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CONTRO L’AGGRESSIONE ALL’IRAN
VIA LE TRUPPE DAL MEDIORIENTE

(8 Gennaio 2020)

Riceviamo e volentieri condividiamo questo contributo della Rete contro la guerra e il militarismo di Napoli. I suoi estensori precisano che è stato scritto prima della risposta iraniana all'assassinio di Soleimani. Ma il complessivo ragionamento che vi si svolge non solo non è sorpassato, ma risulta pienamente confermato dagli eventi.

L’attacco terroristico statunitense in cui è stato ucciso il comandante delle forze speciali iraniane (Irgc), il generale Qassem Soleimani, ed il numero due delle milizie irachene filo-iraniane Abu Mahdi al Muhandis, è senza alcun dubbio un atto di guerra. Come scrivevamo qualche mese fa, il mancato attacco degli USA a Teheran durante la crisi delle petroliere dello scorso luglio non significava la chiusura della partita né la rinuncia degli Usa a mettere in riga un Paese che continua a resistere ai diktat del “grande Satana” e dei suoi alleati.
E’ dal 1979 che all’Iran si vuole far pagare il peccato di essersi sottratto alla dominazione dell’imperialismo occidentale. Dopo il fallito tentativo di schiacciare sul nascere la Repubblica komeinista con ben 8 anni di conflitto condotto da Saddam Hussein in nome e per conto dell’Occidente, (e per il quale l’Iraq è stato ripagato con ben tre aggressioni, 10 anni di embargo ed un’occupazione che dura tuttora), la pressione e il ricatto non si sono mai allentati negli ultimi decenni. Ma, in maniera inaspettata per i potenti del mondo, l’Iran non solo ha resistito, pur pagando il popolo iraniano prezzi altissimi, alle sanzioni ed allo strangolamento economico, ma è riuscito a tessere rapporti e a costruire una non indifferente influenza sui destini dell’area. Il supporto dato ad Assad contro l’obiettivo dell’imperialismo di spartirsi la Siria, l’appoggio agli houthi in Yemen che ha contribuito all’impasse della Coalizione a guida Saudita, il sostegno agli hezbollah libanesi e alla resistenza palestinese, la lotta contro l’Isis in Siria come in Iraq, hanno senza dubbio accresciuto il peso iraniano nel Medio-Oriente.
Ciò spiega la serie di provocazioni da parte di USA, Gran Bretagna e Israele, che hanno costellato il 2019 e che ha portato agli ultimi tragici avvenimenti e alla scelta di colpire l’uomo forte della politica estera e militare dell’Iran.
L’accusa a Teheran di voler uscire dal trattato JCPOA e di aver riavviato l’arricchimento dell’uranio per costruire l’atomica, nonostante siano stati gli USA a stracciare l’accordo, l’accusa per le esplosioni che avevano colpito alcune petroliere nelle acque del Golfo, l’assalto dei militari britannici ed il sequestro della petroliera iraniana Grace 1 mentre attraversava lo Stretto di Gibilterra, gli innumerevoli attacchi da parte dell’aviazione israeliana contro basi e postazioni iraniane in territorio siriano, le accuse di aver bombardato gli oleodotti sauditi, erano evidentemente volte ad alzare la tensione e ad innescare una reazione di Teheran tale da convincere anche i più recalcitranti alleati europei a fare definitivamente i conti con lo “Stato canaglia dell’Iran”. Nonostante non siano mancate le risposte da parte iraniana (v. il sequestro di una petroliera norvegese e l’abbattimento di un drone americano), non solo è miseramente fallito il tentativo di creare una Coalizione anti-iraniana (la cosiddetta NATO araba), ma la stessa Europa, benché allineata a Washington, ha continuato a prendere tempo tanto da incorrere, in queste ore, nelle critiche feroci del falco Mike Pompeo.
Un segno non proprio positivo per il potente gendarme del mondo costretto a fare i conti, in Siria come in Afghanistan, in Iraq come in Libia, con un inanellarsi di insuccessi e con il rafforzarsi sulla scena mondiale di contendenti agguerriti, Russia in primis.
Non stupiscono quindi le prove muscolari volte a ribadire il “chi comanda” e a buttare altra benzina sul fuoco. L’attacco USA con droni e caccia F16 a cinque basi del movimento sciita-iracheno in Siria ed in Iraq con la morte di 25 miliziani non poteva rimanere senza risposta. Solo due giorni dopo (il 31 dicembre) l’assalto all’ambasciata Usa di Baghdad da parte delle milizie sciite-irachene, che ha costretto all’allontanamento dell’ambasciatore Matthew H. Tueller e di parte del personale, ha fatto rivivere agli statunitensi il loro peggiore incubo: i 444 giorni della presa dell’ambasciata americana nel 1979 a Teheran con 52 ostaggi. Un’umiliazione mai dimenticata come dimostra il numero degli obiettivi iraniani, esattamente 52, che Trump ha detto di essere pronto a colpire.
L’uccisione di Qassem Soleimani, nel mirino da anni, giustificata come necessaria ritorsione all’azione delle milizie sciite contro l’ambasciata e come azione preventiva contro i “piani terroristici iraniani”, ha difatti cambiato le carte sul terreno e non proprio secondo i desiderata americani.
All’indomani del barbaro assassinio sembrava, infatti, possibile l’opzione di una provvisoria descalation. In questa direzione concorrevano diversi fattori.
Innanzitutto le divisioni all’interno dell’ establishment americano, un fattore non da poco in uno scontro diretto con l’Iran che coinvolgerebbe ben altri e potenti attori ed un fronte ben più ampio del territorio degli ayatollah. La stretta collaborazione dell’Iran con la Russia e la Cina, esplicitata dalle recenti esercitazioni navali congiunte nell’Oceano indiano e nel Golfo di Oman, se da una parte richiede agli USA un’accelerazione per tentare di difendere i propri interessi vitali dalla sempre più ingombrante presenza ed attivismo dei due grandi competitor, dall’altra, proprio per le contraddizioni interne e per l’indebolimento USA nell’area, impone cautela nell’avviare una guerra che si profilerebbe di vasta scala. La scelta di Trump di avviare un rafforzamento della presenza delle proprie truppe con l’invio di altri 3500 uomini, in questo senso punta a recuperare terreno anche se non necessariamente per un azione immediata.
Secondo. Gli alleati europei, come ricordato da Pompeo, sono sembrati poco entusiasti. Nell’inconcludente tentativo di difendere i propri nazionali interessi senza, però, innervosire il potente alleato e protettore statunitense, le potenze europee, sebbene con posizioni distinte, si sono caratterizzate per la loro prudenza sin dall’uscita degli USA dal trattato sul nucleare iraniano scontentando tanto gli yankee che gli iraniani.
Terzo. L’ondata di proteste che da mesi vede scendere nelle piazze irachene sunniti e sciiti insieme contro le intollerabili condizioni di vita e contro un governo corrotto che non si è fatto scrupolo di reprimerle nel sangue, sembrava un buon viatico per fare i conti con un governo che pur nutrendosi alla mangiatoia americana continua ad essere un vassallo poco affidabile. Ma la giusta rabbia degli iracheni è andata crescendo non solo contro il governo e le intromissioni iraniane ma contro la stessa occupazione occidentale. Le millantate manifestazioni di gioia per l’uccisone di Soleimani twittate da Pompeo, che molto ricordano i festeggiamenti per la caduta di Saddam rivelatisi puri e semplici falsi, sono state spazzate via dalle oceaniche partecipazioni ai funerali del generale iraniano a rimarcare non tanto la vicinanza all’uomo di Khamenei, quanto l’odio verso la potenza che ha distrutto e affamato il loro paese e che pretende di continuare a fare il buono ed il cattivo tempo. Un odio ben sintetizzato dallo slogan “Morte all’America”.
Ebbene, lo stesso governo iracheno non ha potuto ignorare la crescente rabbia. Nel tentativo di salvare se stesso, non solo non ha prontamente garantito la protezione armata richiesta da Trump al momento dell’assalto all’ambasciata, ma ha fatto dichiarazioni di fuoco contro la presenza Usa.
Proprio ieri il Parlamento iracheno ha votato l’espulsione delle truppe straniere dall’Iraq.
Trump non poteva immaginare di peggio. Questo autentico calcio sul muso, restringe di fatto le possibilità di traccheggiare ulteriormente imponendo una reazione. Un calcio sul muso diretto anche alle altre potenze occidentali presenti in Iraq, Italia per prima essendo il secondo contingente per numero di uomini (oltre 900), che rischia di contagiare altri scenari non solo mediorientali. Ed infatti mentre si convoca con urgenza una riunione della NATO, sia Macron che Boris Johnson si sono schierati con Trump mentre il “nostri” Conte e Guerini, pur invocando azioni diplomatiche, hanno escluso il disimpegno nelle missioni italiane all’estero a meno di una decisione in tal senso della Coalizione (quindi degli USA).
Ad alzare ulteriormente la tensione l’annuncio dell’Iran della propria fuoriuscita dall’accordo sul nucleare e la promessa di rispondere adeguatamente all’attacco statunitense.
Al di là degli appelli alla calma è evidente, quindi, che siamo di fronte ad una situazione esplosiva in cui è difficile intravedere una soluzione che possa salvare la faccia di tutti gli attori in campo ed evitare di oltrepassare la linea di non ritorno. Ciò sarebbe possibile alla sola condizione che gli USA accettino una inevitabile risposta limitata sul piano militare da parte iraniana e siano disponibili a contrattare un temporaneo standby eventualmente garantito dagli attuali “amici” iraniani, Russia e Cina, al momento impegnati a buttare acqua su fuoco. Una soluzione transitoria che, però, gli USA pagherebbero con un altro colpo all’immagine di invincibile superpotenza.
Se l’escalation continua e alle minacce dovessero seguire i fatti ci ritroveremo di qui a poco davanti ad una terribile aggressione all’Iran che rischia di travolgere non soltanto l’Iraq e il Medioriente. Una cosa, però, è certa; per gli States non sarebbe una passeggiata. L’odio nei confronti degli yankee e i suoi alleati, per ciò che essi hanno determinato in termini di distruzione, affamamento e sfruttamento in quest’area, è tale che anche se non sarà un Vietnam, come promette Khamenei, di certo pagheranno un prezzo altissimo.
Di questo sono consapevoli tanto gli USA che le altre potenze occidentali. Tant’è che al momento tutti, ci sembra, stanno prendendo tempo. La stessa reazione di Trump al voto del Parlamento iracheno contro la presenza delle truppe sembra andare in tal senso, soprattutto se letta alla luce dei contemporanei incontri con il premier di Baghdad: ce ne andremo dall’Iraq a patto che ci rimborsiate quanto speso per la base militare di Balad (che ospita le forze statunitensi a pochi km da Baghdad) e vi imporremo sanzioni come non avete mai visto prima. “Farà sembrare le sanzioni iraniane qualcosa di “insulso" ”. Così come la disponibilità iraniana a continuare a collaborare con l’AIEA sul nucleare e a rivedere la sua uscita dall’accordo in cambio dell’eliminazione delle sanzioni.
Vedremo cosa accadrà nei prossimi giorni.
Chi invece non deve perdere tempo siamo noi. Se c’è una possibilità che non si scateni l’inferno questa dipende anche dalla nostra capacità di ostacolare in ogni modo questa nuova aggressione. La strada è quella dell’immediata mobilitazione, come già sta avvenendo in tante città degli USA, per impedire la partecipazione italiana all’attacco contro il popolo iraniano e per chiedere al governo italiano
• l’immediato ritiro delle truppe italiane dall’Iraq e da tutte le altre cosiddette missioni di pace all’estero,
• di negare le basi presenti in Italia per qualsiasi azione contro altri Paesi
Questo, d’altro canto, è l’unico solo modo per evitare altre carneficine e nello stesso tempo rafforzare le lotte dei popoli che in Iraq come in Iran, in Libano come in Palestina e in altri Paesi del Nord Africa, si stanno ribellando alle condizioni di oppressione e sfruttamento imposte dall’imperialismo e dai loro governi.
Rete contro la guerra e il militarismo - Napoli

06/01/20

Rete contro la guerra e il militarismo - Napoli

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