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Padri ignobili di populismi e sovranismi

(29 Dicembre 2019)

(da « Il programma comunista », nn.5-6/2019)

Marcel Cachin

Marcel Cachin

Boris Johnson, Marine Le Pen, Matteo Salvini, Viktor Orbán, Donald Trump, eccetera… il coro a più voci dei “populismi” e “sovranismi” che tanto affliggono i “sinceri democratici”, causando loro incubi a non finire: la Nazione, la Patria, il Popolo, i Sacri Confini, i Muri e le Frontiere, i Porti Chiusi, e tutto il resto del famigerato armamentario (peraltro, sottolineiamo, sempre pienamente nell’alveo della “legalità democratica”). Da dove spuntano questi individui? Chi li ha “partoriti”? È, il loro, un fascismo di ritorno, ormai impregnante ampi strati sociali da cui si levano versi subumani? Un rigurgito, un vomito della Storia del secondo dopoguerra, che troppo ha mangiato e troppo ha bevuto? E via interrogandosi, con aria sperduta e angosciata.

In realtà, “populismo” e “sovranismo” vengono da lontano, la loro è una storia che attraversa i decenni: un piano inclinato che, una volta imboccato, si finisce per percorrere a velocità sempre crescente, sempre più in basso, senza potersi fermare. Gli attuali “populisti-sovranisti”, allora, non sono né uno scherzo né una novità deĺla storia: hanno i loro padri ignobili, che, molto prima, hanno allevato e allenato intere generazioni: per decenni, fino a oggi, e anche, da rinnegati e traditori, nelle file stesse della classe operaia. Alcuni esempi (che a prima vista possono apparire sconcertanti, ma non lo sono)?

Tanto per cominciare, parliamo di Marcel Cachin, il socialista francese che allo scoppio della Prima guerra mondiale è acceso sostenitore dell’Union Sacrée (la “sacra unione” di tutti i partiti a sostegno dello sforzo bellico nazionale); che nel 1915, giunge in Italia con i finanziamenti degli industriali francesi per avviare il giornale di Mussolini “Il Popolo d’Italia”; che non ama Lenin e il bolscevismo, ma poi è tra i fondatori del Partito Comunista Francese, di cui incarna la preponderante anima patriottica e nazionalista (sarà per quarant’anni il direttore dell’organo ufficiale del PCF, L’Humanité); e che infine (insieme a Maurice Thorez) diventerà figura di spicco dello stalinismo in Francia e nel mondo, al punto d’essere insignito dell’Ordine di Lenin, poco prima di morire nel 1958 (vale anche la pena di ricordare che, durante la “guerra d’Algeria”, il PCF non fece che assecondare la politica ferocemente repressiva del governo francese nei confronti della popolazione algerina insorta contro il dominio coloniale: nel 1956, i suoi 146 deputati all’Assemblea Nazionale votarono a favore del conferimento dei “poteri speciali” al governo diretto dal socialista Guy Mollet, “per ristabilire l’ordine nei territori” – seguirono bombardamenti e massacri…).

Ma, poiché trattiamo di “sovranismo”, restiamo pure entro… i sacri confini della Patria: in Italia. E leggiamo il brano che segue:
“…assai spesso, i nemici dei lavoratori tentano di contestare il patriottismo dei comunisti e dei socialisti, invocando il loro internazionalismo e presentandolo come una manifestazione di cosmopolitismo, di indifferenza e disprezzo per la patria. Anche questa è una calunnia. Il comunismo non ha nulla in comune col cosmopolitismo. Lottando sotto la bandiera della solidarietà internazionale dei lavoratori, i comunisti di ogni singolo paese, nella loro qualità di avanguardia delle masse lavoratrici, stanno solidamente sul terreno nazionale. Il comunismo non contrappone, ma accorda e unisce il patriottismo e l’internazionalismo proletario perché l’uno e l’altro si fondano sul rispetto dei diritti, delle libertà, dell’indipendenza dei singoli popoli. E’ ridicolo pensare che la classe operaia possa staccarsi, scindersi dalla nazione. La classe operaia moderna è il nerbo delle nazioni, non solo per il suo numero, ma per la sua funzione economica e politica. L’avvenire della nazione riposa innanzitutto sulle spalle delle classi operaie. I comunisti, che sono il partito della classe operaia, non possono dunque staccarsi dalla loro nazione se non vogliono troncare le loro radici vitali. Il cosmopolitismo è un’ideologia del tutto estranea alla classe operaia. Esso è invece l’ideologia caratteristica degli uomini della banca internazionale, dei cartelli, dei trusts internazionali, dei grandi speculatori di borsa e di fabbricanti di armi. Costoro sono i patrioti del loro portafoglio. Essi non soltanto vendono, ma si vendono volentieri al miglior offerente tra gli imperialisti stranieri”.

La firma di questa schifosa paccottiglia è quella, ben nota, di uno dei “padri della Patria” uscita dal secondo macello imperialista, uno degli artefici della “Costituzione più democratica del mondo”: Palmiro Togliatti; e l’articolo da cui è tratta la citazione (“Il patriottismo dei comunisti”) uscì sulla rivista teorica del partitone staliniano Rinascita, anno II, n°7-8, luglio-agosto 1945… Sorpresi? E perché mai?! La degenerazione dell’Internazionale Comunista (fino al suo scioglimento nel 1943) era ormai avviata fin dalla metà degli anni ’20: lo stalinismo in nuce e poi imperante aveva teorizzato il “socialismo in un solo paese” ed esaltato la “patria socialista”; di lì a poco, avrebbe condotto la “grande guerra patriottica” e proposto al mondo intero le “vie nazionali al socialismo”…

Ma torniamo indietro di nove anni. Siamo nel 1936 (attenzione alla data: il 1936 è l’anno sia degli inizi della Guerra civile spagnola sia dei primi processi staliniani alla Vecchia Guardia bolscevica; il famigerato Codice Penale Rocco, che spedì in galera o al confine centinaia di anti-fascisti, è del 1930, le altrettanto famigerate “leggi razziali” sono del 1938). E che cosa si stampava, nell’agosto di quel 1936, sulle pagine di Lo Stato Operaio, organo dello stalinismo italiano fuoriuscito in Francia? Un lungo testo rivolto “Agli operai e ai contadini. Ai soldati, ai marinai, agli avieri, ai militi. Agli ex-combattenti e ai volontari della guerra abissina. Agli artigiani, ai piccoli industriali e ai piccoli esercenti. Agli impiegati e ai tecnici. Agli intellettuali. Ai giovani. Alle donne. A tutto il popolo italiano!”; e intitolato (udite! udite!) Appello ai fratelli in camicia nera. Per la salvezza dell’Italia, riconciliazione del popolo italiano. A stenderlo materialmente, dopo numerose riunioni della direzione del PCI, fu Ruggiero Grieco, con l’apporto di Giuseppe Di Vittorio (icona del sindacalismo degli anni a venire), Luigi Longo, Egidio Gennari, Giuseppe Dozza e altri dirigenti. A firmarlo, furono sessantatré “nomi illustri”: oltre ai già citati sopra, c’erano Germanetto, Negarville, Montagnana, D’Onofrio, Teresa Noce, Sereni, Donini, e così via. Il primo firmatario nell’elenco era Palmiro Togliatti, “membro del segretariato dell’Internazionale Comunista”; l’ultimo Vittorio Vidali, che in quegli stessi anni girava il mondo a massacrar comunisti. Insomma, il Gotha dello stalinismo italiano.

Poiché l’Appello ai fratelli in camicia nera è molto lungo, non possiamo riprodurlo integralmente: ne riporteremo dunque i passaggi salienti, sintetizzando gli altri e riservandoci di tornare ancora, in futuro, sull’argomento [1]. Dopo un breve “bilancio” (si fa per dire!) della “guerra d’Africa” conclusasi da alcuni mesi (“nessuna delle promesse che ci vennero fatte [dal regime – NdR] è stata ancora mantenuta”!) [2], il testo passa a spiegare dove sta “la causa dei nostri mali e delle nostre miserie”. E cioè “nel fatto che l'Italia è dominata da un pugno di grandi capitalisti, parassiti del lavoro della Nazione, i quali non indietreggiano di fronte all'affamamento del popolo, pur di assicurarsi sempre più alti guadagni, e spingono il paese alla guerra, per estendere il campo delle loro speculazioni ed aumentare i loro profitti”. Questo “pugno di grandi capitalisti parassiti” ha fatto “affari d'oro con la guerra abissina; ma adesso cacciano gli operai dalle fabbriche, vogliono far pagare al popolo italiano le spese della guerra e della colonizzazione, e minacciano di trascinarci in una guerra più grande”. Come reagire? “Solo la unione fraterna del popolo italiano, raggiunta attraverso alla riconciliazione tra fascisti e non fascisti, potrà abbattere la potenza dei pescicani nel nostro paese e potrà strappare le promesse che per molti anni sono state fatte alle masse popolari e che non sono state mantenute. L'Italia può dar da mangiare a tutti i suoi figli”.

L’“Appello” poi continua nel modo seguente, memore della grande tradizione poetica italiana:
“Guardate, figli d'Italia, fratelli nostri, guardate i gioielli dell'industria torinese, le mille ciminiere di Milano e della Lombardia, i cantieri della Liguria e della Campania, le mille e mille fabbriche sparse nella Penisola, dalle quali escono macchine perfette e prodotti magnifici che nulla hanno da invidiare a quelli fabbricati in altri paesi. Tutta questa ricchezza l'avete creata voi, operai italiani: l'ha creata il vostro lavoro intelligente e tenace, accoppiato al genio dei nostri ingegneri e dei nostri tecnici. Guardate, figli d'Italia, le nostre campagne dove si è accumulato il lavoro secolare di generazioni di contadini. Sì, il nostro è il paese del sole, dell'azzurro cielo e dei fiori; ma la nostra Italia è bella soprattutto perché i nostri contadini l'hanno abbellita con il loro lavoro. Queste opere le avete create voi, con il vostro lavoro, operai italiani, voi che avete fatto dare al nostro popolo il nome di ‘popolo di costruttori’. Noi abbiamo ragione di inorgoglirci. Questa Italia bella, queste ricchezze sono il frutto del lavoro dei nostri operai, dei nostri braccianti, dei nostri ingegneri, dei nostri tecnici, dei nostri artisti, del genio della nostra gente”.
Ma, si dice poi, “questa ricchezza non appartiene a chi l' ha creata”, bensì a “poche centinaia di famiglie, di grossi finanzieri e di capitalisti, di grandi proprietari fondiari, che sono i padroni effettivi di tutta la ricchezza del paese, che dominano l'economia del paese. Questo pugno di dominatori del paese sono i responsabili della miseria del popolo, delle crisi, della disoccupazione. Essi non si preoccupano dei bisogni del popolo, ma dei loro profitti”.

E via di seguito, con la geremiade sui “pescicani capitalisti [che] affamano il popolo”, con un linguaggio non diverso da quello di chi si scagliava contro “la perfida Albione”, ma anche di chi dimentica bellamente di parlare di modo di produzione capitalistico e se la prende con i “capitalisti cattivi”.

Seguono i nomi di questi “pescicani”, “nemici del popolo”, “parassiti del lavoro nazionale e del genio italiano”: i Motta, gli Agnelli, i Pirelli, i Morpurgo, i Gaggia, e compagnia cantante. E poi i grandi proprietari agricoli, Spada, Doria, Borghese, Torlonia, Ruffo, “tutto il vecchio nobilume che è restato come una cancrena sul corpo della nostra Italia”. E si continua: la guerra d’Africa non ha portato miglioramenti al popolo italiano (!!!), mentre crescevano i lauti profitti di Montedison, Fiat, Edison, Pirelli, Snia Viscosa, Ilva, Assicurazioni Generali, Sip… Insomma, un pugno di sfruttatori, che non si capisce bene da dove vengano.

Dopo aver dedicato alcune pagine alle rivendicazioni per disoccupati, operai, contadini, impiegati, piccoli industriali, artigiani, piccoli esercenti, lavoratori in genere, richiamati, ex combattenti d’Africa, mutilati, feriti e invalidi della guerra d’Africa, madri e vedove dei caduti d’Africa, e al panorama internazionale (i venti di guerra che ricominciano a soffiare nel mondo e la necessità di stringere “patti di assistenza mutua con tutti i nostri vicini […], patti aperti a tutti gli Stati che vogliano parteciparvi; giacché se è giusta la nostra preoccupazione di veder garantita la nostra indipendenza nazionale da un aggressore eventuale che la minacci, dobbiamo, a nostra volta, garantire l’indipendenza degli altri popoli, e soprattutto dei piccoli Stati”), dopo tutto ciò, ecco il cuore dell’Appello. E, di nuovo, udite, udite!

“I comunisti fanno proprio il programma fascista del 1919, che è un programma di libertà.


“ITALIANI!

“In questi anni ci sono stati imposti dei duri sacrifici e ci sono stati tolti tutti i diritti politici, in nome degli interessi superiori della nazione. Ma i ricchi, i milionari, i capitalisti, si avvantaggiarono delle nostre sofferenze e privazioni e riempirono le loro casseforti.

“Con la guerra abissina i sacrifici per il popolo sono aumentati, e sono aumentati i rigori delle leggi.


“Adesso il popolo italiano deve dire la sua parola.

“La libertà che noi chiediamo non è l’anarchia e il caos, la libertà che noi vogliamo è la disciplina cosciente alle leggi e ai regolamenti elaborati e approvati con la partecipazione del popolo.


“Il nostro popolo è maggiorenne. Non ha bisogno di tutela. Vuole parlare. I suoi figli che hanno combattuto in Africa vogliono parlare, e ne hanno il diritto.


“Ma i padroni, i capitalisti, i pescicani non vogliono farci parlare perché ci vogliono far pagare le spese della guerra e della colonizzazione, perché preparano un nuovo macello, perché hanno paura che noi troviamo l’unità e la forza per strappare il nostro pane, la nostra terra e la pace.

“Noi vogliamo l’Italia forte, libera e felice!”.


E, dopo un pistolotto in cui si descrive che cosa sarà l’Italia infine liberata dai “pescicani” e si fa riferimento alla “nuova Costituzione” che si sta elaborando in Russia (a proposito della quale il lettore può leggere la nostra analisi e il nostro commento, nell’opuscolo di recente pubblicato Perché la Russia non era socialista!), così si continua:

“Noi comunisti difendiamo gli interessi di tutti gli strati popolari, gli interessi dell’intera nazione,

“perché la nazione è il popolo, è il lavoro, è l'ingegno italiano,

“perché la nazione italiana è la somma di tutte le sofferenze e le lotte secolari del nostro popolo per il benessere, per la pace, per la libertà,

“perché il Partito Comunista, lottando per la libertà del popolo e per la sua elevazione materiale e culturale, contro il pugno di parassiti che l'affamano e la opprimono, è il continuatore e l'erede delle tradizioni rivoluzionarie del Risorgimento nazionale, l'erede e il continuatore dell'opera di Garibaldi, di Mameli, di Pisacane, dei Cairoli, dei Bandiera, delle migliaia di Martiri ed Eroi che combatterono non solo per l'indipendenza nazionale dell'Italia, ma per conquistare al popolo il benessere materiale e la libertà politica”.


Al centro di questa “lotta”, che cosa deve stare? Presto detto! Ecco qua (e tenetevi lo stomaco)

“Il programma fascista del 1919 non è stato realizzato!
“POPOLO ITALIANO!
“FASCISTI DELLA VECCHIA GUARDIA!
“GIOVANI FASCISTI!
“Noi comunisti facciamo nostro il programma fascista del 1919, che è un programma di pace, di libertà, di difesa degli interessi dei lavoratori, e vi diciamo:
“Lottiamo uniti per la realizzazione di questo programma”.


A questo punto, il programma fascista del 1919 è analizzato in dettaglio, e vale la pena di ricordare una volta di più che in esso si possono davvero riconoscere non solo tutti i partiti e gruppi dell’arco costituzionale, di destra come di “sinistra”, ma anche i “rosso-bruni”, i sandinisti e post-sandinisti, i “combattenti per la libertà altrui” e tutto il variegato universo dell’opportunismo di sinistra: a ulteriore dimostrazione della continuità prefascismo-fascismo-postfascismo… Ma andiamo avanti, nonostante tutto!

Dunque, “Niente di quanto fu promesso nel 1919 è stato mantenuto”. E allora:

“FASCISTI DELLA VECCHIA GUARDIA!
“GIOVANI FASCISTI!
“Noi proclamiamo che siamo disposti a combattere assieme a voi ed a tutto il popolo italiano per la realizzazione del programma fascista del 1919, e per ogni rivendicazione che esprima un interesse immediato, particolare o generale, dei lavoratori e del popolo italiano. Siamo disposti a lottare con chiunque voglia davvero battersi contro il pugno di parassiti che dissangua e opprime la Nazione e contro quei gerarchi che li servono.

“Perché la nostra lotta sia coronata da successo dobbiamo volere la riconciliazione del popolo italiano ristabilendo la unità della Nazione, per la salvezza della Nazione, superando la divisione criminale creata nel nostro popolo da chi aveva interesse a spezzarne la fraternità.
“Dobbiamo unire la classe operaia e fare attorno a questa l’unità del popolo e marciare uniti, come fratelli, per il pane, per il lavoro, per la terra, per la pace e per la libertà.

“Dobbiamo ristabilire la fiducia reciproca fra gli italiani; liquidare i rancori passati; smetterla con la pratica vergognosa dello spionaggio che aumenta la diffidenza.
“Dobbiamo risuscitare il coraggio civile delle opinioni liberamente espresse: nessuno di noi vuol cospirare contro il proprio paese, noi vogliamo tutti difendere gli interessi del nostro paese che amiamo.

“Amnistia completa per tutti i figli del popolo che furono condannati per delitto d'opinione. Abolizione delle leggi contro la libertà e del Tribunale Speciale, che colpiscono i difensori del popolo, che difendono gli interessi dei nemici del popolo e dell'Italia.
“Diamoci la mano, figli della Nazione italiana! Diamoci la mano, fascisti e comunisti, cattolici e socialisti, uomini di tutte le opinioni. Diamoci la mano e marciamo fianco a fianco per strappare il diritto di essere dei cittadini di un paese civile quale è il nostro. Soffriamo le stesse pene. Abbiamo la stessa ambizione: quella di fare l'Italia forte, libera e felice. Ogni sindacato, ogni Dopolavoro, ogni associazione diventi il centro della nostra unità ritrovata ed operante, della nostra volontà di spezzare la potenza del piccolo gruppo di parassiti capitalisti che ci affamano e ci opprimono”.

Quindi, dopo aver proclamato l’“Unità di tutto il popolo” e “con chiunque difenda realmente, e non solo a parole, ma nei fatti, gli interessi del popolo”, si continua con un “Largo ai giovani!”: “Il canto fascista dice che la giovinezza è la primavera della bellezza. Ma tu sai che non c’è bellezza senza lavoro, senza prospettiva di un certo avvenire, senza svaghi, senza possibilità di poter sviluppare la propria personalità, senza amore e senza gioia”. Ed ecco il decalogo: “La bellezza è nella vita operosa e serena. L’eroismo vero è nella grande emulazione per accrescere il benessere e la cultura dei popoli. Tu hai diritto alla vita, gioventù d’Italia. […] Largo ai giovani ingegneri e tecnici! Largo ai giovani medici! Largo ai giovani insegnanti! Largo ai giovani scrittori e artisti! Abbasso le cricche che chiudono le porte alla gioventù! […] Preoccuparsi della vita e dell’avvenire dei giovani, risolvendo ogni giorno un problema che faccia loro largo nella vita: questa è la via principale per difendere la famiglia italiana, che sarà allora costruita su una base materiale certa e nel quadro del benessere crescente di tutto il popolo”.

A quest’idillico quadretto della “famiglia italiana”, seguono altri inviti: “A te, lavoratore fascista!” e “A te, lavoratore cattolico!”; e a seguire gli esempi del Fronte popolare in Spagna e Francia, ecc. ecc. La data che precede le sessantatré firme, come abbiamo detto, è “Agosto 1936”: lo stesso mese, a Mosca, ha inizio il primo processo alla Vecchia Guardia bolscevica. Mentre gli stalinisti nostrani ammiccavano (e che ammiccamento!) al "nemico fascista", lo stalinismo in patria trucidava la vecchia guardia rivoluzionaria sancendo così la definitiva vittoria della controrivoluzione. E ci dobbiamo ancora stupire di ciò che accade oggi?
***
Abbiamo dovuto dedicare tanto spazio a quest’Appello (tralasciandone ampie parti), perché non poteva essere più chiaro. Il Popolo, la Nazione, la Riconciliazione, la Lotta ai Pescecani Sfruttatori… Il tutto all’insegna dell’interclassismo: l’affasciamento di tutti i settori della vita economica e sociale e culturale italiana nel magma indistinto del Popolo. Niente di diverso, per altro, da quanto il fascismo stesso aveva sempre proclamato a gran voce; e niente di diverso dai programmi socialdemocratci, movimentisti, terzomondisti, ecc.,, che ammorbano l’aria in ogni angolo del mondo contemporaneo.

Classi, proletariato, rivoluzione, presa del potere, dittatura del proletariato, società senza classi, comunismo? Ma scherziamo?!

Di lì è brevissimo il passo verso il CLN (Comitato di Liberazione Nazionale), verso la ricostruzione nazionale, verso l’amnistia (con guardasigilli Togliatti) per i criminali fascisti; e giù giù, fino allo sforzo produttivo per il bene dell’economia nazionale all’epoca del boom economico prima e delle “necessità superiori del Paese” in piena crisi poi. Ecco l’“allenamento al sovranismo e al populismo”; ecco la diffusione di quei virus fra le “masse popolari”, fra i “militanti di base”, dentro i “sindacati nazionali” e le “Feste dell’Unità”, insieme alle salsicce e a “Bella ciao”. E poi ci si domanda sgomenti perché tanti di quei “militanti di base”, tanti di quei “sindacalizzati” abbiano potuto trasmigrare alla Lega, costituirne il nerbo organizzato, la militanza attiva?

Ora, qualcuno dirà che c’è una bella differenza con il tono becero e razzista di Salvini & Co. Ma, come si diceva, una volta imboccato quel piano inclinato non c’è fine alla discesa in basso e all’affioramento del peggio – specie se tutt’intorno, nel mondo del Capitale (non quello dei quindici o cinquanta o mille o centomila o milioni di “pescecani”!), le cose vanno indubitatamente a rotoli. Non dimentichiamo infatti che, tanto per restare nel campo dell’immigrazione (e della “sovrana Italia”), dietro ai Decreti Sicurezza di Salvini & Co. stanno le leggi Minniti-Orlando e Turco-Napolitano…
dicembre 2019

NOTE
[1] Chi non avesse modo di leggere l’Appello su Lo Stato Operaio, lo può trovare, riportato fedelmente, nel libro di Bruno Grieco (figlio di Ruggero), Un partito non stalinista. PCI 1936: “Appello ai fratelli in camicia nera”, Marsilio, Venezia 2004. Il titolo paradossale è l’ennesimo tentativo di accreditare la versione secondo cui il PCI si sarebbe via via reso indipendente da Mosca, nonostante il controllo e il manovrismo di Togliatti, longa manus di Stalin in Italia. Ma le “vie nazionali al socialismo” non erano forse l’estensione del concetto di “socialismo in un paese solo”? Insomma, non finisce mai la… ricerca della verginità perduta!

[2] Trascuriamo pure il fatto che, a proposito della “guerra d’Africa”, non una parola si dice del suo carattere di guerra imperialista, dei massacri della popolazione abissina, dello sfruttamento che il regime intendeva attuare delle risorse naturali e della forza-lavoro locale: da cui sarebbero venuti i profitti per mantenere le “promesse”… non mantenute.

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