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    Katrina e l’economia della catastrofe

    (21 Settembre 2005)

    Molti si chiedono com’è possibile che, nonostante gli enormi passi in avanti della scienza e della tecnica, nei paesi evoluti accadano ancora catastrofi come quella di New Orleans. Per quanto riguarda il sud del mondo, invece, la cosiddetta opinione pubblica è assuefatta a considerare come fatti normali le migliaia di morti in Asia a causa d’alluvioni, tifoni o tsunami, la falcidia d’intere popolazioni in Africa per l’AIDS, la fame o le guerre, i naufragi degli immigranti sulle coste del mediterraneo. Si tratta di un orrore quotidiano che stampa e TV hanno offerto, prima in dosi omeopatiche, poi in quantità sempre più massicce, e solo chi ha una sensibilità particolare ne è ancora turbato, perché il processo di disumanizzazione e l’ottundersi delle coscienze sono funzionali alla permanenza, anzi alla crescita, delle discriminazioni connaturate all’imperialismo.

    Tutti sanno che buona parte della popolazione del mondo è esclusa dal cosiddetto progresso, è venduta al mercato all’ingrosso del lavoro nero o clandestino. I nazisti hanno teorizzato la divisione tra i popoli eletti e gli “untermenschen”, un’umanità inferiore priva di diritti. Il nazismo è stato abbattuto, ma il suo programma si è tradotto in realtà. Le bidonvilles delle periferie delle grandi città, in Asia, Africa, America latina, non hanno molto da invidiare ai lager. Quando vediamo un africano che muore per l’AIDS o per fame, dobbiamo chiederci, come Primo Levi “se questo è un uomo”.

    Il processo d’imbarbarimento procede a velocità impressionante, e si ha l’illusione di “salvarsi l’anima” con un obolo, una piccola offerta. Spesso arrivano, nelle zone disastrate, prodotti alimentari avariati e farmaci scaduti, perché la truffa prospera anche su queste sciagure.

    L’attenzione dell’opinione pubblica si ravviva quando non è colpita un’area del sud del mondo, ma una grande città del cosiddetto occidente. A parte il fatto che le discriminazioni economiche non seguono linee puramente geografiche – ci sono centri industriali e finanziari potenti anche in India, e disperata miseria a pochi passi dalle più lussuose strade di New York – il problema s’affronta con un taglio diverso: occorre capire che per il capitale la vita umana non è importante. Lo si è visto ai primordi della rivoluzione industriale, quando giornate lavorative persino di 16 ore esaurivano e mandavano al cimitero in poco tempo intere generazioni. Qualcosa di simile accade nei paesi di nuova industrializzazione, anche se non ci sono un nuovo Engels e un nuovo Marx a denunciare con tanta forza il continuo attentato alla vita e alla salute di interi popoli. Accade, in forma diversa, anche nei paesi industrializzati. Qualsivoglia paese “progredito”, ogni anno, conta migliaia di vittime di “omicidi bianchi”, e centinaia di migliaia di mutilati o estenuati da malattie professionali gravissime. Celebri avvocati, servi dei servi dei servi, fanno assolvere, in processi senza fine, i dirigenti industriali che, per risparmiare capitale, hanno omesso la prevenzione. A migliaia muoiono per incidenti stradali – bisogna correre, perché il tempo è denaro! - altrettanti sono distrutti dalla droga, i cui proventi riempiono le casse di blasonatissime banche. Per non parlare dell’opera distruttiva per eccellenza che il capitale – si presenti sotto la truce maschera del nazismo o quella ipocrita della “democrazia occidentale” – porta avanti, da Guernica a Falluja.

    Questa indifferenza per la sofferenza umana, la sciagura, la morte, si spiega col fatto che al capitale interessa solo il profitto. Il capitalismo è il dominio del lavoro morto, che si materializza in mezzi di produzione o finanziari, sul lavoro vivente, che è sottomesso e schiacciato, e, quando occorre, distrutto. Gli antichi, gli uomini del medioevo e degli inizi dell’età moderna, n’ebbero sentore: Aristotele distingueva tra l’economia, arte di amministrare la casa, e la crematistica, arte di arricchire, e aveva una pessima opinione di quest’ultima. Molti cristiani, nel medioevo, consideravano il denaro “sterco del diavolo”. Shakespeare, nel “Timone d’Atene”, lancia un’invettiva contro l’oro che “collocherà in alto il ladro e gli darà titoli, genuflessioni ed encomio sul banco dei senatori”. Sembra cronaca dei nostri giorni.

    Il capitalismo non pensa alle generazioni future, all’interesse della specie. “Après moi le deluge! È il motto d’ogni capitalista e d’ogni nazione capitalistica”, ribadisce Marx. Per questo, le attività che non danno un rapido profitto, come la cura degli argini dei fiumi, la sistemazione del corso delle acque, la salvaguardia dei boschi e delle spiagge, sono trascurate, o riservate a poche località dove si concentrano forti investimenti nel turismo. Il capitale ama le grandi opere pubbliche, spesso assolutamente inutili o dannose; esempio clamoroso, il ponte sullo stretto di Messina, in una zona sismica, quando strade e ferrovie di Sicilia e Calabria attendono invano lavori d’ammodernamento. L’imperativo è dare un adeguato profitto alle ditte appaltatrici.

    Un tempo, il tecnico dello stato o del comune preparava il progetto e controllava che l’impresa lo realizzasse. Oggi il progetto è presentato direttamente dall’impresa che, sull’interesse pubblico, privilegia le sue esigenze di profitto. In occasioni di inondazioni, abbiamo visto ponti costruiti dagli antichi romani resistere perfettamente, mentre altri, costruiti con tecniche ultramoderne, sono andati in rovina in pochi minuti.

    Le speculazioni, le incurie, le assurdità tecniche, le distruzioni dell’ambiente che avvengono in Italia sono poca cosa rispetto a ciò che avviene negli Stati Uniti, dove i parchi, nei quali s’aggirano orsi infastiditi dai turisti, servono ad illudere i benpensanti che la natura sia tutelata, e a coprire la gigantesca distruzione ambientale perpetrata.

    Il geofisico Enzo Boschi, in un’intervista al Manifesto, ha detto:

    “ New Orleans è circa tre metri sotto il livello del mare e sta sprofondando con una velocità di uno due centimetri all'anno. E questo da sempre. Per cui la città andrebbe del tutto spostata e quest'ipotesi è avvalorata anche dagli scienziati americani, primo fra tutti Klaus Jacob dell'Earth Institute della Columbia University”. Quanto alla costruzione di argini più alti, aggiunge: “Gli argini sempre più alti, che sono alla base dell'idea della ricostruzione, sono del tutto inutili. Possiamo costruirli alti quanto ci pare, ma poi con la sollecitazione dell'acqua provocata dalla violenza dell'uragano questi crolleranno. E questo si è reso evidente proprio in questa circostanza. L'uragano di per sé ha fatto danni relativi, la situazione è degenerata proprio per il luogo in cui è situata la città: gli argini del lago hanno ceduto ed è successa la catastrofe”.[1]

    In un’altra intervista, a Mario Maffi, sempre sul Manifesto, si dice:

    “ Fu il lago Pontchartrain a risparmiare New Orleans dall'esondazione del Mississippi del 1927, la più devastante del secolo scorso. Gli argini a monte della capitale vennero fatti saltare con la dinamite per deviare le acque ribollenti nel lago, che le scaricò nell'Oceano. Ad andar sotto furono le migliaia di contadini che vivevano tra il Mississippi e il Pontchartrain. Sulla scelta del «male minore» pesarono gli interessi economici della capitale. Quella volta, comunque, una decisione fu presa. Questa volta il Pontrchartrain ha rotto gli argini e ha sommerso New Orleans. Senza che nessuno decidesse qualcosa prima e dopo il disastro”.

    Katrina “per un verso, è il classico disastro annunciato in un'area ripetutamente colpita dalle inondazioni del Mississippi e dagli uragani che negli ultimi anni sono diventati più frequenti e più potenti. Di nuovo, ci sono le dimensioni del disastro, c'è il nome illustre della città finita sott'acqua. La cosa veramente inedita è la messa a nudo di un altro disastro. L'acqua fa venire a galla il fondo di miseria, quella sì davvero catastrofica, degli Stati uniti. Quelli che non sono riusciti a mettersi in salvo, salvo rare eccezioni, hanno tutti la pelle nera. E se sono bianchi, sono anziani.”

    Spiega poi l’origine del nome di Big Easy, col quale è chiamata New Orleans. “La città dove tutto è più facile, più rilassato. Pochi sanno che anche questo nome le viene dal Mississippi. L'hanno chiamata così perché è sorta dove il fiume fa un'ampia mezzaluna e rallenta. Da questo fatto sono derivati guai. Perché l'ansa crea una specie di tappo che impedisce al grande fiume di correre verso le sue tre foci. L'altro guaio per New Orleans è la tendenza costante del Mississippi a scavarsi un percorso più ad Ovest rispetto al tracciato in cui è stato imbrigliato con gli argini. Il nome indiano Mississippi significa «acqua che si estende su un'ampia superficie». Da sempre l'uomo bianco ha fatto di tutto per ridurre questa superficie. New Orleans, sotto il livello del mare, è una delle tante città americane contro natura. Non ricostruitela nello stesso posto, consigliano gli esperti. E' il secondo porto degli Stati uniti. Quindi sarà ricostruita dov'è. Quanto al quartiere francese, prevedo una ricostruzione in stile Disney”.[2]

    Cosa risulta da queste citazioni? Che l’azione delle forze della natura, sia pure rese più aspre dall’effetto serra, non è stata la causa fondamentale di questa sciagura. Gran peso ha avuto l’incuria, che non è casuale, ma, da Reagan in poi, con la cosiddetta deregulation, è stata persino teorizzata. A che scopo occuparsi della manutenzione degli argini, dei ponti, delle rive, se non danno profitti?

    Un tempo, quando il buon senso non era ancora stato sostituito dalla logica della speculazione, in previsione delle piene dei fiumi, si adottavano appropriate misure:

    “Nell’evo moderno su tutto il litorale italiano di bassura erano diffuse le classiche bonifiche di colmata: alternativamente le acque erano lasciate dilagare in grandi vasche di deposito il cui livello lentamente si elevava, col doppio vantaggio di non lasciare andare in mare terreno utile e fertile, e di portare estensioni sempre maggiori al sicuro da inondazioni e malsania futura. Tale sistema razionale fu trovato troppo lento per le esigenze dell’investimento dei capitali. Altro tendenzioso argomento fu ed è tratto dalla densità della popolazione in continuo aumento, che non consente perdite di terra utile. Sono così state distrutte quasi tutte le bonifiche antiche studiate con pazienti, esatte livellazioni di idraulici del regime austriaco, toscano, borbonico, ecc.”[3]

    Le tecniche per regolare i fiumi esistono. Ad esempio, l’Arno, dai tempi di Dante fino a non molti decenni fa, opportunamente controllato, non fu mai particolarmente pericoloso; quando, però, i sapienti lavori dell’epoca precapitalistica furono sostituiti dalla sfrenata speculazione edilizia, dall’incuria nei confronti degli argini, dei boschi e delle località montane, le conseguenze si manifestarono. Con l’inondazione del 1966, neppure il Cristo di Cimabue è uscito indenne.

    Se tanti danni possono fare Arno e Po (che hanno bacini ridotti, rispettivamente di 8.247 kmq e 74.970 kmq), se lasciati alle “cure” del capitale, cento volte maggiori possono essere quelli del Mississippi, che ha un bacino di 3.328.000 kmq, considerando anche il Missouri. Solo il Rio delle Amazzoni e il Congo hanno un bacino più vasto. L’economia di mercato, con criminale indifferenza per le sorti della popolazione, lesina spazio a questi giganti, che, inevitabilmente, si vendicano. Con le aree sottratte ai fiumi si vende anche la pelle degli abitanti della zona.

    Il capitale prospera con le catastrofi, la gigantesca opera di ricostruzione gli dà nuovo fiato. Qual è la maggiore catastrofe di tutti i tempi? La seconda guerra mondiale. Le immani distruzioni di uomini e di mezzi di produzione operarono una sorta di ringiovanimento del capitalismo, soprattutto nei paesi più devastati, come Germania, Giappone e Italia, con uno sviluppo che, salvo qualche recessione, è durato trenta anni.

    Non crediamo d’essere profeti se affermiamo che la Halliburton farà eccezionali guadagni anche a New Orleans, proprio come in Iraq. Si dirà: ci guadagnano, ma almeno dispongono di mezzi modernissimi e potranno fare un lavoro gigantesco in poco tempo. Ecco uno dei miti del nostro tempo, la fiducia superstiziosa nella tecnica.

    La tecnica non è neutra, è “embedded”, è asservita al capitale. In situazioni sociali favorevoli, la tecnica può dare ottime risposte ai problemi, ma se è subordinata al capitale, non tenderà a ridurre i rischi o a garantire il benessere delle popolazioni, ma esclusivamente a ridurre i costi, a risparmiare capitale lesinando i materiali occorrenti, cercherà mille modi per far lievitare i contributi dello stato e del governo federale.

    Seguendo un noto cliché, proviamo ad immaginare uno scenario: se Bush riuscisse a tirarsi fuori dall’Iraq, senza perdere del tutto la faccia, e impegnasse i capitali nella ricostruzione di New Orleans, i media intonerebbero canti encomiastici, i capi di stato e di governo ne tesserebbero le lodi, qualcuno lo proporrebbe per il Nobel della pace. Non sarebbe una conversione sulla via di Damasco, avrebbe semplicemente trovato un altro filone da sfruttare, senza dover rispondere di soldati morti ogni giorno. Morti annegati ce ne sono già fin troppi, e i morti sul lavoro non fanno notizia.

    La sostanza rimarrebbe la stessa, lo sfruttamento della catastrofe, la sottrazione di fondi per la sicurezza sociale e per la salute, per darli, non ai diseredati, ma alle imprese appaltatrici.

    Al posto delle baracche e delle case fatiscenti si costruiranno appartamenti sontuosi da vendere o affittare a caro prezzo. In tutti i casi in cui si è provveduto al cosiddetto risanamento di un centro storico, i poveri sono stati espulsi, e sostituiti da facoltosi commercianti, uffici, sale per convegni, supermercati ecc. Ai diseredati di New Orleans, resterà, se giovani, l’emigrazione, per lavorare in qualche fast food o con i messicani nelle “fabbriche del sudore”; se vecchi, l’abbandono e una misera sopravvivenza in una zona periferica ancora più degradata.

    Bush cambierà divisa, come Stanlio e Ollio nei vecchi film, si presenterà in abiti diversi, secondo il mestiere. Dopo il cow boy, dopo il “Comandante in capo”, si presenterà nelle vesti del “Ricostruttore”, per la maggior gloria del capitale. Hollywood gli preparerà il copione da recitare. Sarà Bush il misericordioso, secondo la retorica clericale, in realtà indifferente alla tragedia passata, presente e futura.

    Non c’interessano, però, le marionette che elezioni truccate ci pongono di fronte. Il vero responsabile è il capitale. E’ sempre più assurdo cercare di riformarlo. L’alternativa “socialismo o barbarie” è sempre più incalzante. L’errore di molti è di pensare questa barbarie come un ritorno al medioevo, o ancora più indietro. Si tratta, invece, di un’inciviltà tecnologicamente avanzata, di un’oppressione crescente sui lavoratori e le masse sfruttate, dell’uso delle tecnologie più avanzate per spiare qualsiasi comportamento, individuando subito quelli difformi. Un sistema di fronte al quale Torquemada, l’inquisizione, la Bastiglia e la polizia zarista, erano giochi da ragazzi.

    Già nel Rinascimento, si studiarono sistemi di specchi, che permettessero alle guardie del signore di controllare l’area circostante il castello o il palazzo, per impedire che truppe organizzate o contadini infuriati dessero l’assalto di sorpresa. Nel 1791, l'utilitarista britannico Jeremy Bentham progettò un carcere modello, che chiamò Panopticon. Immaginò un edificio semi-circolare, al cui centro era situata la sede dei sorveglianti, mentre le celle si trovavano lungo la circonferenza. La torre di sorveglianza, con un sistema di imposte, permetteva di vedere senza essere visti. La “libertà” che il capitalismo ci prepara, nonostante le chiacchiere sulla privacy, somiglia sempre di più a quella dei carcerati del Panopticon. La tolleranza che concede è quella delle truppe inviate a new Orleans, che sparano a vista su qualche ragazzino affamato che cerca di ricuperare un po’ di cibo in un supermercato alluvionato. Non ci meraviglia. Già Locke vedeva nella difesa della proprietà lo scopo principale per cui gli uomini formavano una società e si sottomettevano ad un governo. [4] C’è da meravigliarsi se gli epigoni degli epigoni scrivono su drappi appesi alle loro case in Lousiana :“Tu saccheggi, io sparo”?

    L’unica alternativa reale a questa soluzione orwelliana è la conquista del potere da parte del proletariato, condizione indispensabile per poter subordinare le immense forze produttive e le conoscenze scientifiche e tecniche, non più alle esigenze del capitale, ma a quelle dell’umanità.

    19 settembre 2005

    Note:

    1) il manifesto - 2 Settembre 2005 «Una tragedia prevista». Intervista al geofisico Enzo Boschi.
    2) il manifesto - 3 Settembre 2005 «Il terzo mondo degli States», intervista a Mario Maffi, autore di “Mississippi”.
    3) Amadeo Bordiga, “Piena e rotta della civiltà borghese”, 1951. Fin dalle origini il marxismo ha studiato le cause sociali delle grandi catastrofi, si pensi alle classiche analisi sugli effetti della colonizzazione inglese in India. L’esame del rapporto tra l’uomo è il territorio è affrontato, da un’altra angolazione, ne “La questione delle abitazioni” di Engels. Negli anni ’50 del Novecento, il termine ecologia era sconosciuto, e la coscienza ambientalista era talmente arretrata che giornalisti “avveniristi” proponevano di sciogliere i ghiacci dei poli con le atomiche, nelle caserme s’insegnava che, per proteggersi dall’esplosione atomica, bastava rifugiarsi in una postazione profonda un metro, e una nota ditta faceva pubblicità vantando le proprietà curative della sua acqua minerale, efficace perché radioattiva. In quegli anni, precorrendo i tempi, Amadeo Bordiga iniziava una serie di articoli che partivano dall’alluvione del Polesine (1951) per giungere a quella di Firenze (1966). L’insieme di questi scritti, nonostante la diversità dei tempi in cui furono elaborati, rappresenta un corpo organico, tuttora attuale. Ripubblicati alla fine degli anni ’70 dall’editrice Iskra, oggi sono presenti in Internet, nella “Libreria internazionale della sinistra comunista”. Alcuni titoli, per rintracciarli tramite motori di ricerca: “Piena e rotta della civiltà borghese”. “Omicidio dei morti”. “Politica e costruzione”. “Pubblica utilità, cuccagna privata”. “Specie umana e crosta terrestre”. “Spazio contro cemento”. “Drammi gialli e sinistri delle moderna decadenza sociale”.”La leggenda del Piave”. “Questa friabile penisola si disintegrerà sotto l’alluvione delle “leggi speciali””.
    4) John Locke, “Due trattati sul governo”.

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