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Il "Movimento del 4 maggio 1919"
I GIOVANI E IL COMUNISMO IN CINA, ALLORA E OGGI

(28 Agosto 2019)

Lo scorso 30 aprile, in occasione del centenario del “Movimento del 4 maggio” del 1919, si è tenuta a Pechino una conferenza solenne durante la quale il presidente cinese Xi Jinping ha pronunciato un discorso dinanzi ai rappresentanti del Partito, delle Forze Armate e della gioventù cinese. Il massimo dirigente cinese ha sostenuto che il principale insegnamento da trarre dall’esperienza dal “Movimento del 4 maggio” è il patriottismo.

Sottolineando la straordinaria importanza della gioventù cinese in tutti i risvolti rivoluzionari che hanno attraversato il grande paese asiatico, il presidente Xi ha ribadito la necessità che i giovani cinesi siano fedeli al Partito, che lavorino sotto la sua guida alla realizzazione del “sogno cinese”, al “risorgimento della nazione”, formula usata dai dirigenti cinesi per indicare il ritorno della Cina al ruolo di grande potenza mondiale.

Benché il partito unico cinese si proclami ancora “comunista”, i due elementi enfatizzati da Xi Jinping, fedeltà al Partito e patriottismo, non sono in contraddizione tra di loro dal momento che il PCC, dopo la sconfitta proletaria del 1927, ha abbandonato qualsiasi prospettiva proletaria per diventare “il vero Kuomintang”, cioè un partito borghese al servizio degli interessi dello sviluppo capitalistico cinese, facendo del nazionalismo un elemento fondamentale della sua ideologia.

Il “Movimento del 4 maggio” è considerato un momento fondamentale nella storia della Cina moderna, che diede avvio al processo di liberazione dalla sottomissione alle potenze straniere, iniziata con le Guerre dell’Oppio che aprirono quello che i cinesi considerano “il secolo dell’umiliazione”, e la sua celebrazione permette ai dirigenti di Pechino di fare facile propaganda patriottica.

Il “Movimento del 4 maggio” è stato sicuramente un movimento nazionalista. Ma oggi l’enfasi nazionalista di Xi è quella di una Cina imperialista che lotta da brigante contro altri briganti per la spartizione del mondo, una Cina ben diversa da quella di cento anni fa che era, invece, la preda di tutti i maggiori predatori imperialisti.

Oltre a ciò, nell’analisi del “Movimento del 4 maggio”, c’è un altro elemento fondamentale da tenere presente: nemmeno il mondo di cento anni fa era quello di oggi. All’epoca, nel 1919, c’era appena stata la grande vittoria proletaria della Rivoluzione bolscevica, che aveva conquistato un grande e importante paese come la Russia, da sempre baluardo della controrivoluzione; ad Ovest come ad Est l’avanzata della rivoluzione mondiale faceva tremare la borghesia e le classi dominanti di ogni paese; nel marzo del 1919 era sorta la Terza Internazionale che si avviava a diventare il Partito Comunista Mondiale, l’organo che avrebbe guidato i movimenti comunisti in ogni paese. In questo contesto, nella visione mondiale e proletaria dell’Internazionale, anche i movimenti rivoluzionari nazionalisti che sorgevano nelle colonie e nelle semi‑colonie assumevano una rilevanza rivoluzionaria che poteva essere inserita in una grande strategia mondiale di lotta contro l’ordine mondiale borghese.


L’avanzata ad oriente della rivoluzione mondiale

La presa del potere in Russia nel novembre del 1917 aveva segnato una svolta storica di proporzioni immense e apriva un’epoca di rivoluzione sociale nel mondo intero. I bolscevichi russi, come i rivoluzionari di tutti i paesi, confidavano che la rivoluzione sarebbe divampata in Europa, cuore del dominio borghese mondiale.

Ma, anche se i principali sforzi per uscire dall’isolamento in cui si trovava il potere rivoluzionario in Russia erano rivolti all’espansione della rivoluzione in Europa, fin subito dopo la presa del potere la questione orientale divenne di importanza vitale per lo Stato diretto dai bolscevichi, dal momento che aveva ereditato un vasto territorio in Asia confinante con la Turchia, la Persia, le varie entità dell’Asia Centrale, la Cina, la Corea.

Il fronte orientale era uno dei principali della guerra civile. Per gran parte del 1918 fin verso la metà del 1919 i bolscevichi furono sotto la pressione e l’avanzata da est delle truppe bianche, sostenute da numerosi eserciti stranieri, che arrivarono a minacciare il cuore dello Stato comunista. Il conflitto sul fronte orientale, con le armate controrivoluzionarie avanzate fino al Volga, mutò a favore dei bolscevichi a partire dalla primavera del 1919. Dall’estate del 1919 fino all’inizio del 1920 la guerra si era spostata sempre più ad est, in Siberia, e verso l’inizio del 1920 la guerra iniziava a volgere a favore dei bolscevichi, per concludersi con la completa sconfitta delle armate bianche.

Con l’avanzata dell’Armata Rossa ad oriente si ampliava anche il campo d’azione dell’Internazionale che, intanto, al Secondo Congresso aveva appena definito una precisa tattica comunista mondiale per l’abbattimento del capitalismo nel mondo intero, stabilendo che per la vittoria mondiale del comunismo era necessario che la lotta apertamente classista del proletariato delle metropoli capitalistiche si raccordasse alle rivoluzioni doppie dei paesi coloniali, attribuendo al proletariato delle colonie e al suo nascente partito comunista il ruolo di guida della lotta nazional-rivoluzionaria. Attorno a questa prospettiva delineata dall’Internazionale si raccolsero in Cina le prime forze orientate verso il comunismo. L’avanzata della rivoluzione mondiale ad oriente entrava in questo modo in contatto con il mondo cinese, dove però il proletariato era estremamente ridotto di numero e debole politicamente.


L’arretratezza dell’operaio cinese

Il ritardo dello sviluppo capitalistico in Cina incideva inevitabilmente sulle condizioni della lotta di classe. Ancora alle soglie degli anni Venti il proletariato cinese era solo di circa due milioni su una popolazione di oltre quattrocento. Ma, nonostante la debolezza numerica, la classe operaia cinese aveva già intrapreso delle azioni potenzialmente autonome, dei primi scioperi istintivi, spesso di stampo luddista; frequentemente caratterizzati da rivalità regionali o provinciali in quanto in molti casi gli scioperi in una fabbrica coinvolgevano solo gli operai originari di una stessa provincia. Gli operai erano ancora inquadrati in organizzazioni tradizionali, come gilde, associazioni regionali, società segrete, e non esisteva nulla di simile ad un sindacato.

Il carattere primitivo delle prime azioni della classe operaia cinese inevitabilmente si rifletteva sul piano politico. Tra i vari partiti che nacquero all’indomani della caduta della dinastia imperiale, nel 1911, alcuni pretendevano rappresentare gli interessi del proletariato. Ma queste formazioni cercavano solo di trarre profitto dal movimento operaio, rappresentando gli interessi di altre forze sociali, le ambizioni della piccola borghesia e del capitalismo nazionale. Nascevano per lo più dal desiderio di alcuni uomini politici di volersi costruire una clientela operaia, atteggiandosi a portavoce del mondo del lavoro, ma per la loro ideologia, per gli obiettivi politici e per le loro attività ne erano estranei.

Per tutto il periodo precedente la Rivoluzione d’Ottobre il marxismo è praticamente sconosciuto in Cina. In una società ampiamente precapitalistica, con un proletariato scarsamente sviluppato, il marxismo non aveva nessuna influenza su quei rivoluzionari che si ponevano come obiettivo la sovversione dell’ordine esistente e Marx era considerato uno dei pensatori occidentali come gli altri.

Una prima diffusione del marxismo in Cina avvenne in seguito agli eventi rivoluzionari in Russia. Appena dopo la Rivoluzione d’Ottobre, i bolscevichi cercarono di allacciare dei contatti con il mondo cinese e i suoi lavoratori, ma tutte le iniziative in questa fase iniziale dovevano fare i conti con l’arretratezza del movimento operaio cinese, che ancora non aveva sviluppato organismi classisti per la difesa economica e soprattutto mancava di una propria organizzazione politica.

Questo fu evidente con le lotte che si svilupparono in Cina nel 1919 conosciute come “Movimento del 4 maggio”: il proletariato cinese non aveva autonomia politica né organizzativa ed era sotto il controllo di altre forze sociali.

Ma se il movimento operaio in Cina mostrava ancora tutta la sua arretratezza, da diversi anni era nato e si era sviluppato un movimento nazionalista, all’interno del quale si era formata un’ala decisamente anti‑imperialista e rivoluzionaria.


Il movimento nazionalista rivoluzionario

L’asservimento politico della Cina aveva prodotto uno spiccato nazionalismo che si diffondeva soprattutto tra gli intellettuali, assumendo anche forme decisamente rivoluzionarie.

Storicamente in Cina il problema culturale aveva sempre avuto una grande rilevanza, derivante dalla stessa struttura sociale del Paese e dalla funzione che i detentori della cultura avevano nell’esercizio del potere politico ed anche economico. Per secoli tra gli intellettuali erano stati reclutati i membri che avrebbero formato la classe dirigente dello Stato tradizionale con fondamentali incarichi nella gestione del potere e nell’apparato. Ma, anche con l’abolizione nel 1905 degli esami imperiali, la cultura tradizionale aveva progressivamente perso la sua funzione sociale, e il valore economico degli intellettuali; successivamente, con l’arrivo al potere dei signori della guerra, erano stati sostituiti anche nella loro tradizionale posizione burocratica.

In questa situazione, tra gli intellettuali più avanzati iniziò a farsi avanti la volontà di ribellarsi a questo stato di cose. La pratica del “consenso” rispetto all’ordine costituito, che tradizionalmente aveva caratterizzato gli intellettuali, entrò in crisi e iniziò a diffondersi la convinzione che bisognava reagire di fronte allo sfacelo del paese e che per “salvare la Cina” era necessario rinnovare completamente i valori e i principi che stavano alla base della convivenza sociale. Ovviamente per gli intellettuali lo strumento d’azione era costituito dalla cultura, ma da una “cultura nuova”, non più finalizzata al “consenso” ma alla “rivolta”, essa doveva diventare un’arma contro l’assoggettamento della Cina agli stranieri e contro le classi dominanti, complici degli stranieri e responsabili della decadenza del paese. In sostanza doveva essere una “rivoluzione culturale”.

A sostegno di questa nuova prospettiva fu fondata nell’estate del 1915 la rivista “Gioventù nuova”, che divenne uno strumento per le diffusione di idee innovatrici influenzando ampi settori di quella gioventù che negli anni seguenti prese parte al movimento rivoluzionario. Fino all’inizio del 1919 numerose altre riviste si affiancarono a “Gioventù nuova”, e in tutto il paese nacquero associazioni giovanili e studentesche che facevano propria l’esigenza di un rinnovamento radicale della Cina.

La Rivoluzione d’Ottobre produsse all’interno di questo movimento culturale una differenziazione degli elementi rivoluzionari dal resto degli intellettuali. Nonostante la limitata conoscenza allora della dottrina marxista, crebbero le manifestazioni di entusiasmo per la rivoluzione in Russia, che iniziava ad essere considerata come la “miccia della rivoluzione mondiale”.

Ma prima di schierarsi apertamente con il bolscevismo doveva cadere l’ultima illusione circa la possibilità di emancipazione della Cina attraverso vie che non fossero quelle della rivoluzione proletaria.


Si muovono studenti e mezze classi

La fine della Prima Guerra Mondiale e gli accordi di Versailles dispersero la speranza che nella sistemazione post‑bellica la Cina venisse emancipata. Le colonie cinesi possedute della Germania passarono al Giappone e ciò determinò una decisa reazione anti‑giapponese e anti‑governativa: il 4 maggio 1919 ci furono grandi manifestazioni studentesche a Pechino. Migliaia di studenti manifestarono reclamando il ritorno dello Shandong alla Cina, la non firma del Trattato di Versailles e le dimissioni dei ministri filo‑giapponesi. Il “Movimento del 4 maggio” si estese a tutto il paese e dagli studenti e dagli ambienti intellettuali al mondo degli affari. Si intraprese una propaganda in favore del boicottaggio delle merci giapponesi.

A giugno, in seguito all’arresto di centinaia di studenti a Pechino, il movimento entrò in una nuova fase, in quanto a sostegno degli studenti si mosse la solidarietà della classe operaia con scioperi che coinvolsero decine di migliaia di lavoratori.

Il “Movimento del 4 maggio” raggiunse i suoi obiettivi immediati: il governo di Pechino costrinse alle dimissioni i ministri considerati traditori e la delegazione cinese a Versailles si rifiutò di firmare il trattato di pace e quindi di avallare la cessione dei diritti sullo Shandong al Giappone.

Esso aveva unito per la prima volta in Cina in una azione comune elementi della borghesia, degli intellettuali, della piccola borghesia e del proletariato industriale, una sorta di blocco delle classi, senza i contadini per il momento, con il proletariato in una posizione subordinata agli interessi nazionali delle altre classi, che chiedevano la fine del governo conservatore e la restaurazione della Cina come Stato sovrano, mettendo fine alla dipendenza dalle potenze straniere.

Ma se le manifestazioni e gli scioperi ebbero un ruolo subordinato nel “Movimento del 4 maggio”, nei mesi e negli anni successivi le lotte rivendicative si allargarono sempre di più e nacquero e si rafforzarono le organizzazioni operaie. Intanto gli eventi di quei mesi del 1919 avevano avuto importanti ripercussioni sui giovani che avevano partecipato con entusiasmo a quelle lotte.

A Versailles le potenze vincitrici avevano proceduto alla spartizione del mondo mostrando apertamente la natura brigantesca dell’imperialismo e che la guerra appena combattuta non era stata altro che una guerra di rapina. Le decisioni prese a Versailles dissolsero all’improvviso le speranze di riconquista della sovranità e dell’integrità territoriale, che parte della gioventù cinese confidava possibile per via negoziale e per accordo con le grandi potenze. Se nel maggio del 1919 gli imperialisti confermavano il loro interesse nel tenere sottomessa la Cina e continuare a depredarla delle sue risorse, a luglio il governo rivoluzionario dei bolscevichi in Russia mostrava al popolo cinese la politica di un potere rivoluzionario con tutta una serie di concessioni in favore del popolo cinese che praticamente abolivano tutti i privilegi che il governo zarista aveva strappato alla Cina. In questo modo il nazionalismo cinese subiva il fascino della Russia bolscevica.

La Terza Internazionale, operando all’interno dei movimenti nazionalisti una distinzione tra l’ala moderata incline al compromesso con l’imperialismo e l’ala decisamente rivoluzionaria, farà uscire i movimenti rivoluzionari nazionali dai limiti angusti di una lotta di liberazione nazionale dall’oppressione straniera per unirli al proletariato dei paesi sviluppati nella grande strategia mondiale per il comunismo. Ecco, con le parole di Lenin, come il Secondo Congresso dell’Internazionale diede una soluzione alle questione dei rapporti con i movimenti rivoluzionari nei paesi arretrati:

«Noi non abbiamo nulla a che fare con i movimenti democratici-borghesi e soltanto i movimenti rivoluzionari nazionali devono interessarci. Tra la borghesia dei paesi sfruttatori e quella dei paesi coloniali si registra una certa intesa, sicché molto spesso la borghesia dei paesi oppressi, pur sostenendo il movimento nazionale, lavora di concerto con la borghesia imperialista contro tutti i movimenti rivoluzionari. Questo fatto è stato documentato irrefutabilmente in sede di commissione, e al fine di ribadire meglio questa differenza, l’espressione “borghesie democratiche” è stata sostituita quasi dappertutto nelle tesi con l’espressione “rivoluzionari nazionali”. L’idea è che noi, in quanto comunisti, dobbiamo appoggiare i movimenti borghesi per l’emancipazione delle colonie solo quando tali movimenti siano effettivamente rivoluzionari, solo quando i loro rappresentanti non ci impediscano di educare e organizzare in senso rivoluzionario i contadini e le grandi masse degli sfruttati» (Discorso di Lenin sulla questione nazionale e coloniale, 26 giugno 1920).

Furono proprio gli elementi più radicali del “Movimento del 4 maggio” i primi ad aderire al comunismo. Il Partito Comunista in Cina nacque nel 1921, sotto la guida dell’Internazionale, principalmente per opera di intellettuali, che lo diressero negli anni a venire. Ma la sua forza proveniva, oltre che dalla vasta schiera di giovani ed intellettuali, dalla dinamica sociale che polarizzava le forze in campo e indirizzava il proletariato a militare sotto le bandiere del partito e del comunismo. La sua vera forza furono quelle centinaia di migliaia di anonimi proletari che istintivamente riconobbero nel PCC la loro guida, non solo per l’emancipazione politica della nazione cinese ma soprattutto per la distruzione del modo di produzione capitalistico che già dominava in Occidente e stava per diffondersi in Cina.


I giovani e il comunismo nella Cina di oggi

La crescente rivalità imperialistica tra gli Stati Uniti e la Cina ha portato diversi media della borghesia americana, e non solo, ad occuparsi dell’arresto di “giovani comunisti” cinesi da parte delle autorità della Repubblica Popolare. Che la stampa borghese abbia a cuore la sorte di alcuni giovani marxisti perseguitati in Cina si commenta da solo, resta però il fatto di una campagna ideologica messa in piedi da parte di questi organi della borghesia per screditare il rivale che prende spunto dalla contraddizione lampante di un paese come la Cina, che continua con la farsa del comunismo, che perseguita “giovani comunisti” per aver supportato una lotta operaia.

La vicenda è quella dello stabilimento Jasic Technology di Shenzhen. A partire dal maggio del 2018 decine di lavoratori di questa fabbrica, insoddisfatti delle basse retribuzioni e delle pessime condizioni di lavoro, di straordinari illegali e multe eccessive, hanno cercato di formare un sindacato. Quando i lavoratori hanno manifestato questa loro intenzione alla Federazione dei Sindacati di Tutta la Cina (ACFTU) la richiesta è stata rapidamente respinta. Ma, poiché i lavoratori hanno ugualmente iniziato ad organizzarsi, nel luglio 2018 l’azienda ha licenziato quelli attivi nella formazione del sindacato. Le proteste contro i licenziamenti hanno ricevuto la solidarietà di operai di altre fabbriche di Shenzhen.

A questi si è unito un gruppetto di una cinquantina di studenti che, provenienti da diverse parti della Cina, si sono organizzati nello “Jasic Worker Support Group” per solidarizzare e sostenere le azioni di lotta. A questo punto la repressione delle autorità cinesi si è abbattuta anche sugli studenti. Oltre a Shenzhen la repressione ha preso di mira “gruppi marxisti” di diverse città, con la scomparsa di attivisti in centri come Pechino, dove lo scorso 26 dicembre un gruppo di studenti si era riunito per celebrare l’anniversario della nascita di Mao Zedong, ma anche Canton, Shanghai e Wuhan.

Nell’ultimo decennio c’è stata un’esplosione di scioperi a Shenzhen e la vicenda della Jasic è solo una delle centinaia di lotte operaie che ogni anno investono la Cina. Benché le autorità di Pechino continuino con la farsa del “socialismo con caratteristiche cinesi”, le contraddizioni del modo di produzione capitalistico, che domina appieno e incontrastato in Cina, spingono gli operai ad una crescente lotta per la difesa dei propri interessi di classe. Ogni anno in Cina esplodono centinaia di lotte operaie per aumenti salariali e migliori condizioni lavorative.

Dati precisi sugli scioperi non ce ne sono. Per avere un’idea del fermento operaio si possono prendere in considerazione i dati elaborati dal “China Labour Bullettin” che ne monitora gli scioperi. Solo del 2018 sono stati registrati 1.700 scioperi e rivolte spontanee in tutto il Paese, contro i 1.250 del 2017, mentre nei primi 5 mesi del 2019 si registrano già più di 600 proteste. Il rallentamento della crescita economica e la guerra commerciale con gli Stati Uniti non possono far altro che peggiorare le condizioni di vita e di lavoro della classe operaia cinese. Di fronte all’incalzare della crisi capitalistica, i combattivi proletari cinesi continueranno sulla strada della lotta economica. Questa crescente ed incessante lotta proletaria pone inevitabilmente la questione dell’organizzazione in sindacati classisti: un incubo per il Capitale e i suoi servi.

I “giovani marxisti” in Cina subiscono la repressione perché, oltre a ritrovarsi per lo studio del marxismo, partecipano alle lotte degli operai e al loro tentativo di formare sindacati. Gli studenti non vengono repressi perché effettivamente oggi pericolosi, ma per la paura che possa mettersi in moto un processo di organizzazione dei lavoratori, di formazione di sindacati classisti, indipendenti e fuori dal controllo delle autorità statali e delle organizzazioni che fanno capo al PCC. Il pericolo reale per il Capitale non sono solo questi gruppi di giovani, dissidenti verso il regime ma che spesso si richiamano al maoismo, bensì la possibilità che dalle lotte della classe operaia possano sorgere forti organizzazioni classiste.

La storia ha insegnato ai dirigenti del PCC che queste possono avere lo stesso ruolo giocato negli anni Venti, quando un vigoroso movimento operaio condusse delle vere guerre di classe che misero in discussione l’ordine esistente. I dirigenti del PCC conoscono bene la storia delle poderose lotte operaie che sconvolsero la Cina negli anni Venti, sanno bene che il proletariato di Shanghai nel marzo del 1927, inquadrato in forti sindacati e guidato dai comunisti, prese il potere con un’insurrezione. La sconfitta, all’epoca, non avvenne sul terreno militare ma perché lo stalinismo disarmò il proletariato di Shanghai facendogli consegnare le armi che aveva in pugno a Chiang Kai‑shek che, appena entrato in città, versò laghi di sangue proletario.

Ma un domani prossimo e non lontano il proletariato cinese, libero ormai dalla necessità della doppie rivoluzioni, farà la sua rivoluzione monoclassista. E questa volta non sarà solo a Shanghai come nel 1927 ma in tutte le “Shanghai” di Cina, d’Asia e del Mondo che lo sviluppo capitalistico ha riempito di milioni di proletari.

Ai giovani cinesi che oggi cercano la corretta via marxista e che si organizzano in gruppi di studio e partecipano con entusiasmo alle lotte operaie, sarà richiesto di sintonizzarsi con questo movimento storico, gettare al mare tutti i falsi miti, come il maoismo, e ripercorrere l’esempio di quei giovani e di quei proletari che all’inizio degli anni Venti, privi di una formazione e una “cultura marxista” ma dotati “di coraggio, abnegazione, eroismo, volontà di combattere”, aderirono al comunismo, del quale oggi solo il Partito Comunista Internazionale mantiene viva la prospettiva.

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