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    (L'unico straniero è il capitalismo)

    L’IMMIGRAZIONE IN ITALIA DALL’UNITA’ AD OGGI

    (13 Novembre 2019)

    Anna Kuliscioff

    Anna Kuliscioff

    Negli anni successivi all’Unità d’Italia la situazione degli stranieri che venivano a visitare il bel paese era tutt’altro che uniforme. Il trattamento ricevuto, come, del resto, per gli italiani, era strettamente legato all’appartenenza della classe sociale piuttosto che alla nazionalità.
    In Sardegna venivano rilasciati passaporti di prima categoria a possidenti, negozianti, capi bottega, agli impiegati civili e militari e a tutte le persone di condizioni agiate, per gli operai, ed ad ogni altra persona che viveva di lavoro salariato gli veniva rilasciato un passaporto di seconda categoria. Imprenditori e investitori di altre nazioni godevano di protezione da parte delle autorità e della completa libertà di movimento.
    Lo status giuridico dello straniero venne definito con la legge sull’ordine pubblico del 1869 e con disposizioni dettate dal Codice Civile del 1865. Gli stranieri traevano beneficio delle stesse libertà degli italiani, erano soggetti a forme di sorveglianza rivolte soprattutto contro coloro che chiedevano maggiori libertà e garanzie nei posti di lavoro e verso i nomadi, mentre imprenditori e redditieri non erano sottoposti ad alcuna restrizione.
    Le classi lavorative, nello stato Liberale da poco formatosi, erano sottoposte a sorveglianza e a punizioni, particolare attenzione era riservata ai socialisti rivoluzionari e agli anarchici. I lavoratori salariali erano considerati marmaglia, popolino al quale non era riservato nessun diritto neanche quello del voto.
    Un’altra categoria alla quale la questura dedicava attenzione e sorveglianza era la popolazione nomade, sia italiana che straniera.
    L’immigrazione politica destava notevoli preoccupazioni allo stato liberale. Bakunin soggiornò in Italia dal 1864 al 1867 svolgendo una intensa attività politica prima a Firenze e poi a Napoli. Fondò una società segreta, l’Alleanza della democrazia socialista, con la funzione di attuare, in Italia, la rivoluzione sociale. Fu denunciato nel 1867 dal prefetto di Napoli per aver realizzato e messosi a capo di un movimento rivoluzionario in Sicilia e nell’Italia meridionale. Nel 1874 fu uno degli organizzatori, insieme a Malatesta, Cafiero e Costa, del moto insurrezionale del 1874.
    Gli attentati anarchici contro Cairoli e il re Umberto I portarono a legislazioni repressive che incrementarono la sorveglianza e il controllo verso le organizzazioni politiche.
    Gli stranieri erano particolarmente sorvegliati in quanto ritenuti portatori di idee pericolose. La rivoluzionaria russa Anna Kuliscioff, compagna di Costa e poi di Turati, fu arrestata al suo arrivo a Firenze. Prosciolta dalle accuse fu successivamente di nuovo arrestata durante il periodo crispino. La repressione si attenuò durante il governo giolittiano dando l’opportunità ai giovani russi di lavorare e di studiare in Italia senza essere sottoposti a particolari restrizioni.
    Gli strumenti usati contro gli anarchici furono: la detenzione preventiva, l’ammonizione che limitava le libertà di associazione e di movimento, il domicilio coatto, agli stranieri veniva applicata la pura e semplice espulsione dal paese.
    I nomadi, altro gruppo soggetto a sorveglianza e forti repressioni, la loro libertà e la loro differenzazione culturale ne fecero vittime del pregiudizio ammantato da assurde teorie pseudoscientifiche. L’italianissimo Cesare Lombroso arrivò a definirli: «delinquenti antropologici, spinti a delinquere da tendenze malvagie innate, causate da una organizzazione fisica e psicologiche diverse da quelli degli uomini normali».
    Nel regno sabaudo esisteva anche una comunità albanese stanziatesi in Calabria, in Puglia e in Sicilia. Prima vennero in Italia come mercenari e successivamente, per sfuggire alla conquista Ottomana si stanziarono nell’entroterra della penisola. Si rifugiarono in zone isolate di collina o di montagna dedicandosi all’agricoltura e alla pastorizia. Riuscirono ad ottenere la cittadinanza del Regno di Napoli e successivamente la cittadinanza italiana grazie alla loro scelta di isolarsi e costruirsi paesi al di fuori delle comunità italiane.
    Fino al primo decennio dell’unità d’Italia i lavoratori stranieri erano occupati in lavori ritenuti prestigiosi, per lo più erano imprenditori e banchieri attratti da possibili e remunerativi investimenti e da manodopera a basso costo. Mancavano i lavoratori stranieri nelle mansioni di operaio e di altre umili qualifiche segno tangibile di una nazione arretrata economicamente con poche industrie, orientata ancora verso una produzione prettamente agricola. All’arrivo dell’industrializzazione e dell’afflusso delle rimesse di milioni di emigrati italiani all’estero le condizioni economiche migliorarono facendo diminuire gli imprenditori stranieri che vennero via via sostituiti dagli imprenditori italiani favoriti anche dai forti investimenti statali dell’epoca giolittiana.
    Durante la prima guerra mondiale la comunità tedesca diminuì notevolmente; i tedeschi residenti in Italia nel 1911 erano 11.000 ne rimasero 3.000 nel 1916. Le loro attività furono nazionalizzate e annesse da imprenditori locali. Nel 1915 gli austro-ungheresi furono internati in piccoli centri abitati della Sardegna e della Sicilia e sottoposti a misure restrittive e a stretta sorveglianza. Circa 12.000 sloveni furono allontanati dalle zone di frontiera. Un consistente gruppo di libici fu deportato in Italia e fatto alloggiare con tende di fortuna nei piazzali delle fabbriche dove, sottoposti a leggi militari, erano costretti a lavorare in condizioni di schiavitù.
    Alla fine del primo conflitto mondiale la popolazione straniera risultò aumentata di 30.000 unità, dato determinato dall’effetto delle conquiste territoriali.
    Negli anni venti la popolazione tedesca incominciò ad aumentare arrivando a 23.000 residenti nel 1923 divenendo la comunità più consistente tra tutte le comunità presenti nel territorio nazionale fino agli anni settanta.
    Nel 1926 le leggi di pubblica sicurezza, insieme alle leggi liberticide che distrussero, nel periodo fascista, ogni parvenza di regime democratico liberale sciogliendo i partiti politici e istituendo, nel 1929, uffici provinciali della polizia politica sotto il controllo dei prefetti desinati a garantire l’ordine pubblico e sorvegliare gli oppositori politici e gli stranieri. Nel 1931 con le leggi della pubblica sicurezza venivano introdotte norme restrittive per l’ingresso degli stranieri in territorio nazionale. Si doveva ottenere un visto d’ingresso, l’obbligatorietà del permesso di soggiorno e notificare alla polizia il giorno di arrivo e la domiciliazione di qualsiasi straniero entro le 72 ore dal passaggio alla frontiera e l’obbligo di segnalare ogni spostamento e ogni cambio di domicilio. Lo straniero che commetteva un reato poteva essere espulso su decisione del ministro dell’Interno. Tutti coloro che, secondo le forze dell’ordine, rappresentavano una minaccia per l’ordine pubblico venivano respinti alla frontiera.
    Fin dai primi anni del regime fascista si manifestò una forte ostilità verso i nomadi. Furono attuati minuziosi controlli da parte della polizia soprattutto per impedirne l’ingresso in Italia.
    Nel 1938 furono rastrellati dai fascisti, e gran parte dei nomadi fu deportata in Sardegna, in Abruzzo e in Calabria. Una volta arrivati nelle località a loro assegnate furono lasciati liberi, alcuni furono arruolati nell’esercito e mandati in Albania senza permesso di rientrare in Italia. Dopo l’8 settembre, quelli ancora rimasti nelle principali città della penisola, furono rastrellati dai tedeschi e deportati nei campi di concentramento. 500.000 furono sterminati dai nazisti di questi 25.000 erano residenti in Italia.
    Dopo la conquista dell’Etiopia la Lega delle nazioni sanzionò l’Italia isolandola internazionalmente, Mussolini reagì alleandosi con la Germania aderendo nel 1938 alle leggi razziali nazionalsocialiste. Le posizioni ideologiche razziste del fascismo erano già state messe in evidenza dai provvedimenti presi nei confronti dell’etnia nomade e dalle considerazioni espresse contro le popolazioni africane conquistate dall’imperialismo straccione del regime fascista. Galeazzo Ciano, Ministro della Stampa e della Propaganda, affermava che:«è necessaria una netta separazione fra razza dominante e razza dominata. La razza italiana non deve subire ravvicinamenti di sorta con la razza negra e deve mantenere intatta la sua forte purezza». Con il Regio decreto 1728 del 1938 veniva vietato il matrimonio tra cittadino italiano «di razza ariana» e una «persona appartenente ad altra razza».
    Il 14 luglio 1938 veniva pubblicato il manifesto della razza ariana nel quale veniva affermato che esisteva una sola razza italiana: «[...] è tempo ormai che gli italiani si proclamino francamente razzisti [...] è necessario fare una netta distinzione tra i mediterranei d’Europa (occidentale) da una parte e gli orientali e gli africani dall’altra [...] gli ebrei non appartengono alla razza italiana». Agli ebrei fu proibito di esercitare gran parte delle professioni; si proibiva loro di frequentare e di insegnare nella scuola pubblica e nelle università, gli venne revocata la cittadinanza italiana, il divieto di residenza in Italia, in Libia e nel Dodecaneso e tutti gli ebrei stranieri dovevano essere espulsi. 7.500 furono gli ebrei italiani deportati nei campi di concentramento di questi 865 sopravvissero alla violenza razzista del nazionalsocialismo. Ai morti delle deportazioni vanno aggiunti 815 ebrei fucilati in Italia dalle brigate nere e dai nazisti.
    Le leggi razziali furono abolite dall’armistizio stilato da Badoglio con gli angloamericani e il 5 ottobre 1944 il decreto legislativo 252 reintegrava i «diritti patrimoniali dei cittadini italiani e stranieri già considerati di razza ebraica». Nel 1948 la Costituzione sancì definitivamente la fine di ogni imposizione e restrizione razziale, religiosa e politica. L’articolo 3 indicava che «tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge, senza distinzioni di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali». L’articolo 10 secondo comma della Costituzione indicava che «la condizione giuridica dello straniero è regolata dalla legge in conformità delle norme e dei trattati internazionali», si definivano inderogabilmente i diritti civili spettanti all’immigrato in quanto uomo. Furono però mantenute le normative per il controllo degli stranieri del 1931 per salvaguardare, si disse, la manodopera italiana.
    La situazione economica nel dopoguerra faceva ancora registrare una massiccia emigrazione e una forte percentuale di disoccupati. La legge del 1948 affermava che gli stranieri potevano essere espulsi, mentre, la legge 264 del 1949 prevedeva la parità di trattamento tra lavoratori italiani e stranieri nell’ambito di un’assegnazione prioritaria ai residenti italiani. Dato il lento sviluppo economico registrato in Italia nell’immediato dopoguerra fino a metà degli anni cinquanta si volle tutelare il lavoratore residente in Italia con apposite normative, l’immigrato doveva ottenere un permesso dalla questura la quale si assicurava della effettiva necessità da parte del datore di lavoro di assegnare il lavoro allo straniero che ne avesse fatto esplicita richiesta tramite ufficio di collocamento.
    Fino al 1986 non fu prodotta alcuna legge specifica e il buco legislativo veniva colmato da circolari ministeriali e piccole sanatorie poco chiare e soprattutto non consideravano le reali esigenze del mondo del lavoro. Alla metà degli anni sessanta s’incominciò a registrare un incremento dell’immigrazione attratta dal boom economico italiano. I posti occupati dall’immigrazione furono soprattutto nei processi lavorativi rifiutati dagli italiani, marinai tunisini a Mazara del Vallo, braccianti agricoli, minatori e colf, segno di un avvenuto incremento dei livelli salariali e del lavoro in strutture statali determinato dal 1950 al 1980 da una forte crescita economica capace di aumentare il divario finanziario con i paesi in via di sviluppo rimasti indietro rispetto alla crescita dell'economia europea. Salari elevati rispetto agli standard dei paesi di provenienza, speranza di migliorare la propria condizione di vita aumentarono di anno in anno l’immigrazione dai paesi poveri, a questo si deve aggiungere la crisi demografica italiana, che vide negli anni settanta una decrescita sostanziale delle nascite determinando, nei successivi anni novanta, una scarsità di manodopera.
    L’omicidio di Jerry Maslo fu la scintilla che mise in moto la ricerca di una normativa capace di regolarizzare migliaia di lavoratori clandestini costretti a lavorare in nero. Jerry fu venne ucciso durante un tentativo di rapina da parte di una banda di balordi che tentarono di rapinare dei lavoratori extracomunitari che vivevano a Villa Literno. Alla reazione di questi la banda sparò ed uccise il giovane lavoratore Jerry Maslo. 100.000 persone scesero in piazza a Roma per protestare contro gli atti razzisti e per chiedere una legge sull’immigrazione.
    Con la legge Martelli del 1990 si cercò di dare un ordinamento alle ondate immigratorie.
    Si stabilì la programmazione quantitativa dei flussi immigratori, il controllo degli ingressi e le espulsione dei clandestini con l’obbligo di essere accompagnati alla frontiera. Fu creato il fondo per le politiche dell’immigrazione e i centri di accoglienza e fu approvata una sanatoria per gli immigrati residenti in Italia.
    I successivi sbarchi di albanesi crearono un forte clima xenofobo alimentato in parlamento dalla Lega riuscendo a impedire le relative normative previste per migliorare il sistema d’integrazione degli immigrati. Nel 1992 si alzò a 10 anni la continuità di residenza legale per ricevere il titolo di cittadino italiano e rese più difficile l’acquisizione del titolo di cittadinanza ai bambini di genitori stranieri nati in Italia.
    L’iter delle successive leggi e decreti riguardanti la regolamentazione dei flussi migratori fu caratterizzata dalla ricerca di un continuo equilibrio tra esigenze umanitarie richieste dalle associazioni cattoliche, e dai partiti della sinistra parlamentare ed extraparlamentare, da un forte incalzare della crescita xenofoba e razzista cavalcata dalle destre e dalle esigenze degli imprenditori che chiedevano più lavoratori per far fronte al calo demografico ormai divenuto un problema per la crescita produttiva industriale, agricola e di tutti quei lavori legati alle attività turistiche.
    Il decreto Dini del 1995 cercò di trovare un equilibrio tra gli interessi degli imprenditori e delle contrapposte fazioni politiche dando più efficacia alle leggi riguardanti le espulsioni dei clandestini e rendendo più opportune le misure riguardanti l’integrazione. La legge proposta da Dini non fu mai attuata per i contrasti manifestatesi all’interno delle Camera tra Lega e Centro Sinistra. Fu realizzata soltanto una programmazione per controllare i flussi di lavoratori richiesti dall’imprenditoria, anche se, non riuscirono a coprire tutti i posti di lavoro disponibili. Si giunse ad un accordo tra Lega e Pds nel quale si stabilì che non si dovevano rimandare alla frontiera tutti i clandestini ma soltanto coloro che erano stati condannati per aver commesso un reato, mentre per i lavoratori in nero fu prevista una regolarizzazione. La Lega, nonostante l’accordo con il Pds, continuava a lanciare slogan offensivi nei confronti degli immigrati. Boso dichiarò che «la razza bianca italiana si sta progressivamente estinguendo e la razza nera ne occupa il posto» e successivamente propose di espelle gli immigrati su aerei militari perché «gli immigrati sugli aerei di linea possono violentare le hostess», da una parte prendevano accordi con gli imprenditori per far entrare gli immigrati necessari per la economia e dall’altra alimentavano la becera concezione xenofoba e razzista per puro calcolo elettorale.
    Mentre la Lega continuava la sua propaganda elettorale fondata sulla discriminazione razziale, Martino, il Ministro degli Esteri, deputato di Forza Italia, rendeva evidente il vantaggio economico derivante dall’immigrazione e invitava a non criminalizzare tutti gli immigrati ricordando il periodo storico in cui erano gli italiani costretti ad emigrare, e che «hanno contribuito allo sviluppo dei paesi in cui emigrarono. E oggi noi vorremmo adottare la politica delle porte chiuse? Sarebbe ridicolo». Dal punto di vista liberale è il profitto derivante dallo sfruttamento della forza lavoro disposta a lavorare in qualsiasi condizione e a basso salario non certo c’è l’interesse da parte imprenditoriale di migliorare le condizioni di vita a persone costrette a lasciare i propri paesi di origine. Altra posizione da parte della Confindustria, per arginare le ondate migratorie, fu quella di prevedere un forte investimento nelle nazioni dove l’emigrazione si manifestava in modo da garantirsi forza lavoro a basso costo direttamente in loco e di sfruttarne le risorse minerarie estratte direttamente nei luoghi dove dovevano sorgere le nuove produzioni. Le posizioni imprenditoriali venivano presentate, ipocritamente, come aiuto umanitario capace di migliorare la crescita economica dei paesi poveri.
    Mentre si auspicavano nuovi investimenti all’estero, la politica liberale snocciolava statistiche demografiche comprovanti il reale calo delle nascite in Italia e la necessità di accogliere gli immigrati regolarmente in modo da sopperire al calo demografico e di evitare assolutamente nel futuro un calo della produzione. Il demografo Livi Bacci faceva presente che una totale chiusura delle frontiere avrebbe generato soltanto immigrazione irregolare, con una popolazione straniera poco propensa a integrarsi e la mancanza di controllo selettivo alle frontiera avrebbe privato l’Italia di lavoratori qualificati necessari alla nuova industrializzazione. Alla chiusura delle frontiere Bacci proponeva una politica capace di programmare ingressi selettivi, orientata a integrare e garantire diritti sociali e di cittadinanza.
    Nel 1990 nella conferenza internazionale sulle immigrazioni si faceva osservare che gli stranieri presenti in Italia erano di meno di quello che pubblicizzavano i partiti di destra, circa un milione, e di questi pochi erano i clandestini. L’immigrazione era formata da immigrati laureati, il 13,4 %, e da diplomati, 33,4%, molti parlavano altre lingue oltre la propria e all’italiano, era sostanzialmente una immigrazione in larga parte qualificata e colta. Era l’immigrazione adatta al nuovo sviluppo industriale che appunto richiedeva lavoratori giovani e ben formati. Il 78% era formata da uomini, l’86 % dei regolarizzati era effettivamente in cerca di lavoro, molti erano costretti a lavorare in nero, mentre altri erano membri familiari di un lavoratore. Fino al 1990 la Sicilia e le isole del sud Italia svolsero un ruolo importante di accoglienza e sistemazione lavorativa degli immigrati. Negli anni successivi si incominciò a vedere lo spostamento della forza lavoro estera residente nelle isole verso il nord dove si poteva trovare un lavoro più stabile e meglio pagato. Il centro mantenne negli anni la stessa percentuale di lavoratori stranieri, 32,5 % nel 1990 e il 31,4 % nel 2000).
    Nel 1995 fu nominata Livia Turco come responsabile della Commissione sull’immigrazione. Propose che nella nuova legge si doveva stabilire una programmazione dei flussi, si dovevano adottare misure per arginare la criminalità che si approfittava della disperazione dei clandestini e la realizzazione di un percorso di cittadinanza per fare in modo che l’immigrato non sia più considerato un cittadino di serie B. Lo scopo doveva essere quello di favorire una’immigrazione controllata e regolare rispetto a quella clandestina e irregolare. La proposta di legge trovò consenso tra le associazioni, le cooperative e il mondo imprenditoriale che ritennero necessario inserire nella legge la possibilità di stilare liste di prenotazioni nei consolati, determinare di anno in anno quote di immigrazione necessarie a colmare il fabbisogno di manodopera effettiva e gli immigrati potevano ottenere un semplice visto d’ingresso valido due anni per permettere loro la ricerca di un impiego stabile. Inoltre, gli imprenditori e le associazioni, chiedevano che il provvedimento di espulsione dovesse essere attuato soltanto in casi di particolare gravità.
    Nel 1998 la legge Turco Napolitano, con l’approvazione del centro sinistra, cercò di controllare le correnti immigratorie con una programmazione dei flussi dei lavoratori. Furono stipulati degli accordi con i soli paesi che accettavano gli immigrati allontanati dall’Italia e tramite consolato gli imprenditori italiani potevano richiedere lavoratori iscritti in apposite liste. Furono creati i CTP per custodire gli stranieri clandestini in attesa di identificazione e di espulsione che ben presto si rilevarono insufficienti ad assorbire l’aumentato flusso di immigrati provenienti dall’Africa e dall’Asia. Si trattava di luoghi, dove ogni libertà individuale veniva soppressa, internati in condizioni inumane centinaia di persone, costrette a vivere in promiscuità senza possibilità di uscire in attesa di un permesso di soggiorno che tardava ad arrivare. Dopo dure proteste e il diretto interessamento della Magistratura democratica si arrivò a redigere una “carta dei diritti e dei doveri” dove si riconobbe l’assistenza legale, assistenza sanitaria e religiosa e diritto di ingresso da parte di associazioni e organizzazioni umanitarie all’interno dei CTP. Si evidenziava la completa inutilità di centri che accoglievano soltanto il 15% di tutta l’immigrazione clandestina a dimostrazione del fatto che centri di restrizione della libertà dell’individuo, espulsioni e leggi restrittive apposite non potranno mai fermare milioni di persone che si spostano e si sposteranno verso i continenti opulenti.
    Nel decennio successivo, con la legge Turco Napolitano, si ebbe un ulteriore aumento dell’immigrazione e di conseguenza il dibattito politico divenne sempre più acceso tra chi per interesse elettoralistico continuava la sua campagna elettoralistica xenofoba e tra chi per proprio tornaconto imprenditoriale voleva leggi più permissive.
    Negli anni novanta l’immigrazione aumentò notevolmente. Con l’aumento del numero di anziani aumentò la richiesta di badanti private, per il 75% straniere. Il numero di stranieri residenti legalmente passò da 1,1, milioni del 1998 a 4,3 milioni del 2009, grazie a quote d’ingresso, regolarizzazioni, ricongiungimenti familiari e alla liberalizzazione degli ingressi riservata ai paesi entrati in Europa comunitaria grazie alla legge di Schengen.
    Nonostante l’aumento dell’immigrazione soprattutto proveniente dai paesi dell’est Europa ed in particolare dall’Albania, la richiesta della manodopera da parte dell’imprenditoria italiana si fece più insistente. Cipolletta, direttore generale della Confindustria si fece portavoce delle esigenze imprenditoriali per richieder dl’aumento dei lavoratori immigrati, secondo lui le frontiere dovevano essere aperte all’immigrazione regolare per solidarietà umana e dove vi era libertà di movimento di merci ci doveva essere anche di movimento delle persone, «aprire le frontiere e lasciare che il mercato assesti la domanda e l’offerta, così come è successo per decenni in paesi come gli Stati Uniti e la Germania» dove gli immigrati hanno lasciato crescita economica portando i benefici della globalizzazione. Gli imprenditori lanciarono i loro dubbi su una possibile crescita economica senza l’afflusso di manodopera capace di sostituirsi al calo demografico. Il Dipartimento della popolazione delle Nazioni unite pubblicò uno studio sul calo delle nascite in Italia deducendone che la popolazione sarebbe calata da 57 milioni nel 1995 a 40 milioni nel 2050. il calo demografico poteva essere colmato da una immigrazione pari a 350.000 persone all’anno per mantenere costante il numero di popolazione in età lavorativa. Continuando a non tenere in considerazione questi dati potremmo avere in futuro seri problemi determinati dal calo della produzione e alla diminuzione del gettito salariale riservato alle pensioni.
    La destra continuando a cavalcare la fobia xenofoba riuscì a vincere unita le elezioni e a far approvare la legge Bossi Fini. Mentre gli imprenditori padani chiedevano più quote di lavoratori stranieri la Lega denunciava tramite il suo giornale «La Padania» la “nuova invasione saracena”, i suoi parlamentari esortavano i loro sostenitori ad «unirci e marciare nuovamente su Roma [...] dobbiamo usare il voto come i nostri nonni usavano il pugnale tra i denti [...] cosa ne facciamo dei negri abituati ad a essere inseguiti dai leoni e a rincorrere le gazzelle? Io voglio ordine! Disciplina!». In questo clima xenofobo veniva approvata la legge Bossi Fini con l’unico scopo di cambiare la precedente normativa ritenuta poco efficace nel controllare la “invasione” straniera, accorciava la durata dei permessi, limitava i ricongiungimenti familiari, aumentava le espulsioni, allungava la permanenza nei CTP ( da trenta a sessanta giorni) e aumentava il numero di anni per ottenere il permesso di soggiorno. Approvata nel settembre 2002 la legge fu contestata dal mondo imprenditoriale che chiedeva maggiore flessibilità per le quote di immigrati da far entrare in Italia ogni anno. AN sotto pressione delle associazioni cattoliche e dei datori di lavoro fece approvare la normativa riguardante la regolamentazione dei flussi immigratori, facendola sottoscrivere al di fuori del decreto legge Bossi Fini. Successivamente fu attuato un ulteriore normativa che prevedeva una ulteriore sanatoria riservata ai lavoratori clandestini. Per controbilanciare lo smacco politico la Lega ricominciò ad inveire contro gli stranieri chiedendo le navi da guerra per fermare gli sbarchi e nell’affermare che bisognava prendere a cannonate le imbarcazioni usate dai trafficanti, ottennero simbolicamente soltanto la distruzione dei barchini usati dagli immigrati per approdare sulle coste italiane. Le forti pressioni del mondo imprenditoriale, soprattutto quello legato alla produzione agricola e quello turistico alberghiero, obbligarono Maroni ad aumentare, con un semplice decreto ministeriale, le quote dei lavoratori stagionali oltre il livello stabilito annualmente dall’apposito decreto del Presidente del Consiglio.
    La politica immigratoria del governo Gentiloni si può definire più cruenta rispetto alla legislazione della destra parlamentare. Con il decreto Minniti-Orlando fu abolito il secondo grado di giudizio per i richiedenti asilo dopo aver ricevuto il primo diniego giuridico andando palesemente contro l’art. 111 della Costituzione che prevede il diritto al giusto processo, contro l’art. 24 sul diritto di difesa e contro l’art. 6 della Convenzione europea sui diritti umani. Con la Libia si presero degli scellerati accordi i quali lasciavano alle motovedette libiche, comprate dall’Italia, di individuare in mare i clandestini arrestarli e rinchiuderli in centri di detenzione libici riservati esclusivamente agli immigrati. Qui le persone venivano rinchiuse e sottoposte ad ogni tipo di vessazione e di tortura da parte di chi fu preposto a controllare persone che, pur non avendo commesso nessun tipo di reato, erano costrette a vivere in una detenzione imposta da assurdi accordi tra nazioni compiacenti. Numerose furono le denunce rilasciate dagli immigrati che riuscivano a giungere in Italia. Le donne venivano stuprate, mentre gli uomini erano costretti a subire torture di ogni genere. Veniva estorto loro denaro con la promessa di liberarli da una assurda prigionia venivano messi, dopo lauto pagamento, su un gommone in partenza per il Mar Mediterraneo con la speranza che nessuna motovedetta libica li intercettasse e li riportasse nei centri di detenzione. Il traffico dalle coste africane all’Italia non venne soppresso ma venne data opportunità ai trafficanti di esseri umani di incrementare il guadagno con il loro sporco commercio.
    Con il decreto sicurezza di Salvini si tentò di fermare gli sbarchi sulle coste italiane. Vennero aumentati i reati che annullavano la richiesta di asilo politico immediatamente dopo una condanna in primo grado, si istituì la Commissione territoriale che doveva controllare se all’immigrato spettasse il riconoscimento di rifugiato, venne aumentato il trattenimento presso i centri di rimpatrio, da 90 giorni a 180 giorni, si istituì la revoca di cittadinanza italiana a coloro che venivano ritenuti un pericolo per lo stato italiano, furono aumentati i fondi per i rimpatri e ai piccoli centri che ospitano i migranti fu imposto di accogliere soltanto minori non accompagnati e a chi aveva ricevuto la protezione internazionale come rifugiato.
    Con il decreto sicurezza bis si prevedeva il divieto d’ingresso nel territorio italiano, impedito il transito o la sosta in acque territoriali italiane e per tutti coloro che prestavano il loro aiuto alle imbarcazioni di immigrati in deriva nel Mediterraneo gli si poteva sequestrare la nave, mentre il comandante dell’imbarcazione poteva essere arrestato ed infine vennero inasprite le sanzioni per chi avesse violato la norma relativa alla chiusura dei porti, da 10mila a 50mila euro. I decreti Salvini sono stati soltanto fumo propagandistico buttato negli occhi di chi colpito dal virus xenofobo non voleva vedere il continuo sbarco di gommoni e barche nelle coste italiane. Salvini usò la mano dura verso le navi che salvavano poche centinaia di disperati ben sapendo che migliaia continuavano ad approdare in Italia con piccole imbarcazioni e vecchi pescherecci.
    Gli ultimi accordi tra Macron e Conte sono orientati verso una ridistribuzione tra le nazioni europee degli immigrati che approderanno a Malta e in Italia e la stabilizzazione politica della Libia, in sostanza ribadiscono gli interessi degli imprenditori europei, ridistribuzione della manodopera specializzata e possibile investimento nel Nord Africa.
    Nei prossimi 15 anni, nella fascia di età tra i 25 e i 49 anni, visti i dati relativi alla decrescente natalità, in assenza di immigrazione mancheranno in Italia 5 milioni di uomini e donne, in Germania 5 milioni, in Spagna 4,5 milioni, in Gran Bretagna 1,6 milioni. In tutta Europa mancheranno 34 milioni di lavoratori indispensabili alle attività produttive e necessari a garantire l’adeguato pagamento dei futuri assegni pensionistici. Nel resto del mondo il 50% della popolazione ha meno di trent’anni, è un mondo di giovani pronto a riversarsi nei continenti più ricchi, ragazzi e ragazze che alimenteranno le file di un proletariato cosciente di far parte della classe dei lavoratori, avranno la forza e la volontà di organizzarsi e lottare insieme a noi per una società senza frontiere, senza classi.
    A cura di Antonio Crialesi

    NOTA: PROSEGUE LA MOBILITAZIONE DELL’USI IN DIFESA DEI LAVORATORI E LAVORATRICI IMPEGNATI NEI SERVIZI DI ACCOGLIENZA, CHE SULLA BASE DEI “DECRETI SALVINI”, ancora leggi dello Stato, DEVONO ESSERE RIDOTTI di circa 20.000 UNITA’ A LIVELLO NAZIONALE PER LA CHIUSURA O IL RIDIMENSIONAMENTO DEI CAS (dovuto anche ad un taglio delle figure professionali che vi operano, soprattutto insegnanti di lingua italiana, psicologi, personale socio sanitario), DI SPRAR e di altre strutture in maggioranza affidate a cooperative o enti del “terzo settore”.

    DA “LOTTA DI CLASSE” PERIODICO DELL’UNIONE SINDACALE ITALIANA USI fondata nel 1912

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