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il pane e le rose

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Il governo Conte-bis è da combattere da subito, senza sconti

Seconda parte

(7 Ottobre 2019)

cuneo rosso, gcr e compagnia bella 1

Questione fiscale: una vera patrimoniale! Le tasse le paghino i ricchi, non i lavoratori!

La campagna del vecchio governo sul “fisco amico”, l’agitazione leghista intorno alla flat tax e la promessa di Pd e sindacati di tagliare il cuneo fiscale hanno creato aspettative tra i proletari. Anche i lavoratori si aspettano un taglio delle tasse che incrementi le loro magre entrate. Senonché dalle due proposte in campo chi vive del proprio lavoro, per non parlare dei disoccupati, non ha nulla da guadagnare.

La proposta della Lega, vantaggiosa (e quanto!) per i ceti abbienti, ricchi e ricchissimi, avrebbe per la quasi totalità dei proletari effetti insignificanti perché farebbe scomparire le deduzioni, le detrazioni e forse gli 80 euro di Renzi, e per molti di loro effetti addirittura negativi. Tant’è che il suo spacciatore si è spinto a dire: l’adesione al nuovo sistema fiscale sarà volontaria, uno potrà rifiutarla se ci va a perdere. Ma anche la proposta di tagliare il cuneo fiscale di Pd e sindacati non è altro che una partita di giro a perdere, con il segno meno per la massa dei proletari. Le cifre fatte finora sono al solito ballerine. Comunque se i 5 miliardi di cui si parla fossero davvero stanziati tutti “a favore dei lavoratori”, ed è da vedere, si tratterà al massimo di 30-40 euro al mese. Finanziati come? O con nuove entrate fiscali messe sul groppone della fiscalità generale (cioè degli stessi lavoratori); o con tagli alla spesa previdenziale e sociale (idem); o con un aumento del debito di stato poiché calano le entrate contributive (idem); o con un mix di queste tre misure, che gravano sempre e comunque fondamentalmente sugli operai e sui salariati – essendo noto ai sassi che, tra elusione ed evasione, il carico fiscale sui profitti e le rendite è da decenni decrescente. Non è un caso che il taglio del cuneo fiscale sia visto di buon occhio dalle imprese perché darebbe ai lavoratori un incremento salariale immediato, alleggerendo le rivendicazioni salariali rivolte al padronato, e aprirebbe altri spazi d’azione al welfare aziendale che incatena l’operaio o il salariato ai risultati aziendali. Nel suo insieme, quindi, il taglio del cuneo fiscale è una noce vuota. Anzi, porta con sé la riduzione della massa complessiva dei salari (diretti e indiretti), e anche – nella grande maggioranza dei casi – dei salari effettivi individuali. Per quanto lì per lì si presenti, in un gioco di specchi, come un incremento del salario.

Bisogna rovesciare il tavolo!

Criticare, cioè, il senso comune che decenni di totale egemonia del pensiero capitalistico hanno creato tra i proletari. In tempi di sviluppo, di riformismo ancora in salute e di conflittualità operaia era prevalente l’idea che i ricchi dovessero pagare di più (secondo la progressività delle imposte); in tempi di crisi, contro-riforme e stasi delle lotte, una volta assunto come dato di natura che i ricchi diventino sempre più ricchi, nessuno osa più mettere in discussione l’andazzo. Per prevenire ogni tentazione, Conte ha alzato la voce: “Non faremo una patrimoniale“. Forse rispondeva a Landini che si era permesso di chiedere sottovoce “un sistema fiscale più equo”, frase inoffensiva che però potrebbe alludere (non più di questo) ad una diversa tassazione delle classi proprietarie. Nella Terza Repubblica del totalitarismo democratico è vietata anche l’allusione a simili delitti.

Noi comunisti, che dal 1848 (il Manifesto del partito comunista di Marx ed Engels) in poi, siamo sempre stati per l’imposta diretta fortemente progressiva sulle ricchezze, ce ne fottiamo di questo divieto e facciamo presente quanto segue. Dalla metà degli anni ’70 ad oggi è avvenuto un processo mondiale di formidabile detassazione dei profitti capitalistici, delle rendite e dei patrimoni più ingenti inaugurato negli Stati Uniti da Reagan e proseguito attraverso Clinton, Obama fino ai super-sconti fiscali di Trump (valore stimato: 1.000 miliardi di dollari). L’altra faccia di questo processo è un incremento delle tasse pagato dalle classi lavoratrici attraverso le imposte dirette, indirette e le tasse locali (che il federalismo fiscale moltiplica). Attraverso una serie di leggi di stato il sistema fiscale statunitense, che era diventato fortemente progressivo per le necessità di finanziamento delle guerre e, prima, per il timore del contagio rivoluzionario, si è trasformato in un sistema regressivo: paga di più chi ha minori entrate. Il grande boss della finanza Buffet ne ha quantificato gli effetti: “io pago il 17% di tasse sulle mie ricchezze, la mia segretaria il 34% sul suo stipendio”.

Non è andata diversamente in Italia.

Al 1974 il sistema fiscale italiano, improntato alla progressività, aveva 32 aliquote: la prima al 10%, la più alta al 72% (distanza di 62 punti). Al 2019 la situazione è radicalmente cambiata: le aliquote si sono ridotte a 5, la prima al 23% è salita di 13 punti, l’ultima al 43% è stata abbattuta di quasi 30 punti – la distanza tra la più alta e la più bassa è passata da 62 a 20 punti[3]. D’altra parte l’Italia è già oggi, anche prima che venga introdotta una flat tax generalizzata, un paese di molte, parziali tasse piatte, la quasi totalità delle quali è a favore del capitale di tutte le taglie, dalla più minuscola alla più grande, e della rendita immobiliare[4]. Il sistema fiscale italiano ha poi una molteplicità di regimi speciali di favore legalizzati o di fatto. La beneficiaria storica è la Chiesa, massima proprietaria immobiliare d’Italia, chiamata a pagare l’Imu solo sugli stabili adibiti ad attività commerciali. Ma le mega-aziende di ultima generazione Apple, Ryanair, etc., e le altre (aziende petrolifere e edili in testa) non scherzano[5].

Insomma, l’impressionante ginepraio delle norme fiscali ha da decenni un’inequivoca direzione di marcia. Che ha toccato il suo limite estremo nei paesi dell’Est Europa, il paradiso delle flat tax al 10, 12, 16% (inclusa la Russia di Putin). E ha contribuito all’intensificazione della concorrenza fiscale tra paesi, all’interno dei singoli paesi e della stessa Unione europea (dove c’è una selva di paradisi fiscali totali, a cominciare dal Lussemburgo di Juncker). La cosa è arrivata al punto da allarmare perfino i bounty killer del Fmi: “un aumento della progressività della tassazione del reddito, pur introducendo distorsioni [!!], avrebbe effetti benefici perché contrasterebbe l’ormai eccessiva, e penalizzante per la crescita, disuguaglianza nella distribuzione del reddito”. Pensano, e chi sa se ci pensano davvero, a inserire qualche rallentatore alla tendenza di fondo alla cui affermazione hanno dato un contributo determinante.

Il risultato globale è a due facce: l’accrescimento dei profitti privati e delle rendite, da un lato, e dall’altro la creazione di un deficit strutturale nel bilancio dello stato “per costringere lo stato a ridurre le sue spese” (parole di Reagan). La crescita delle disuguaglianze di ricchezza, centralizza (cioè privatizza all’estremo) oltre che il possesso della ricchezza socialmente prodotta, anche il potere politico. Allo stesso tempo blinda questa centralizzazione attraverso la produzione di un crescente indebitamento di stato, che mette il potere di stato nelle mani dei suoi creditori. Ed ecco venire avanti, come nuovi amministratori di questo meccanismo anti-proletario per conto dei creditori, la coppia Conte-Gualtieri. Che ripete pari pari il mantra del duo Conte-Tria: “dobbiamo tenere i conti in ordine”. Quali conti? I conti del capitale nazionale, europeo e globale. Ancora una volta, terrorismo di stato sul debito di stato. Se i proletari non rovesceranno il tavolo, creperanno soffocati da questo vincolo. Rompiamolo, tuona Salvini. Anche Renzi l’ha detto: facciamo una finanziaria al 3% deficit-pil per un triennio, così risolviamo il problema dei limiti alla spesa statale. I pappagalletti “sovranisti di sinistra” rilanciano: bisognerebbe arrivare al 5-6% di deficit se si vuol veramente fare qualcosa di sociale. Sociale un’ulteriore crescita del debito di stato? e chi è deputato a pagarlo? Non è forse un debito accollato alle classi lavoratrici, che porta 50, 60, 80 miliardi annui nei forzieri delle banche e delle classi proprietarie? Lo stato, che si presenta come un equo sensale, è in realtà un secondo, e altrettanto feroce, espropriatore del lavoro, dopo i capitalisti individuali: sia con i prelievi fiscali diretti sui salari, sia garantendo ai creditori il pagamento del debito di stato con montagne di lavoro non pagato, che servono a coprire le voragini create dalla strutturale detassazione del capitale (e neppure ci riescono da quanto sono profonde). Nel linguaggio di stato, tipicamente orwelliano, si parla di cuneo fiscale come qualcosa che grava sui capitalisti. Assurdo! Tutto il prelievo fiscale operato dallo stato non è altro che una massa di lavoro operaio/proletario espropriato, in qualunque modalità avvenga questo prelievo: direttamente sui salari, o prelevando dai capitalisti una quota del loro profitto potenziale (che è, appunto, lavoro non pagato).

E allora? Noi siamo, è ovvio, per denunciare e stracciare il Fiscal Compact. Ma il Fiscal Compact non è la causa, è l’effetto. Dobbiamo osare indicare e attaccare le cause: la progressiva detassazione dei profitti e delle rendite e, insieme, la spaventosa, costosissima, inflazione degli apparati di controllo e di repressione dello stato. Sono questi i bersagli da colpire. E, ancora una volta, non è una semplice questione italiana o creata dagli alti, certamente detestabili, burocrati dell’UE: è una questione globale che può e deve unire i lavoratori su scala internazionale. I nostri nemici sanno che la questione è esplosiva, e non si potrà all’infinito tenerla sotto controllo. La loro ricetta politica l’ha indicata al governo Conte-bis il santone del grande capitale apolide, Prodi, puntando il dito sull’evasione diffusa, che – sostiene – è pari a 100 miliardi. Attacchiamola e risolveremo ogni problema. Il motivetto della lotta all’evasione fischiettato da volponi del genere serve ad accattivarsi simpatie operaie, a fare degli operai e dei salariati che pagano alla fonte, la massa di manovra contro gli evasori presi in blocco, e dall’altra parte ad eccitare i piccoli padroni contro gli operai. C’è una doppia trappola in questa profferta alla classe operaia che Conte ha ripetuto a Lecce a un convegno della Cgil, con il totale consenso di Landini: 1)quella degli evasori non è una categoria sociale omogenea: va dai miliardari (in euro) fino agli spiantati – ce n’è anche tra i piccoli accumulatori che vanno gambe all’aria a decine di migliaia l’anno (senza lacrime da parte nostra, e però anche senza confonderli con i pescecani); 2)i proventi effettivi di questa fantasticata caccia all’evasione diffusa non sono mai stati significativi. Il risultato sociale e politico più rilevante è stato, invece, quello di allontare il rischio-patrimoniale sulle grandi ricchezze e l’attacco all’elusione fiscale delle grandi imprese.

Noi abbiamo una proposta molto più seria ed “equa” della proposta-Prodi/Conte, per di più di facile e immediata attuazione: una patrimoniale sul 10% dei più ricchi. La Banca d’Italia ha stimato che in Italia il 10% più ricco della popolazione ha nelle sue mani circa il 40% della ricchezza totale. Poiché questa ricchezza (reale e finanziaria) ammonta a 9.800 miliardi di euro, si tratta di poco meno di 4.000 miliardi di euro. Un’imposta patrimoniale dell’1% su di essa darebbe 40 miliardi, una del 10%, decisamente più adeguata, darebbe 400 miliardi. Sarebbe tutto sommato una modesta misura di espropriazione degli espropriatori. Con questi proventi, senza accrescere il debito di stato – che per noi è da disconoscere in toto, non da moltiplicare come vorrebbero Salvini, Renzi e i “sovranisti di sinistra”-, si potrebbe cominciare a fare qualcosa di concreto per attaccare le vere emergenze sociali (altro che gli sbarchi a Lampedusa!): la precarietà, la disoccupazione, i bassi salari, i lunghi orari di lavoro per i proletari a tempo pieno, l’emigrazione dal Sud, la mancata prevenzione delle malattie, l’inflazione di infortuni e di morti sul lavoro, l’assenza di asili nido pubblici, di consultori familiari e di centri anti-violenza, l’inquinamento ambientale, il deficit di case popolari, la diffusione delle droghe, la riduzione dei servizi sanitari, le pensioni da fame, il dissesto di tante strutture scolastiche, e così via. Tanto più se questa misura di igiene sociale anti-capitalista (che non consideriamo rivoluzionaria in sé, ovvio) si combinasse con una prima potatura alle spese militari, anziché mettere in cantiere, come gli ultimi governi, investimenti per nuove armi di distruzione di massa. Questo doppio tabù – l’impossibilità di una vera patrimoniale e l’intoccabilità delle spese militari – va violato con una campagna di propaganda contro il fisco di classe e con un programma di rivendicazioni che rispecchi i bisogni delle classi lavoratrici. Violando questo doppio tabù, sarebbe un gioco da ragazzi detassare completamente i salari sotto i 20.000 euro annui e una buona parte delle pensioni. Ed è inutile dire che la gestione statale dei proventi di una tale patrimoniale dovrebbe essere sottoposta rigorosamente a organismi di controllo composti da lavoratori e lavoratrici su base territoriale.

La questione salariale: forti aumenti salariali e salario medio garantito


Passiamo alla questione salariale.

Uno degli effetti (immaginiamo involontari) delle proposte 5S d’introdurre il reddito di cittadinanza e il salario minimo, è stato di far venire alla luce il livello incredibilmente basso della media dei salari e, legato a questo e alla cronica disoccupazione, l’estensione dell’area della povertà e degli working poor. La scadenza in autunno di alcuni importanti contratti per milioni di lavoratori (metalmeccanici, servizi, logistica, etc.) ci dà, nonostante il clima moscio, l’occasione di parlarne in termini di classe, alternativi dalla a alla zeta rispetto ai minimalismi grillini.

Cos’è accaduto ai salari in Italia negli ultimi 40-45 anni? (E, ancora una volta, la tendenza è a carattere globale, Cina inclusa, dove negli ultimi dieci anni i salari reali sono molto cresciuti, ma è fortemente diminuita la quota-salari sulla ricchezza complessiva prodotta.)

C’è stata una secca riduzione della quota-salari del Pil rispetto alla quota-profitti&rendite: la prima è caduta dal 66% del 1975 al 52% del 2016, la seconda è balzata dal 34% al 48%. Se l’economia italiana ha perso punti nell’economia globale, la classe dei capitalisti ne ha invece guadagnati contro i lavoratori all’interno. Ha ingigantito la sua ricchezza (e il relativo potere) impoverendo e vessando operai/e e proletari/e. Questo è quanto. Che esista una vera emergenza salariale l’ha confessato l’ex-presidente Inps Boeri che fu contrario alla soglia del reddito di cittadinanza a 780 euro (rivelatosi, poi, una bufala) perché almeno nel Sud il 45% degli occupati non raggiunge quella soglia. E al di là del Sud, è accertato che i salari italiani sono tra i più bassi dell’Europa occidentale, e che il loro potere d’acquisto sta riducendosi lentamente da decenni anche per effetto dell’eliminazione di ogni meccanismo di indicizzazione.

Nel frattempo è cambiata anche la struttura del salario. Attraverso leggi o contratti sottoscritti da Cgil-Cisl-Uil, quote minoritarie ma crescenti del salario sono state subordinate alla presenza, alla produttività, agli obiettivi di profittabilità delle aziende: è la contrattazione di secondo livello, che corrode gli elementi unitari nelle singole categorie e rafforza l’assoggettamento dei lavoratori al primato degli interessi aziendali. Nella grandissima parte delle imprese, infatti, non ci sono contratti di secondo livello, mentre nelle imprese più grandi i dipendenti degli appalti e dei sub-appalti non hanno accesso agli incrementi di salario legati alla produttività. Alla Fincantieri di Marghera, ad es., il premio di produttività è riservato ai dipendenti diretti, benché su 4 lavoratori del cantiere, 3 siano degli appalti e sub-appalti – una riserva di tipo razziale perché la grande maggioranza degli addetti agli appalti sono immigrati dall’estero o dal Sud. La struttura del salario è cambiata anche per l’ampliamento delle prestazioni di welfare (privato) fornite dalle aziende, che sono preferite dalle aziende agli aumenti di salario in busta paga perché sono detassate, sostituiscono quote del salario diretto e garantiscono profitti alle ditte amiche. Tra i cambiamenti negativi avvenuti in materia di salari c’è anche la moltiplicazione dei livelli, con lo spezzettamento delle categorie. Dopo l’autunno caldo si affermarono l’inquadramento unico operai-impiegati, la riduzione dei livelli e i passaggi automatici di categoria – da decenni si marcia nella direzione diametralmente opposta (salvo che in alcuni magazzini della logistica). Un altro aspetto di grande rilevanza è la crescente presenza sui luoghi di lavoro di non-salariati, lavoratori (soprattutto donne) che si offrono per stage, o a cui viene offerto un contratto di stage spesso a semplice rimborso spese, o di semi-salariati, lavoratori con contratti part-time di poche ore, a chiamata, di apprendistato, che con un singolo rapporto di lavoro non arrivano a mettere insieme un salario pieno. Sono i dati Istat che lo certificano: aumenta l’occupazione, non aumenta l’ammontare complessivo delle ore lavorate. E si sta allargando il tempo di lavoro totalmente gratuito prestato dai salariati, se è vero che le ore di lavoro straordinario sono frequentemente erogate senza corrispettivo di salario. I lavoratori coinvolti in questi tipi di rapporti costituiscono la parte preponderante degli working poor attuali (nonostante, nel caso degli stage, il loro non sia considerato lavoro). E andando avanti su questa linea fatta di stage, lavoro sottopagato, ulteriore aumento delle percentuali di working poor negli anni a venire, sarà questa la condizione che prevarrà tra i giovani lavoratori senza diritti.

Poiché in questi decenni quasi tutti i luoghi di lavoro si sono popolati di lavoratori immigrati, è stato un gioco abbastanza semplice per i demagoghi anti-immigrati imputare a loro la caduta dei salari. Gli sbattiamo sul muso una doppia evidenza: in Italia i salari sono ai livelli più bassi proprio là dove di immigrati ce ne sono di meno, al Sud; e sono in netta crescita solo in un piccolo segmento dell’economia, una parte della logistica, proprio grazie alle lotte degli immigrati. Negli ultimi dieci anni, infatti, il SI Cobas ha strappato con la lotta contratti che hanno al loro interno forti, in alcuni casi fortissimi, aumenti salariali, passaggi di livello automatici in base agli anni di servizio nei magazzini, una riduzione degli orari di lavoro – e i protagonisti primi di questa lotta sono stati appunto proletari immigrati di decine di nazionalità.

Le cause di fondo dell’emergenza salariale, quindi, sono ben altre che l’immigrazione, e si riducono, stringendo, ad una: la spietata ricerca di tassi di profitto più alti dopo la caduta degli anni ’70 e ’80, specie in Italia e nella UE che debbono far fronte alla concorrenza selvaggia degli Stati Uniti e dei giovani capitalismi ascendenti. Questa/e cause di fondo vanno messe in luce. Borse, banche, fondi di investimento, Confindustria, Fmi, Ocse, UE, Maastricht, Banca d’Italia e relativi servi al governo (inclusi i governi di centro-sinistra, in Italia e ovunque), amministratori delle ferree leggi dello sfruttamento capitalistico: ecco i responsabili dell’emergenza salariale in corso. Altro che immigrati sui barconi!

Dunque, l’emergenza salariale ha due aspetti concatenati: riguarda la maggioranza degli operai e dei proletari alle prese con la perdita del potere d’acquisto dei loro salari “pieni”, e riguarda in modo speciale e drammatico una moltitudine di precari, occupati saltuari, stagisti, disoccupati, finte partite Iva, etc. La soluzione? Non può che essere anch’essa doppia e concatenata: forti aumenti salariali indipendenti da presenza, produttività e profittabilità, ripristino di un meccanismo di indicizzazione; salario medio garantito a tutti i precari, gli stagisti, i disoccupati, etc. Per sfida, si potrebbe perfino prendere in parola la proposta di 9 euro netti l’ora come minimo legale sotto il quale non può essere fissato il salario di qualsiasi contratto di lavoro, senza eccezioni e pena pesanti sanzioni legali. Si tratta, evidentemente, come per la patrimoniale sul 10% dei più ricchi, di proposte di un programma di lotta. Come non può esistere un governo capitalistico amico, così non esistono padroni buoni ben disposti ad aumentare i salari – se i Ferrero o i Del Vecchio sono in grado di dare gratifiche ai propri dipendenti, è perché gli hanno già rubato 2, 3, 5, 10 volte tanto di tempo di lavoro e di vita. Quindi solo un rilancio in grande delle lotte potrà mettere all’ordine del giorno, in concreto, l’incremento generale dei salari e il salario medio garantito. Per questo è da respingere integralmente, e non da civettarci, la politica del M5S. I Cinquestelle separano la questione del “salario minimo” dalla questione generale dei bassi salari, e nel precedente governo hanno varato leggi repressive che servono in generale a prevenire e stroncare le lotte, avocando in questo modo al governo e allo stato strangola-lotte il compito di regolare i livelli di salario e di consumo dei lavoratori più schiacciati. Di modo che, con il tempo, in un contesto di soffocamento del conflitto di classe, e grazie alla collaborazione di Cgil, Cisl e Uil – fino a che gli servirà -, i livelli salariali minimi diventino quelli verso i quali dovranno convergere tutti gli altri salari…

Dovrebbe esser chiaro che la nostra impostazione non ha nulla a che vedere con il redditismo di matrice “operaista” che ci ha assordato da decenni, ed è stato un ostacolo, non solo intellettuale, ai processi di ricomposizione del fronte di classe. Abbiamo affrontato qui la questione salariale in polemica con le proposte messe in campo da governo, Pd-Cgil e Cinquestelle perché è di queste che si discute nei luoghi di lavoro. Tuttavia, per noi, al di là del salario, la grande questione di fondo da sdoganare è quella della riduzione drastica e generalizzata della giornata di lavoro (a parità di salario). Al momento il tema è poco discusso e sentito a livello di massa. È vero: è nella piattaforma per lo sciopero del 25 ottobre, il Movimento di lotta-Disoccupati 7 novembre a Napoli ha ripreso la vecchia e sempre attualissima parola d’ordine “Lavorare meno, lavorare tutti”, e c’è a livello internazionale un circuito di metalmeccanici che si pone l’obiettivo delle 30 ore. E tuttavia siamo molto lontani dal fare i conti politici, a livello di massa, con il duplice, drammatico spreco della capacità di lavoro di miliardi di proletari/e. Perché oggi, nel mondo, e l’Italia non fa certo eccezione, a centinaia di milioni di lavoratori/lavoratrici è imposto un pesante sovraccarico di lavoro, mentre altrettanti e più uomini e donne che debbono lavorare a salario sono costretti, contro la loro volontà e contro le loro aspettative, all’inattività, o forzati a sopravvivere a stento con lavoretti precari, saltuari, umilianti, a orari e salari molto spesso ridotti. E le tendenze di fondo, che esprimono lo storico antagonismo capitale-lavoro in un nuovo contesto globale, sono verso la radicalizzazione, grazie anche all’uso capitalistico delle tecnologie di ultima generazione. Non vogliamo strozzare qui questo grande tema, solo anticipare che intendiamo tornarci a breve con la seguente parola d’ordine: “Lavorare meno per lavorare tutti/e, lavorare tutti/e per lavorare meno, per il lavoro socialmente necessario”, e dimostrare quanto questo tema abbia una doppia fondamentale valenza politica (non solo sociale), l’una immediata, l’altra di prospettiva.

Conosciamo l’obiezione: se passassero le vostre proposte sulla riduzione generalizzata della giornata lavorativa, i forti aumenti salariali, il salario medio garantito, fallirebbero la gran parte delle imprese e esploderebbe la disoccupazione. Il fatto è che da mezzo secolo, operando sempre più liberi da lacci e lacciuoli, da despoti assoluti liberi di fare e disfare, voi padroni del vapore e del web, e i vostri funzionari politici, avete creato questa situazione di precarizzazione generale, lavoro senza dignità, nuova emigrazione di massa anche dall’Italia, supersfruttamento. “Siamo il futuro senza futuro”: in queste amare parole di adolescenti c’è la condanna della vostra pretesa di avere la soluzione per il dissesto sociale che avete creato, e che consisterebbe nel continuare a torchiare il lavoro come prima e più di prima. Ecco perché una terza via non c’è: o passate voi sul corpo delle classi lavoratrici schiavizzate, o saranno le classi lavoratrici a passare sulle macerie del vostro sistema liberandosi dalle catene visibili e invisibili che oggi le imprigionano. A questo aut-aut storico si arriverà con il processo di approfondimento della crisi storica del vostro regime.

Se oggi siamo qui a porre rivendicazioni immediate di lotta, non è certo con l’illusione di renderlo più equo. È per incitare alla riscossa le immense forze dormienti della massa degli sfruttati e degli oppressi. La nostra soluzione non è: tutti paghino le tasse in proporzione, e tutti abbiano un salario dignitoso. È un sistema sociale in cui il lavoro non sarà più una merce venduta individualmente dai singoli in spietata concorrenza con altri venditori, una società in cui il lavoro dei singoli individui sarà parte di un’unica associazione produttiva di esseri umani liberi ed eguali, che taglierà di netto l’immensa attività produttiva anti-sociale, anti-ecologica, inutile che oggi ci appesta, produrrà secondo un piano generale dei consumi necessari a soddisfare i bisogni autenticamente umani e a dare gli aiuti necessari alle popolazioni che per secoli abbiamo, come Occidente, spogliato e trucidato, rottamerà quell’anticaglia chiamata azienda che produce solo per ammassare follemente profitti su profitti, non importa quanta distruzione e quanti morti semina sul suo cammino. Un sistema sociale in cui gli orari di lavoro giornalieri saranno abbattuti (eccola una soluzione-chiave che voi aborrite) e tutti i parassiti, privati della proprietà dei mezzi di produzione, saranno obbligati al lavoro; in cui le donne e gli uomini che oggi si vergognano perfino di definirsi operai/e saranno protagonisti della vita sociale e riconquisteranno anche la propria vita personale, liberi dalle mutilazioni che la divisione sociale, sessuale e internazionale del lavoro oggi impone loro; in cui il potere non sarà più nelle mani di tecnici ciechi davanti alle conseguenze dei propri tecnicismi, di esperti, di specialisti (in truffe), di politici di professione virtuosi negli inganni, né tanto meno nelle mani dei dottorini stranamore del voto elettronico a distanza; sarà nelle mani dei lavoratori auto-addestratisi a conoscere a fondo le questioni del mondo, della storia, delle scienze, accaniti nel partecipare al processo infinito della conoscenza umana attraverso lo spazio e il tempo. E sarà necessariamente un potere duro, dittatoriale su quanti cercheranno di riportarci all’indietro, e sarà capace di realizzare quella collaborazione paritaria tra popoli e culture che voi avete reso impossibile, pur avendo unificato il mondo riempiendolo però di massacri e di disuguaglianze… Noi lo chiamiamo socialismo internazionale, e sappiamo che è la semplicità difficile a farsi, che ne è stato sfigurato il nome, etc. etc., ma era tanto per capirsi: voi non avete altra soluzione che rendere ancora più insopportabile questo presente, noi abbiamo una prospettiva luminosa, e contribuirete – contro voi stessi – a farla rinascere dalle sue ceneri. Avete talmente tanta paura di queste ceneri che i vostri tirapiedi al parlamento europeo di Strasburgo, a centodue anni dal 1917 (centodue!), si prendono ancora la briga di votare una risoluzione in cui pretendono di equiparare comunismo e fascismo… è un’ossessione!

L’immigrazione, la repressione, la NATO, e molto altro ancora

Ciò detto, torniamo al presente, che sta per noi su questa traiettoria internazionalista rivoluzionaria. Nel presente, delineando qui solo due punti che ci paiono essenziali per il programma di classe delle lotte immediate e nel presentarli alle avanguardie di lotta per la prossima stagione autunnale e per le successive stagioni, proviamo a raccogliere e tradurre in obiettivi i bisogni oggettivi che sottostanno al silenzio della classe. Con ciò né sogniamo di essere noi a smuovere la classe, né snobbiamo i movimenti trasversali a più classi sociali, dal battagliero movimento delle donne alle desideranti proteste ecologiste, entrambi a carattere internazionale, fino a quello francese del gilet jaunes o alle grandi proteste di massa algerine e sudanesi, tutt’altro! Semplicemente non siamo così modaioli da dire: ecco scoperti i nuovi modelli di movimento, addio vecchio proletariato – lo disse già un certo Gorz decine d’anni fa, e tanti “scienziati” anti-comunisti prima di lui, facendo metodicamente figure da fessi. Neppure dimentichiamo che i terreni di lotta contro il padronato e contro il governo Conte-bis appena nato non si esauriscono nella questione fiscale e in quella salariale. Il fatto è che sull’immigrazione crediamo di avere già detto e fatto qualcosina, ma possiamo ripeterlo ancora una volta per slogan: cancellazione immediata dei decreti-Minniti e Salvini, permesso di soggiorno europeo incondizionato per tutti gli immigrati presenti in Italia e nell’UE, completa parità effettiva di trattamento tra lavoratori autoctoni e immigrati, lotta senza quartiere al razzismo di stato e ai suoi agenti. E, quanto alla repressione, possiamo ripetere, non guasta, che la si sta sottovalutando molto, sia quella che ha per protagonista lo stato, sia quella agìta direttamente dai padroni; che è un’idiozia legare la prima al Salvini di turno, se è vero che con l’avvento del nuovo governo, “il più a sinistra della storia della repubblica”, stanno fioccando denunce, processi, arresti contro anti-militaristi, anarchici, militanti del sindacalismo di base, lavoratori e disoccupati comuni; che stanno per riprendere gli sgomberi, e nessuno degli strumenti repressivi e di controllo apprestati dal precedente governo sarà revocato; e, quanto alla seconda, la repressione attuata direttamente dai padroni, che dovremmo prendere molto sul serio la recentissima decisione di Amazon Italia di reclutare di preferenza manager con esperienza di comando militare. Perciò è per noi del tutto incomprensibile e suicida che si continui a fronteggiare questa azione razionale e sistematica centralmente organizzata dello stato, e la riorganizzazione sempre più militarizzata dei luoghi di lavoro, con risposte frammentate e locali, che si ignorano e magari sono addirittura in concorrenza tra loro – prima si abbandonerà la logica territorialista che già ha fatto tanti danni, meglio sarà. E poi, bisognerebbe prepararsi ad una protesta nazionale ben organizzata per l’assemblea generale dell’Ata, l’organismo della NATO per influenzare l’opinione pubblica, che si terrà a Genova a inizio di novembre. E a dare un contributo di merito più ricco al confronto tra il movimento delle donne e gli altri movimenti di lotta, un confronto avviato in vista dello scorso 8 marzo, che è passibile di importanti sviluppi per fronteggiare quell’assalto internazionale alla condizione e ai diritti delle donne che ben si è espresso nel congresso di Verona ed è lungi dall’essere archiviato, per fronteggiare insieme una quotidianità di doppia e tripla oppressione democratica sulla vita delle donne. E ancora prepararsi a dialogare in modo più serrato con le iniziative dei giovani ecologisti.

Il nostro programma di lavoro tiene presenti queste necessità. Ma questo testo voleva essere solo un segno di convinta adesione all’assemblea organizzata dal SI Cobas il 29 settembre a Napoli attraverso l’esame della nuova situazione politica in Italia, in vista dello sciopero del 25 ottobre, della manifestazione nazionale del 26 ottobre a Roma e dell’autunno contrattuale. La proposta di un fronte proletario di lotta anti-capitalista, di provare ad avvicinare e far cooperare tra loro i pochi e sparsi organismi di resistenza e di lotta oggi in campo ci convince. E deve darsi, secondo noi, come sua prospettiva la proiezione verso la massa degli sfruttati.


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Note

[1] Quanto fosse consapevolmente truffaldina questa demagogia l’ha messo il luce Tria nell’intervista a “la Repubblica” del 21 settembre, sostenendo che l’introduzione della flat tax nella finanziaria 2020 “non è mai stata in discussione. Le dichiarazioni sulla riforma fiscale da fare in deficit, senza coperture, erano fatte a soli fini politici [cioè per truffare il pubblico], ma io nella mia bozza di manovra, concordata con i viceministri Garavaglia [della Lega] e Castelli [dei 5S], avevo scritto ben altro. (…) C’era scritto che avremmo scongiurato la clausola di salvaguardia sull’aumento dell’Iva (23 miliardi), in parte (8 miliardi) con entrate fiscali aggiuntive [quindi con un aumento di tasse] e risparmi di spesa su quota 100 e reddito di cittadinanza, e per il resto con il taglio delle spese tendenziali [altri tagli alla spesa sociale], uno sfoltimento delle agevolazioni fiscali [un altro modo per maggiorare il prelievo fiscale] e misure anti-evasione”. Della flat tax neppure l’ombra, perché “non possiamo permetterci una detassazione di 17 miliardi”. Forse, forse, forse, si sarebbero potuti trovare dei fondi per qualche modesta riduzione dell’Irpef, ma solo a condizione di alzare “alcune aliquote agevolate” Iva [altro aumento di tasse, “assolutamente escluso” dal duo di bari Salvini e Di Maio]. Con Salvini ho vinto sempre io, afferma il sornione Tria: e chi può dargli torto?

[2] L’una fa capo a Giorgetti, che è l’uomo di collegamento col sistema bancario e grande-imprenditoriale privato italiano, cioè padano, e con la stessa BCE, apertamente contrario a ogni avventura (lodato da Monti per ciò che fece nel 2011-2012 a favore della messa in Costituzione del Fiscal Compact); l’altra fa capo a Siri&Co., sostenitori di illimitate agevolazioni fiscali alla piccola impresa, dei condoni tombali e della legalizzazione dell’evasione fiscale; la terza ai Borghi-Bagnai, che teorizzano l’uscita dall’euro e dall’UE come via per far rinascere l’economia italiana, e confezionano invenzioni “tecniche” per avviarla (i mini-bot liquidati da Giorgetti come un’idiozia).

[3] E se Berlusconi non riuscì a portare a termine la sua promessa elettorale di due sole aliquote al 23% e al 33%, il suo erede universale leghista la rilancia estremizzando: 15% e 25% – la distanza tra le due aliquote verrebbe così ridotta a 10 punti, ampliando a dismisura la quota di sopralavoro, di lavoro non pagato, di cui si possono appropriare, attraverso un sistema fiscale di massimo favore, capitalisti e redditieri.

[4] Eccole:

- 5% per le imprese start-up in regime forfettario, per 5 anni
- 15% per le partite Iva fino a 65.000 euro di giro di affari, e per le lezioni private
- dal 10% al 21% la cedolare secca sugli affitti, anche se sei proprietario di 1.500 appartamenti
- dal 12,5% al 26% per gli utili da attività finanziarie
- 10/11% per la rivalutazione dei terreni di qualsiasi valore
- 10% su straordinari, premi di produttività, lavoro notturno – sia per i dipendenti, che per le imprese.

[5] Nel 2014 Ryanair ha evitato di pagare 9 milioni di tasse. Nel 2015 la Apple ha dichiarato 150 milioni di fatturato a fronte dei 9 miliardi effettivi. Le aziende petrolifere godono di un sistema di franchigie per cui non solo non subiscono una tassazione specifica come avviene in altri paesi, ma pagano royalties solo in 18 casi su 69 concessioni in mare, e in 22 delle 133 concessioni di terra, astraendo dai sussidi e incentivi che intascano. L’ultimo cioccolatino per le imprese edili è arrivato con il decreto-crescita firmato Di Maio: “Compro, ristrutturo e rivendo con soli 600 euro di imposte”, così lo sintetizza “il sole 24 ore” del 3 luglio, e l’agevolazione dura fino al 31 dicembre 2021 …

Il Cuneo Rosso – Gcr (Gruppo comunista rivoluzionario) – Pagine Marxiste
Tendenza internazionalista rivoluzionaria

Fonte

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