 Agosto 2019)

Da "Il Partito Comunista" n. 396, luglio-agosto 2019

il partito comunista luglio-agosto 2019

Da qualche tempo, a seguire i media, è come se lo scoppio di una guerra fra Iran da una parte e Arabia Saudita, Israele e Stati Uniti dall’altra fosse dietro l’angolo. Benché non lo possiamo escludere, per l’accumularsi di contraddizioni all’interno gli Stati dominanti nella regione, occorre valutare i precari equilibri fra le potenze di rilevanza globale.

L’abbattimento di un drone statunitense il 20 giugno scorso non lontano dallo stretto di Hormuz da parte della contraerea di Teheran ha provocato la minaccia di attacco militare da parte di Trump. Ma vi sono ragioni che fanno esitare gli Stati Uniti dall’intervento militare massiccio.

Un fatto negli ultimi anni ha cambiato i dati strutturali della contesa interimperialistica anche in Medio Oriente: la conquistata autosufficienza energetica degli Stati Uniti. Dai primi mesi di quest’anno gli Usa guidano la classifica mondiale dei paesi produttori di petrolio con una estrazione giornaliera di circa 12 milioni di barili, seguiti dall’Arabia Saudita con 11,1 milioni, tallonata dalla Russia con 10,8 milioni.

Gli Stati Uniti negli ultimi anni hanno tentato di compensare il loro relativo declino come potenza industriale e il ristagno della loro produzione manifatturiera, con lo sviluppo del settore energetico, attraverso lo sfruttamento dei giacimenti di scisti bituminosi, i quali, nonostante gli alti costi di estrazione in rapporto a quelli bassissimi del Golfo, in seguito allo sviluppo di tecniche estrattive sempre più avanzate, sono diventati economicamente redditizi, garantendo oltre ai profitti anche una significativa rendita.

Questo permette ai borghesi di Washington di guardare alla tormentata regione mediorientale con maggiori margini di manovra rispetto a quando ne dipendeva per l’approvvigionarsi di greggio. Una politica attendista può essere per gli Stati Uniti più proficua del tentativo di forzare i precari equilibri regionali con un atto di forza militare.

I risultati di questo orientamento si sono visti nella guerra siriana, in cui gli Stati Uniti non sono riusciti a impedire che l’esercito regolare fedele a Damasco riconquistasse la gran parte del paese Sono riusciti ad impedire che si consolidasse un’egemonia iraniana sulla Siria e sull’Iraq sia appoggiando le Forze Democratiche Siriane a prevalenza curda, ma anche attraverso la mediazione con altre potenze, in primo luogo la Russia, con la quale l’amministrazione Trump ha mantenuto aperto il canale diplomatico.

Ne sono un esempio anche le consultazioni di fine giugno a Gerusalemme che hanno visto protagonisti il consigliere alla sicurezza degli Stati Uniti John Bolton, il premier israeliano Benjamin Netanyahu e il segretario del Consiglio di sicurezza russo Nikolaj Patrushev. Al centro dei colloqui è stata la richiesta israeliana di limitare l’attività delle milizie sciite iraniane in territorio siriano. Sappiamo bene infatti come la mediazione russa su questo punto sia utile tanto per gli Usa, sempre più in fregola di “isolazionismo” (è tradizione statunitense da sempre la pausa che precede la corsa al riarmo) e interessati a trovare soci nella costosa attività di gendarmi del mondo, quanto per Israele, che negli ultimi anni di guerra ha goduto del beneplacito di Mosca nelle centinaia di raid aerei in territorio siriano contro le installazioni delle milizie iraniane e dell’esercito di Damasco.

Ma questa attitudine “isolazionista” certo non significa che gli Usa possano disinteressarsi alla spartizione della enorme torta della rendita petrolifera mediorientale. Nel Golfo i costi di estrazione, gestione e trasporto del petrolio difficilmente vanno al di là di 10 dollari al barile (Iran 9,09, Arabia Saudita 8,98, Iraq 10,57). Se si considera che il prezzo medio del petrolio per i paesi dell’OPEC si è attestato nei primi mesi di quest’anno attorno ai 65 dollari, è facile il conto: per ogni barile di greggio, oltre ai normali profitti, si deve calcolare una rendita non lontana dai 55 dollari.

Un caso che calza perfettamente con quanto riportava Marx nel Capitale delle parole di un pubblicista che si occupava di economia: «Il capitale fugge il tumulto e la lite ed è timido per natura. Questo è verissimo, ma non è tutta la verità. Il capitale aborre la mancanza di profitto o il profitto molto esiguo, come la natura aborre il vuoto. Quando c’è un profitto proporzionato, il capitale diventa audace. Garantitegli il dieci per cento, e lo si può impiegare dappertutto; il venti per cento e diventa vivace; il cinquanta per cento e diventa veramente temerario; per il cento per cento si mette sotto i piedi tutte le leggi umane; dategli il trecento per cento e non ci sarà nessun crimine che non arrischi, anche pena la forca» (I Libro, “Genesi del capitalista industriale”).

L’acuirsi delle tensioni nel Golfo, in con­si­de­razione di questi aspetti, non permette facili analogie fra le due guerre del 1990-91 e del 2003, guidate per la parte statunitense dai presidenti Bush padre e figlio, e un’eventuale nuovo conflitto che prenda di mira l’Iran.

Anche gli attacchi, in due ondate a maggio e nella seconda decade di giugno, contro alcune petroliere in rotta dallo Stretto di Hormuz verso l’Oceano Indiano, non sono stati utilizzati come casus belli, nonostante sia da parte statunitense sia saudita si sia fatto di tutto per accreditare la versione dell’aggressione iraniana. Il secondo attacco si è verificato proprio mentre il premier giapponese Shinzo Abe si trovava a Teheran in visita ufficiale, offrendo la propria interessata mediazione per scongiurare le minacce di guerra, che per il Giappone potrebbero avere gravi conseguenze. Occorre ricordare che il 90% del petrolio diretto nel paese del Sol Levante passa per lo Stretto di Hormuz, un braccio di mare largo meno di 40 chilometri e con una profondità massima di 200 metri, che in caso di guerra potrebbe venire agevolmente bloccato dalla pur debole marina militare iraniana.

Per ora le scaramucce verbali e la distruzione di qualche materiale bellico potrebbe bastare agli Stati Uniti nella politica di isolamento di Teheran e per limitarne fortemente le esportazioni di petrolio. In tale maniera gli Stati Uniti potrebbero accaparrarsi una fetta maggiore della rendita petrolifera semplicemente impedendo all’Iran di conservare il quinto posto nella classifica mondiale dei produttori di petrolio e costringendo gli acquirenti (in primo luogo Cina, India, Corea del Sud e Giappone) a rivolgersi altrove, magari alle petromonarchie dell’Arabia Saudita e degli Emirati Arabi Uniti, solidi alleati degli Stati Uniti.

L’ulteriore emarginazione dell’Iran dai grandi flussi del commercio mondiale favorirebbe il logoramento del regime teocratico iraniano del Velayat-e Faqih, quella “luogotenenza del giurisperito” che pretende di modellare le istituzioni statali sulla base dell’interpretazione sciita della shari’a. Ma anche questo piano illuminato non sappiamo quanto sia veramente nelle corde della borghesia americana, come di quella cinese e russa, dacché difficilmente saranno disposte a rinunciare a quell’oscurantismo religioso, estremo baluardo sempre a difesa del regime del capitale.


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