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    15 SETTEMBRE: LO SCIOPERO GENERALE
    HA COMPIUTO 115 ANNI

    (30 Settembre 2019)

    Dal n. 81 di "Alternativa di Classe"

    ricordo dell'eccidio di buggerru

    Da mureddumanolo.wordpress.com

    Buggerru è un Comune di 1066 anime nella provincia di Carbonia-Iglesias, situato nella Sardegna sudoccidentale, fondato solamente verso il 1860, grazie all’inizio della attività mineraria, con la ricerca di zinco e di piombo.
    Nel 1864 l’ingegnere francese Eyquem, ricevute le autorizzazioni per la ricerca del piombo, cominciò a scavare e scoprire il giacimento di Caitas. Di conseguenza furono costruite tra il 1870 e il 1890 tre laverie (trattamento dei minerali): la “Buggerru”, la “Lamarmora” e la “Malfidano”, la più grossa, che operò sino al 1979.
    La ricchezza delle mineralizzazioni piombifere e zincifere fu fonte di investimenti, e di conseguenza confluirono nel paese molte persone desiderose di lavorare, anche se il lavoro minerario era duro, faticoso e poco retribuito, ma pur sempre prezioso in una regione con un altissimo tasso di povertà. Così il paese arrivò ad avere circa 9000 cittadini, e diventò una vera e propria cittadina con ufficio postale, farmacia, due sale di ricovero, l’energia elettrica, ecc.
    La titolare dei diritti di sfruttamento delle miniere era la società francese ”La Sociètè anonime de mines de Malfidano”, costituita a Parigi nel 1866. Essa, grazie all’aiuto dei potentati pubblici, riuscì ad impossessarsi di tutti i terreni, ed era proprietaria di tutti gli alloggi e spacci, dove erano venduti i generi alimentari a prezzi maggiorati, quando i salari avevano un potere d’acquisto bassissimo, considerata la crisi in corso.
    Buggerru all’inizio del ‘900 era chiamata “petit Paris”, in quanto i dirigenti minerari francesi si erano trasferiti nel borgo con le proprie famiglie, ed avevano creato un certo clima culturale. Così il centro minerario era diviso in due distinte zone, o, meglio, in due distinte classi: la prima, borghese, nella quale vivevano gli impiegati e i dirigenti minerari, che conducevano una vita mondana senza particolari problemi economici; la seconda, proletaria, rappresentata dai poveri minatori, che vivevano in misere topaie, chiamate case, dove la silicosi e la tubercolosi mieteva senza pietà le vite umane.
    Tutto era nelle mani della società, che deteneva il potere economico e sociale. I minatori dipendevano, anche nei momenti di pausa dal lavoro, dalla società, la quale si impossessava con gli interessi del magro salario. Un giro vizioso, che fece arricchire l’azienda mineraria e impoverire sempre più i minatori, che avevano l’impressione di avere un’entrata fissa, ma in realtà erano indebitati con il loro datore di lavoro, che diventava così arbitro della loro esistenza.
    A questo va aggiunto uno sfruttamento bestiale sul lavoro. Gli orari variavano, per turno, dalle 10-12 ore ed oltre per i 2000 minatori, poi c’erano le donne, addette alla cernita dei minerali, e i ragazzi. I salari erano bassi, i più bassi d’Europa, 2 lire e 75 centesimi al giorno per i minatori e da 60 a 80 centesimi per le cernitrici, con l’obbligo di pagarsi persino gli strumenti di lavoro, come, ad esempio, l’olio delle lampade.
    Il malcontento operaio aumentava, ma la paura del licenziamento, paventato dal padrone in caso di lotte, frenava i minatori, nonostante che si era formata a Buggerru “La Lega di resistenza di Buggerru”, che nel 1903 aveva mandato i suoi dirigenti al secondo Congresso della Federazione dei minatori. Le condizioni abitative, del lavoro (ancora il 7 Maggio 1904 morirono quattro persone al lavoro) e del costo della vita, come abbiamo visto, facevano crescere il malcontento, e, sulla scia delle lotte che si moltiplicavano in quei mesi in tutta la Sardegna (scioperi degli scalpellini a Maddalena e a Villasimius, dei conciatori a Sassari, dei minatori a Monteponi e altre località), si creava un certo fermento tra i lavoratori.
    La goccia che fece traboccare il vaso fu una circolare aziendale ad inizio settembre 1904, che reintrodusse, anticipandolo di un mese, il rientro anticipato al lavoro (orario invernale), che comportava una sosta di due ore prima del rientro pomeridiano, anziché tre ore, come prevedeva l’orario estivo.
    Il 3 Settembre i minatori si presentarono al lavoro un’ora più tardi, secondo l’orario estivo, ma solo dopo la minaccia del licenziamento da parte della direzione inscenarono una protesta. Il 4 Settembre i lavoratori scesero in sciopero, tutti gli impianti rimasero deserti, e perfino l’energia elettrica venne interrotta, lasciando il paese al buio.
    La direzione, presa alla sprovvista da questa mobilitazione, e non volendo concedere niente, chiese l’aiuto della forza pubblica; così giunsero al paese due compagnie del 42° Reggimento di fanteria. La folla, che gremiva la strada principale del paese, li accolse in un silenzio ostile, e non parve opportuno che i soldati bivaccassero in piazza; così si decise di alloggiarli in un edificio della miniera adibito a falegnameria. Tre operai furono indicati di provvedere alla sistemazione e una sentinella venne messa al posto di guardia.
    Mentre negli uffici della direzione una commissione di scioperanti cercava di intavolare una trattativa con il Direttore, Giorgiades, alla presenza del sottoprefetto, i lavoratori si riunivano nella piazza in attesa dell’esito dell’incontro. Quando sentirono dei rumori provenienti dalla falegnameria, intuendo che qualcuno stesse lavorando, cominciarono ad urlare che i tre operai lì presenti abbandonassero il lavoro e si unissero allo sciopero.
    Poco dopo, con l’aumentare della pressione, parecchi soldati cominciarono a schierarsi all’esterno con baionette cariche, e dai minatori partirono le prime sassate. Allora erano le 16,45; i soldati aprirono il fuoco sugli operai. Due morirono subito (Montixi e Littera), un terzo finì in ospedale (Fillau), e il quarto dopo un mese (Pilloni), oltre dieci i feriti. Un eccidio gratuito, che non aveva nessuna giustificazione: serviva solo a fare capire ai lavoratori, che osavano alzare la testa, qual era il clima che dovevano affrontare, soli contro tutti, con le forze istituzionali a proteggere la classe imprenditoriale, il suo profitto ed il loro sfruttamento.
    Il 5 Settembre ritornò la calma, e il 6 si tennero i funerali, ai quali parteciparono 3000 persone. Il 7 Settembre fu ripreso il lavoro, e dopo lunghe trattative il Direttore concesse il vecchio orario. Le due ore di pausa partivano dal primo di Ottobre. Ovviamente, l’inchiesta successiva portò a nulla di fatto e, come ebbe dire lo scrittore Dessi, ”i fucili spararono da soli, e le autorità ignoravano che i soldati avessero le giberne piene di cartucce...”.
    L’eccidio di Buggerru era l’ennesimo di una lunga serie, che aveva segnato (e purtroppo continuerà a segnare) la storia dei conflitti di lavoro nel nostro Paese. A quello di Buggerru seguì il 14 Settembre quello di Castelluzzo, in provincia di Trapani, dove rimasero uccisi due contadini e dieci furono feriti. Tutto questo in un contesto caratterizzato dalla rivendicazione generalizzata di migliori condizioni di lavoro e di salari più dignitosi.
    L’uso delle armi da parte della forza pubblica riaccese i ricordi di Milano del 1898 e lo sdegno tra i proletari fu enorme. Già il 15 Settembre a Sestri Ponente (GE) vi furono dei disordini, e nello stesso giorno, esattamente 115 anni fa, la Camera del Lavoro di Milano proclamò, sotto la spinta dei socialisti marxisti di Arturo Labriola, che si contrapponevano alla linea riformista di Turati, uno sciopero generale, che fu il primo sciopero di questo tipo non solo in Italia, ma anche in Europa!
    Lo sciopero, divenuto nazionale, durò dal 16 al 21 Settembre, coinvolgendo praticamente tutto il Paese. La borghesia spaventata lo considerò come un tentativo insurrezionale, e Giolitti, Presidente del Consiglio, alla richiesta dei socialisti rivoluzionari che il governo prendesse posizione sugli eccidi, chiese al re lo scioglimento delle Camere, sostenendo che un fatto così grave andasse giudicato direttamente dagli elettori.
    Lo sciopero di fatto non portò a dei risultati, non ottenendo il provvedimento che facesse cessare la repressione sanguinosa, ed anzi Giolitti ne approfittò, indebolendo i socialisti e facendo aumentare i contrasti tra riformisti e rivoluzionari.
    Alla fine del XIX° secolo, parallelamente all’avanzare dell’industrializzazione, era aumentato considerevolmente il numero degli scioperi, in un clima di tensione sociale, e il Governo Giolitti tentò di inserire i movimenti sindacali sulla scena politica e sociale del Paese, integrandoli nel quadro istituzionale. In questo contesto, i sindacati maturarono una crescente inclinazione al riformismo nella teoria e nella pratica, nonostante la presenza attiva di una minoranza di sindacalisti rivoluzionari, che certamente non avevano né la forza, né la capacità, e forse nemmeno la concreta possibilità sul piano soggettivo, di innescare un processo rivoluzionario.
    Comunque queste manifestazioni cominciarono ad avere un respiro nazionale e furono, di fatto, la preparazione alla costituzione, nel 1906, della CGIL. Solo la rivoluzione bolscevica in Russia, con la costituzione dei Soviet dei contadini e degli operai, indicherà poi la strada, applicando una corretta linea di classe, per coinvolgere masse di lavoratori all’abbattimento del sistema di sfruttamento.

    Alternativa di Classe

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