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Il turno di Hong Kong

Rivoluzioni “colorate”

(13 Ottobre 2019)

hong kong bandiere usa

di Daniela Trollio (*)

Tagliare gole e teste, bruciare vivo chi si ritiene un avversario, spaccare vetrine, buttare bombe molotov ai poliziotti e incendiare le loro caserme, bloccare stazioni ferroviarie distruggendone le installazioni, occupare aeroporti (fatto eccezionale e forse unico se avviene in zone non in guerra dichiarata), sono azioni che hanno un peso diverso a seconda delle latitudini in cui avvengono. O meglio, a seconda dei governi contro cui sono rivolte e degli interessi economici e geopolitici che ci stanno dietro.
Per cui assistiamo ad una curiosa contraddizione: se i gilet gialli francesi hanno già totalizzato più di 30 arresti solo nel mese di settembre e se le centinaia e centinaia di morti e feriti palestinesi sono totalmente ignorati dai media – solo per fare due esempi - i manifestanti (organizzati e addestrati militarmente, da quanto si può vedere) che si sono riversati da mesi nelle strade di Hong Kong sono “democratici pacifici” che si battono per i diritti umani e che tutte le potenze occidentali si affrettano a difendere (130 parlamentari inglesi hanno presentato addirittura la proposta di dare la cittadinanza britannica ai cittadini di Hong Kong, cittadinanza che nessuno si era mai sognato di dare loro quando l’isoletta era colonia britannica).

E’ un copione che abbiamo già visto. In Iraq, in Libia, in Siria, in Ucraina, in Venezuela …. Proteste e ribellioni nate su problemi specifici che si trasformano in altro e diventano guerre, interventi militari aperti o “a bassa (andatelo a dire alle vittime…) intensità”: l’obiettivo, improvvisamente, cambia. Diventa il rovesciamento di governi non graditi all’impero. C’è da chiedersi come mai questo copione viene costantemente ripetuto. Forse gli strateghi delle “rivoluzioni colorate” contano sulla nostra scarsa memoria storica.

Ora tale copione si replica ad Hong Kong.
Uno che se ne intende, il giornalista Manlio Dinucci, si chiede giustamente in un articolo – davanti alle immagini dei manifestanti che sfilano con bandiere inglesi e statunitensi – “che libri di storia usano i giovani che oggi chiedono al Regno Unito di ‘salvare Hong Kong?’”. Ignorano, o hanno dimenticato, le Guerre dell’Oppio, la rivolta dei Boxers (alla cui repressione prese parte anche il corpo di spedizione italiano), il trattato di Nanchino che, all’art.3, recita “Essendo evidentemente (!!) necessario e conveniente che i sudditi britannici dispongano di porti per le loro navi e i loro commerci, la Cina cede per sempre l’isola di Hong Kong a Sua Maestà la Regina di Gran Bretagna e ai suoi eredi”.
Hong Kong divenne così colonia britannica nel 1842 ed è stata restituita alla Repubblica Popolare Cinese nel 1997, dopo 156 anni di dominio coloniale inglese.

Dalla metà del secolo scorso – tra il 1949 e il 2000 -Hong Kong è cresciuta e si a è arricchita grazie al suo particolare ‘status’ di porto franco per i capitali internazionali (è diventata la terza piazza finanziaria del mondo) e di porta commerciale verso la Cina maoista. O meglio, una parte dei cittadini di Hong Kong si è arricchita, quella classe media di 1,3 milioni di abitanti sui sette dell’isola, che poteva contare su un reddito pro-capite di circa 48.000 dollari annui. Ma in quest’ultimo decennio le cose stanno cambiando. La Cina è ormai diventata la prima potenza economica del pianeta, scalzando gli Stati Uniti, non ha più bisogno di “porte”, è un mercato aperto e l’importanza di Hong Kong è ormai minima: a metà degli anni 70’ rappresentava il 27% del PIL cinese e oggi pesa solo per un 2,7%.
Questo passaggio si è lasciato dietro parecchi problemi: ad esempio quello della casa, che tocca da vicino i giovani. Negli ultimi dieci anni il mercato immobiliare di Hong Kong è stato il meno accessibile del mondo. I prezzi delle case, tra il 2018 e il 2019, sono aumentati 20 volte più delle entrate familiari e 33 metri quadrati a Kowloon si vendono a 700.000 dollari. Così molti giovani sono costretti a vivere con i genitori.
Altro problema – in una città trasformata in piazza finanziaria e paradiso degli immobiliaristi – è l’enorme disuguaglianza che si è generata. Da questa situazione, e non certo dalla legge sull’estradizione, è partita la cosiddetta “rivoluzione degli ombrelli”.

Torniamo al copione. I leaders delle rivolte, evidentemente sempre contando sulla poca memoria e in perfetta sintonia con la guerra commerciale dei dazi lanciata da Donald Trump, non hanno perso tempo e sono stati ricevuti – e fotografati – a Washington con il vice-presidente statunitense Mike Pence, con il segretario di Stato Mike Pompeo e con il defenestrato Consigliere alla Sicurezza John Bolton. Joshua Wong, fin dal 2014 aveva regolari contatti con il consolato USA e vanta regolari contatti con il senatore Marco Rubio, uno dei promotori del fallito tentativo di golpe in Venezuela, che ha addirittura presentato la sua candidatura per il Premio Nobel della Pace. Anche la Germania fa la sua parte: il giornale di destra Bild ha pubblicato la foto dell’incontro di Joshua Wong con l’ucraino sindaco di Kiev Vitali Klitschko, con il capo dei “Caschi Bianchi” siriani (foraggiati da Israele, Regno Unito e Stati Uniti, addestrati in Turchia) Raed Al Saleh e con il milionario russo esiliato Mikail Jodorkovski. Curiose frequentazioni, che peraltro abbiamo già visto: l’ultima è quella del presidente “marionetta” venezuelano Juan Guaidò fotografato con i leaders dei narco-trafficanti paramilitari colombiani, altri “campioni” della democrazia.

Possiamo, a questo punto, dare un altro nome al “copione”: possiamo chiamarlo più correttamente “strategia del caos controllato” o “guerra ibrida”. Sono gli strumenti dell’imperialismo per colpire qualsiasi governo che non obbedisca agli ordini del capitale internazionale. Danneggiare economicamente il paese da sottomettere provocando carestie, danni alle sue infrastrutture, blocchi commerciali e finanziari ecc. ecc. (vedi Venezuela e Cuba), organizzando “rivolte” nella speranza che la conseguente “repressione” governativa fornisca la scusa per un intervento militare più o meno diretto. Insomma, un'altra ‘piazza Maidan’ contro la Cina, questa volta.

Ad esempio, contro il Venezuela, proprio l’11 settembre di quest’anno – anniversario del colpo di Stato in Cile - è stato riattivato il TIAR, Trattato Interamericano di Assistenza Reciproca, che prevede di rispondere congiuntamente “ad un attacco armato di qualsiasi Stato contro un Paese americano” che verrebbe considerato “un attacco a tutti i Paesi Americani”. Dei 19 paesi partecipanti al TIAR, 12 hanno approvato l’utilizzazione di questo meccanismo contro il Venezuela, 6 si sono astenuti e 1 era assente.

Ricordavamo prima il ruolo di prima economia del mondo che oggi ricopre la Cina.
Già nel 2000 l’Istituto di Ricerca PNAC (Progetto per un Nuovo Secolo Americano) fondato, tra gli altri da Donald Rumsfeld e Dick Cheney, presentando all’amministrazione Obama un “'un progetto per conservare la preminenza globale degli Stati Uniti, impedendo il sorgere di ogni grande potenza rivale, e modellando l'ordine della sicurezza internazionale in modo da allinearlo ai principi e agli interessi americani”, prendeva in esame la Cina affermando che “era arrivata l’ora di aumentare la presenza delle forze armate americane nell'Asia sudorientale. Ciò potrebbe portare a una situazione in cui le forze americane e alleate forniscano la spinta al processo di democratizzazione in Cina”. Di sfuggita, tra gli altri paesi definiti ‘pericolosi’ dal progetto c’erano la Corea del Nord, la Libia, la Siria e l’Iran.
Bisogna proprio dire che, se il capitalismo è cieco nel lungo periodo, nel breve ci vede benissimo.
C’è inoltre un fatto nuovo: la “Nuova via della seta”, il grande piano infrastrutturale cinese che coinvolge più di sessanta paesi tra Asia, Africa ed Europa, che rischia di diminuire il legame dell’Occidente con gli USA e di sconvolgere il “nuovo ordine mondiale” imperiale progettato dallo “Stato profondo” del complesso militare-industriale statunitense.

Non dimentichiamo però – ma non è oggetto di questo articolo - che questa Cina non è più quella della rivoluzione di Mao e che da anni ha avviato un capitalismo controllato dallo Stato.
I “Paperoni” nel mondo sono 22 milioni e se due terzi di loro - 14,6 milioni - vivono negli Stati Uniti, in Cina sono 1,3 milioni, seguita da Giappone (1,1 milione) e dalla Svizzera (500.000 persone); gli altri sono sparsi nel mondo (fonte: ADN Kronos, 20.6.2019). La Cina è anche il paese dove, se da una parte circolano più di 700 Ferrari (nell’area EMEA – Europa, Medio Oriente e Africa - ne circolano 9.000), dall’altra ci sono durissime e continue lotte operaie per i salari e il miglioramento delle condizioni sociali.

E’ vero che spesso non è facile orientarsi nei fatti internazionali, soprattutto grazie ad un’informazione che è diventata non solo disinformazione ma un’arma fondamentale di guerra. Ma bisognerebbe sempre, in questi casi, rifarsi al vecchio Seneca che, nella tragedia “Medea” scritta nel I secolo d.C., si chiedeva “Cui prodest?”. Ovvero: a chi giova?

(*) Centro di Iniziativa Proletaria “G.Tagarelli”
Via Magenta 88, Sesto S.Giovanni

Da”nuova unità”, periodico comunista di politica e cultura n. 5 2019

Fonte

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