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ARCELOR MITTAL:
Unire le lotte per imporre alla classe padronale il pagamento del salario ai lavoratori licenziati dalle fabbriche

(9 Novembre 2019)

I.C.P. 2

Lavoratori,

di fronte alla vicenda ex ILVA che coinvolge decine di migliaia di operai il primo errore da evitare è quello di farne una questione aziendale o, peggio, del singolo stabilimento e della singola città.

Il fattore determinante di questa vertenza è lo stesso delle tante altre crisi aziendali e consiste nel tentativo padronale di procedere a licenziamenti a seguito della sovrapproduzione che erode i margini di profitto. Come nel settore dell’auto o in quello elettrodomestici – solo per fare degli esempi – anche in quello dell’acciaio la capacità produttiva delle fabbriche di tutto il mondo ha superato quella del mercato di assorbirla.

Questa “malattia”, la sovrapproduzione di merci e capitali, è il male incurabile che divora l’economia capitalistica e che la porterà all’inevitabile crollo generale, in cui saranno coinvolti anche quei capitalismi relativamente più giovani, come quello cinese, i quali hanno permesso di rimandare la bancarotta del capitalismo per alcune decadi.

Al di là delle vicende particolari, quotidianamente vomitate da stampa e televisioni padronali (immunità penale, sequestri della magistratura, padroni e governi vecchi e nuovi), il problema che affligge gli operai dell’ex ILVA e di tutto l’indotto è identico a quello di altre decine di migliaia di lavoratori, quelli interessati dagli oltre 160 tavoli di crisi aziendali imbastiti al Ministero dello Sviluppo Economico e di molti altri per i quali nemmeno vengono attivate trattative nazionali.

Sovrapproduzione, crisi aziendali, licenziamenti di massa, disoccupazione, che già da anni caratterizzano i capitalismi nazionali maturi, quelli del cosiddetto “Occidente”, sono fenomeni destinati solo ad aggravarsi, mostrando che il capitalismo non ha da offrire che miseria e sfruttamento alla classe lavoratrice.

È in questo scenario generale che va inquadrata la vicenda dell’ex ILVA e in cui va definita la corretta azione sindacale.

Finché gli operai non riusciranno a liberarsi dal controllo del sindacalismo di regime che li tiene chiusi nel labirinto senza uscita delle vicende particolari di ciascuna crisi aziendale, isolando ogni lotta fabbrica per fabbrica, la strada non può che essere quella osservata in centinaia di casi analoghi in questi ultimi decenni, con una agonia più o meno lenta che porta a progressivi licenziamenti fino alla chiusura della fabbrica, senza che si produca una reazione operaia in grado di aprire a soluzioni alternative.

Gli operai e tutti i lavoratori salariati non devono essere chiamati a lottare per una delle diverse prospettive offerte dalla competizione fra i capitalisti ed fra i loro politicanti, nella illusione che rappresenti il male minore: padrone italiano, padrone straniero, padrone statale, per la riconversione, contro il governo, per l’azienda...

Non sta al sindacato ed ai lavoratori indicare un padrone migliore dell’altro, né interessarsi dei fantomatici piani industriali che sono sempre carta straccia appena i conti non tornano a favore dei profitti. Il sindacalismo che “non fa solo protesta ma anche proposta” è il responsabile dell’indebolimento della classe operaia cui da anni assistiamo.

Il sindacato, un vero sindacato di classe, deve chiamare i lavoratori alla lotta solo per i loro interessi: per il salario, prima e al di sopra del posto di lavoro; per la difesa della sicurezza e della salute; contro l’aumento dei carichi, dei ritmi e della durata della giornata e della vita lavorativa.

Per far questo deve innanzitutto far uscire le lotte dall’angusto ambito aziendale che le soffoca, dando loro l’ossigeno dell’unione in un movimento di sciopero comune per questi obiettivi.

Se la lotta operaia spaventa i padroni e li fa scappare la risposta proletaria non può essere quella di non lottare ed accettare licenziamenti e sfruttamento, malattie e morti sul lavoro, ma deve essere quella di unire, estendere e rafforzare la lotta per imporre all’intera classe padronale e al suo regime politico il pagamento del salario.

Se la borghesia, col suo Stato, preferisce pagare i salari a fabbriche ferme o invece appropriarsene temporaneamente – come fece in molti paesi, in Italia con l’IRI, durante la precedente crisi economica generale negli anni ’20 del ’900 – per continuare a farle produrre in perdita in vista della guerra, che è l’unica soluzione alla crisi di cui essa dispone in grado di tutelare il suo privilegio sociale, questo non è un problema che riguarda la classe proletaria.

Il capitalismo è destinato inesorabilmente alla bancarotta per le sue ineliminabili contraddizioni interne e se i lavoratori accettano la logica dei sacrifici per tenerlo in piedi – sempre presentata con le formule del “bene dell’azienda che dà il lavoro” e del “bene del paese” – essi non fanno altro che incatenarsi alla nave che sta affondando.

Gli operai combattivi e gli autentici militanti del sindacalismo di classe è su questo terreno che devono procedere.

Bisogna che la classe lavoratrice torni ad avere fiducia in se stessa, che riprenda la consapevolezza che essa costituisce la forza più potente di questa società, la sola classe che può affossare questo regime disumano ed aprire la strada per dare all’umanità intera un nuovo modo di produzione che abbia al suo centro le necessità della specie umana e del mondo in cui vive e non la ricerca del profitto.

Partito Comunista Internazionale

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