">
Posizione: Home > Archivio notizie > Capitale e lavoro (Visualizza la Mappa del sito )
(10 Gennaio 2020)
Pochissimi se ne sono accorti, specie alla sinistra radicale indaffarata a rincorrere le chiappe del duo Salvini-Meloni frignando sul Mes e a prepararsi a nuovi flop elettorali, ma sulla sponda sud del Mediterraneo e in Medio Oriente è ripartita l'Intifada araba, e alla grande. Nell'ultimo biennio le piazze di alcune capitali e di molte città arabe si sono riempite, a seconda dei casi, di decine, centinaia di migliaia, milioni di dimostranti intenzionati/e a battersi contro i rispettivi regimi. A farlo, nonostante lo spettro della tragedia siriana agitato minacciosamente davanti ai loro occhi da generali e despoti che sognano di emulare le gesta del mitico Assad.
Questa nostra presa di posizione, come Tendenza internazionalista rivoluzionaria, è un invito ai militanti di classe e ai proletari più coscienti a rompere il silenzio su questi grandi avvenimenti, che fanno il paio con quelli in corso nelle Americhe (Cile, Haiti, Colombia, Ecuador, Bolivia). E a far sentire in tutti i modi possibili la nostra solidarietà attiva, il nostro sostegno incondizionato, alle piazze arabe in rivolta. Specie ora che si moltiplicano i segni di manovre dei poteri costituiti, locali e globali, per cercare di avviare una devastante deriva di tipo siriano e innescare nuove guerre.
Le sollevazioni del 2011-2012 e l'offensiva controrivoluzionaria
Per inquadrare in modo adeguato gli avvenimenti in corso in Algeria, Sudan, Iraq, Libano, paesi arabi di cruciale importanza politica, e le loro ricadute in Iran, sarebbe necessario un ampio e molto dettagliato sguardo all'indietro. E sarebbe necessario, naturalmente, fare il punto sull'evoluzione sempre più caotica e centrifuga della situazione economica e politica mondiale. Ma lo scopo di questo nostro testo è solo quello di gettare un sasso nello stagno. Lasciamo quindi sullo sfondo il contesto internazionale, e ci limitiamo a fare alcune considerazioni sugli immediati antecedenti dei grandi scontri di classe del 2018-2019: la lotta anti-coloniale degli anni '50 e '60 del secolo scorso e le forti sollevazioni popolari e proletarie che andarono a comporre l'Intifada degli anni 2011-2012 – il sommovimento che ha dato avvio al secondo tempo della rivoluzione democratica e anti-imperialista nel mondo arabo con la parola d'ordine Ash'ab iurid isquat al-nizam, “il popolo vuole abbattere il regime!”.
Perché parliamo di “secondo tempo”?
Per distinguerlo dal primo che fu rivolto essenzialmente contro le potenze coloniali europee. Queste avevano preso progressivamente possesso della regione dagli albori del 1500 fino alla spartizione formale delle province arabe del decaduto impero ottomano attuata con l'accordo Sykes-Picot del 1916. I capitoli più recenti della vibrante storia della resistenza dei popoli arabi, e in particolare delle classi sfruttate del mondo arabo, all'oppressione coloniale europea si aprono in Algeria negli anni '30 dell'ottocento con la guerriglia di lunga durata guidata da Abd el-Khader, e vengono a compimento negli anni '50 e '60 del novecento: con l'avvento al potere dei Liberi Ufficiali di Nasser in Egitto, la grande rivolta popolare irachena che detronizza la monarchia asservita ai britannici, la vittoria sulla Francia della guerra di indipendenza algerina, la nascita dell'Olp, la salita al potere di Gheddafi in Libia... In questa congiuntura storica gli artigli del vecchio colonialismo sono stati limati e in qualche caso tagliati. Ma data l'importanza strategica dell'area, la cassaforte mondiale n. 1 di petrolio e di gas del capitale globale, la controffensiva delle potenze imperialiste non ha tardato a prendere corpo. Era urgente riportare le cose all'indietro, e nel più breve tempo possibile. Tanto più perché nel periodo di maggior effervescenza della lotta anti-coloniale si era affacciata la prospettiva dell'unificazione del mondo arabo, e tra gli sfruttati aveva acquistato influenza un sia pur molto vago “socialismo arabo”. Alla testa della controffensiva gli Stati Uniti (Libano, 1958) e Israele, talvolta in attrito, per lo più in combutta con Francia, Gran Bretagna e Italia, le vecchie potenze coloniali possedute dall'ossessione di prendersi la rivincita sui colonizzati ribelli. Questa reazione ha impedito alle sollevazioni popolari di questa ricca, vasta ma frammentata regione di portare il processo di sviluppo capitalistico delle economie nazionali “fino in fondo”, e neppure a tre quarti (alla cinese tanto per dire). Meno ancora ne poteva seguire la costruzione di democrazie borghesi all'europea. Anche là dove è apparso un simulacro di elezioni e pluripartitismo, le masse sfruttate urbane e rurali hanno continuato a essere trattate dalle élite militari e civili autoctone col pugno di ferro; fu proprio Nasser a dare il buon esempio facendo fucilare due operai comunisti rei di organizzare scioperi. Si instaurò in quegli anni la prassi propagandistica, tuttora in vigore, secondo cui ogni rivolta, ogni conflitto proletario e popolare che si dà nel mondo arabo è sempre e comunque frutto di oscure macchinazioni esterne, ed è perciò necessario e giustificato schiacciarlo nel sangue.
A partire dalla bruciante sconfitta militare che Israele inferse nel 1967 agli stati arabi, è iniziata una nuova offensiva imperialista contro l'intero mondo arabo guidata dall'asse Washington-Tel Aviv con l'immancabile sostegno europeo. La rivoluzione democratica, anti-coloniale araba è rimasta perciò del tutto incompiuta, verso l'esterno e verso l'interno. Non sono fioriti né lo sviluppo economico, né la democrazia. L'uno in concorrenza con l'altro (nonostante l'esistenza di una Lega araba), i paesi arabi si sono inseriti nel mercato mondiale in posizione del tutto subordinata - senza uno straccio di industrializzazione un minimo completa ed equilibrata, e senza alcuna forma di integrazione reciproca che ne riducesse in qualche modo la dipendenza. Dalla metà degli anni '70 in poi, quando l'uno dopo l'altro hanno adottato la politica neo-liberista di “apertura” imposta dall'asse FMI/vecchie potenze coloniali/USA, il carattere dispotico dei poteri nati dalla lotta anti-coloniale si è ulteriormente accentuato. La classe operaia, il vastissimo esercito proletario di riserva e i contadini poveri sono stati posti sotto una soffocante sorveglianza.
Questo processo si è intensificato dopo l'insurrezione iraniana del 1979, che minacciò di incendiare l'intera regione molto al di là dell'Iran. Con il regime dello Scià andava infatti in frantumi una delle colonne portanti della dominazione occidentale in Medio Oriente. L'intera offensiva neo-coloniale rischiava di fallire sul nascere. Il formidabile moto iraniano fu rapidamente confiscato e dirottato su una falsa pista dagli ayatollah khomeinisti, le sue avanguardie massacrate senza pietà da nuovi “pii” governanti di Teheran. Neppure questa confisca/dirottamento del moto iraniano, però, bastava a tranquillizzare Washington e le cancellerie europee. Venne messa in azione l'arma bellica. Attraverso tre devastanti massacri, la guerra tra Iraq e Iran e le aggressioni internazionali all'Iraq del 1991 e del 2003, la nuova offensiva imperialista contro l'intero mondo arabo ha fatto un balzo in avanti. L'occupazione militare e lo squartamento dell'Iraq l'ha sigillata. “Siamo tornati. I padroni di questa regione siamo noi!”, si è detto anche nei palazzi di Roma.
Nello stesso giro di anni Israele, forte degli accordi di Camp David, riservava un trattamento altrettanto infame ai palestinesi di Gaza e Cisgiordania espandendo incessantemente il suo “spazio vitale” e togliendo ossigeno alle masse palestinesi. Ha potuto farlo mettendo a punto una delle più imponenti macchine belliche del mondo e dettando ad Oslo le sue condizioni a una dirigenza di al-Fatah pronta ad ogni compromesso, e infine trasformata in un apparato di controllo poliziesco e di intermediazione affaristica. Lo scoppio della grande crisi del 2008 e la crisi alimentare in Nord Africa hanno reso la situazione insopportabile, funzionando da inneschi dei sommovimenti del 2011-2012 che hanno attraversato in lungo e in largo il mondo arabo dal Marocco all'Arabia saudita come un'unica onda sismica, seppur di potenza assai diversificata. «L'insorgenza di milioni di operai, sfruttati, diseredati, giovani senza futuro, donne senza diritti – la cui partecipazione in massa nelle piazze e sui luoghi di lavoro ne costituisce uno dei dati più dirompenti – ha riaperto nelle piazze, con epicentro in Egitto, il processo della rivoluzione democratica e anti-imperialista in una regione strategica del globo. Questo processo è denso di pericoli per la stabilità del capitalismo globale da anni alle prese con una crisi produttiva e finanziaria che si va approfondendo proprio in Europa e in Occidente. E, al polo opposto, è di grande importanza per la ripresa delle lotte e dell'organizzazione del movimento proletario nel mondo intero. La grande Intifada araba, infatti, costituisce uno scatto in avanti offensivo del moto di risveglio delle masse lavoratrici del Sud del mondo in atto da tempo, e chiama direttamente in causa anche i lavoratori del Nord del mondo” (Il cuneo rosso, n. 1, luglio 2012).
A distanza di anni registriamo che le élite capitalistiche globali e locali hanno compreso la grande sfida che quell'insorgenza portava loro assai meglio di quanto i proletari e i militanti di classe europei abbiano compreso che la forza espressa sul campo dalle masse oppresse arabe era un aiuto formidabile alla loro riscossa. In alcuni settori giovanili e in alcune lotte degli immigrati c'è stato il richiamo a piazza Tahrir; ma quando si è dispiegata la controffensiva contro-rivoluzionaria, ai nostri fratelli di classe egiziani, tunisini, siriani, del Bahrein, yemeniti, impegnati in una lotta sanguinosa contro forze nemiche soverchianti, dall'Italia e dall'Europa non è arrivato nessun concreto aiuto, neppure un incoraggiamento. Su tutta la vicenda è caduto un fitto silenzio, per non parlare degli sciagurati relitti dell'“anti-imperialismo” campista sotto-borghese che hanno tifato per Assad e forse per al-Sisi in quanto campioni della lotta al “fascismo islamico” e autentici, almeno il primo, anti-imperialisti (!!!). La nostra posizione di internazionalisti militanti coerenti, schierati dalla parte delle masse arabe insorte, è rimasta di conseguenza isolata. Isolata ma nitida, priva di equivoci. Allo stesso modo davanti alla ripartenza dell'Intifada, quasi tutti i cosiddetti “antagonisti” tacciono. Subiscono di fatto l'egemonia dei poteri imperialisti che, per loro ottime ragioni, non intendono dare voce né credito alle nuove insorgenze. Noi denunciamo questo silenzio omicida e riproponiamo con orgoglio, invece, la nostra posizione come l'unica che inquadra gli svolgimenti sociali e politici in corso in una prospettiva rivoluzionaria internazionalista, nell'immediato e per il futuro.
Sul fronte nemico, pur in un contesto di acuta concorrenza reciproca (a chi non fa gola lo scrigno arabo e medio-orientale?), i governi, gli stati, le multinazionali (vi dice qualcosa il nome ENI?), gli stati maggiori occidentali, la Russia, Israele, l'Arabia saudita, le altre satrapie del Golfo e i locali clan di potere, con l'usuale consulenza del FMI, si sono stretti in un'alleanza controrivoluzionaria globale per sbarrare la strada con ogni mezzo alle sollevazioni. Pur restando astutamente dietro le quinte, la Cina di Xi è pienamente solidale con l'intera gang di iene e avvoltoi, in quanto ha da difendere i propri investimenti nell'area. Che esigono stabilità, cioè a dire lo stabile schiacciamento delle classi lavoratrici. Chi dietro queste gigantesche rivolte di oppressi, rischiosissime per chi vi partecipa, vede la mano occulta delle cancellerie occidentali, è sotto l'influsso di allucinogeni, e dimostra uno sconfinato disprezzo per i lavoratori, i giovani, le donne arabe insorti, declassati al rango di milioni di marionette – una sorta di razzismo implicito che porta a ritenere le masse arabe incapaci, per natura, di un'azione politica autonoma.
In realtà i poteri forti dell'Occidente, dopo aver cercato inutilmente di impedire la detronizzazione di Ben Ali, Mubarak e Saleh, hanno fatto l'impossibile per soffocare sul nascere o deviare su binari morti l'iniziativa delle masse scese in campo, d'intesa (un'intesa più o meno conflittuale) con i locali despoti. Nessuno dei poteri capitalistici costituiti nel mondo, né di quelli dominanti né di quelli dominati, aveva alcun interesse a che la grande Intifada proseguisse e si radicalizzasse. Per cui si è saldato nei fatti un fronte unico reazionario dagli Stati Uniti di Obama alla Siria di Assad, che pur lacerato al suo interno da violenti contrasti di interessi, è stato compatto e ferocemente determinato nello sgomberare le piazze arabe da questa presenza indesiderata. Anche a costo di fare a pezzi interi paesi, massacrare gli insorti a decine di migliaia, gremire le carceri, instaurare un terrore più spietato di quello antecedente il 2011. La sconfitta, terribile ma pur sempre provvisoria, di questa insorgenza di massa ha aperto la strada agli impotenti e retrogradi succedanei di essa: il "terrorismo jihadista" e l'Isis. Avversari tanto più facili da battere per i monarchi del mercato mondiale quanto più, appunto, retrogradi nel loro settarismo confessionale e nella loro attitudine verso le donne, geneticamente ostili a mobilitare la sola forza capace di riscattare le classi lavoratrici arabe e "islamiche" dalla loro attuale condizione: la scesa in campo e l'organizzazione di decine di milioni di sfruttati e di sfruttate. Di più: ogni forma di jihadismo connotata in senso settario, come quella dell'Isis, sabota attivamente l'unità degli sfruttati, indispensabile per condurre fino in fondo ed anche solo per far avanzare, la stessa rivoluzione democratica. E si presta, nelle sue dirigenze, ad essere utilizzata per fini reazionari, salvo poi essere schiacciata quando non serva più – in un gioco speculare a quello in cui sono stati coinvolti i curdi, utilizzati contro l'Isis e poi “abbandonati” nello spazio di un mattino.
Perché tutto è ricominciato
Le vittorie a catena del fronte controrivoluzionario non hanno potuto, però, rimuovere le cause di fondo, strutturali e politiche, che avevano generato l'Intifada del 2011-2012. In gran parte del Nord Africa e del Medio Oriente arabo il “blocco dello sviluppo” si è cronicizzato. E perfino l'Arabia saudita, che ha avuto per diversi anni consistenti tassi di crescita, ha conosciuto la recessione nel 2017 ed è stata costretta ad affrontare per la prima volta bilanci statali in forte deficit (-17,2% nel 2016) e a introdurre imposte sui consumi di massa. Nell'insieme la regione resta oggi l'area col più alto tasso di disoccupazione giovanile al mondo e livelli impressionanti di povertà e emarginazione (in Iraq ci sono 4 milioni di disabili, in Siria il 50% della popolazione è emigrato o sfollato). La verticale caduta a metà 2014 del prezzo del petrolio, che per diversi paesi arabi è la prima voce dell'export (per l'Algeria è addirittura il 98% del valore totale), non è stata compensata dalla sua successiva ripresa. E l'avvicinarsi di una nuova recessione non dà ragione all'ottimismo saudita che costruisce bilanci sulla base degli 80 $ a barile, soglia che appare irraggiungibile nel breve-medio periodo. La generale intensificazione della violenza statale dopo il 2011 riflette l'impossibilità dei governi arabi e medio-orientali di fare tangibili concessioni reali alle aspettative della massa dei dimostranti.
Tuttavia neppure usando o ventilando l'uso del terrore è stato possibile imporre alle classi sfruttate e oppresse del mondo arabo un lungo inverno di rassegnazione. Gli anni dal 2012 al 2017 sono stati punteggiati di lotte sindacali e politiche in Tunisia, Marocco, Iraq, Egitto, Giordania. Poi, dal 30 marzo 2018 l'intero mondo arabo ha iniziato di nuovo a ribollire. Il segnale è partito ancora una volta dai palestinesi, mobilitati a Gaza nella “marcia per il ritorno”, che hanno avuto il coraggio estremo di sfidare l'assedio israeliano e lo strisciante genocidio – anche in questo caso l'eco in Italia e in Europa è stata limitata a piccoli circuiti. Dopo qualche mese, il 19 dicembre 2018, è esplosa in Sudan una colossale mobilitazione di piazza che ha decretato la fine di al-Bashir, da trent'anni al comando della nazione. Il 22 febbraio 2019 è iniziato il movimento di protesta algerino, tuttora in piedi al suo 45^ venerdì di mobilitazione, che vuole farla finita, oltre che con Bouteflika (questo l'ha ottenuto), con i suoi eredi e il governo dei militari. Nei primi giorni di ottobre è partito un moto popolare di protesta a Baghdad e nel sud dell'Iraq. Negli stessi giorni in Libano avveniva una vera e propria sollevazione di massa, non inquinata da divisioni confessionali, contro l'intera “classe politica” libanese. Nel mezzo, i partecipatissimi scioperi degli insegnanti in Marocco in lotta contro la privatizzazione della scuola e i processi di precarizzazione, in Giordania, nei territori occupati della Cisgiordania, e in Egitto le animate proteste per la libertà dei prigionieri politici (più di 40.000!, mentre qui si continua a parlare solo di Regeni...). E per un evidente effetto-contagio è seguito in novembre lo scoppio delle proteste in tante città dell'Iran.
In Algeria l'innesco della mobilitazione è stato politico: la pretesa delle cricche militari-affaristiche al potere di candidare l'infermo Bouteflika per un quinto mandato. In tutti gli altri casi, la scintilla è stata invece l'adozione di misure ultra-liberiste con tagli verticali alle sovvenzioni statali sul prezzo del pane, di altri generi alimentari, della benzina e di altri derivati del petrolio, e l'aggravio delle imposte sui consumi. I salari, infatti, sono così bassi che non è possibile gravarli di altri prelievi diretti - solo in Arabia saudita è stato possibile effettuare un prelievo mensile (razziale) di 800 rial pari a 213 dollari sui salari dei 12 milioni di proletari immigrati. Ma in Sudan, Iraq, Libano, la rabbiosa reazione alle nuove tasse (2) si è subito trasformata nella richiesta e nella volontà di farla finita con i rispettivi regimi politici tassa-poveri (qualcosa di analogo alla dinamica delle contemporanee proteste in Centro e Sud America). Anche per questo parliamo del biennio delle rivolte arabe 2018-2019 come di un tutto oggettivamente unitario. Una ripartenza dell'Intifada araba che ha alla base cause comuni, alcune caratteristiche e aspirazioni comuni, senza con ciò poter dare per scontata l'unificazione delle spinte di lotta dei diversi paesi, che anzi è tutta da venire.
I tratti comuni delle sollevazioni del 2018-2019
Ecco alcuni tratti caratteristici comuni delle sollevazioni:
*sono movimenti sociali imponenti, con milioni di manifestanti in Algeria e Sudan, centinaia di migliaia in Libano e in Iraq, decine di migliaia in Palestina e in Iran, espressione quasi ovunque di una forte spontaneità e di autentici processi di auto-organizzazione – per quanto le organizzazioni di opposizione ai governi/regimi contestati siano ovviamente attive in essi.
*Quanto a composizione di classe, sono movimenti sociali variegati, con una fortissima presenza di proletariato e semi-proletariato giovanile, e una notevole partecipazione dei ceti medi professionali (medici, avvocati, ingegneri, giornalisti, etc.) – uniti dalle bandiere nazionali onnipresenti nelle dimostrazioni, ma dagli interessi di fondo distinti e, soprattutto in prospettiva, divergenti, come già si tocca con mano in Algeria e in Sudan.
*Molto forte è la presenza e il protagonismo delle donne, soprattutto delle giovani generazioni, con caratteristiche differenti nei diversi paesi. Particolarmente ampia in Libano e Algeria, dove alcuni gruppi di donne hanno anche presentato specifiche rivendicazioni. Di estrazione sociale più vicina al ceto medio in Sudan (dove è nato un Forum delle donne), mentre in Iraq, dove gli scontri sono stati più sanguinosi e le masse in campo tra le più diseredate, la presenza femminile è notevole nell'aiuto volontario agli insorti (sul piano dell'assistenza medica), e negli scioperi studenteschi e degli insegnanti.
*I moti di protesta rivendicano la fine dei regimi esistenti, politico-militare in Algeria, militare-politico-religioso in Sudan, politico-confessionale in Libano, politico-settario-miliziano in Iraq, la totale liquidazione delle attuali élites al potere che hanno tutte perso legittimità agli occhi di larghissima parte della popolazione in quanto dispotiche, nepotiste, corrotte, al servizio dei ricchi e degli interessi stranieri – in Libano lo slogan ritmato è “Killun, yani killum” (Tutti vuol dire tutti). Vogliono la nascita di regimi civili democratici “a sovranità popolare”, rispettosi dei diritti e dei bisogni delle “classi popolari”, con l'esclusione dei militari dal potere.
*Salvo che in Iraq dove hanno dovuto rispondere ad una repressione sanguinaria, questi moti hanno adottato metodi di mobilitazione fino ad oggi pacifici per evitare di ripetere le terribili esperienze del recente passato - la guerra civile algerina del 1992-2002, con i suoi 200.000 morti, la non meno nefasta guerra civile libanese del 1975-1991, la mattanza siriana, il caos libico, etc.; anche se le sollevazioni non potranno aggirare il nodo della forza e della repressione statale che su di loro incombe – o si è già abbattuta, come in Sudan e in Iraq.
*Pressoché ovunque le manifestazioni esprimono l'aperto rifiuto delle ingerenze straniere. L'Hirak (movimento) algerino è quello che ha espresso con maggior forza questo rifiuto, in due modi del tutto inequivocabili: da un lato la cricca di potere formata dai quadri FLN e dai generali è accusata di aver svenduto il paese e la sua indipendenza ai satrapi del Golfo e alle multinazionali; dall'altro c'è in tutti i cortei il riferimento martellante alla guerra di liberazione nazionale contro la Francia, sotto forma di immagini dei 'martiri', di cartelli, di dichiarazioni, di slogan – uno dei più ripetuti è “i generali nella spazzatura, e l'Algeria conquisterà l'indipendenza” (Istiqlal-indipendenza è tra le parole-chiave dei 45 venerdì di lotta). Un sentimento analogo è presente anche nella mobilitazione libanese, riferito in questo caso ai governanti civili, in particolare ad Hariri, legato a doppio filo ai sauditi. In Iraq è sempre più acceso il rifiuto della presenza delle milizie iraniane, tra le più brutali nella repressione violenta della rivolta, e si accoppia con il rifiuto di lunga data della presenza di truppe, contractor e manager statunitensi. In Sudan è stata duramente contestata la partecipazione di truppe sudanesi alla guerra nello Yemen decisa per compiacere i sauditi, e in generale è respinta l'ingerenza saudita nella vita economica e politica sudanese. In questo quadro generale di aperto rifiuto delle ingerenze straniere, non mancano le contraddizioni: che altro senso avrebbe consegnare al-Bashir alla Corte internazionale di (in)giustizia dell'Aia se non quello di cedere al volere degli USA e delle altre potenze imperialiste primatiste assolute e imbattibili in materia di “crimini contro l'umanità”? che senso ha appellarsi all'Italia da parte di un gruppo di abitanti di Nassiriya contro gli eccidi di dimostranti da parte delle “forze di sicurezza” irachene (così sembra sia avvenuto a metà novembre) se non quello di chiedere al mandante-istruttore di sconfessare gli agenti che ha addestrato esattamente a quel compito?
I passi avanti rispetto al 2011-2012
Rispetto all'Intifada del 2011-2012, ci sono due novità di grandissimo rilievo politico: il minore credito dei partiti islamisti, e la minore o azzerata fiducia nei militari. Non è il caso di dimenticare, infatti, che nel giugno 2013 al-Sisi è salito al potere forte di una vera e propria (e tragicamente errata) investitura popolare dovuta, da un lato, alla fallimentare prova di governo data dai Fratelli musulmani e dall'altro al lascito ancora vivo del nasserismo.
Né è da dimenticare che negli anni '80 e '90 i primi grandi e accreditati collettori del malcontento popolare erano stati, in Algeria, il Fronte islamico di salvezza di Madani e Belhadj, e in Sudan, il movimento islamista di al-Turabi. Questa volta non sono sfuggiti alla generale perdita d'influenza dei movimenti politico-confessionali neanche Hezbollah e il partito di Moqtada al-Sadr. Nelle piazze libanesi ed irachene le proteste sono state animate propri dai settori sociali e “religiosi” di riferimento dei due partiti, e si sono dirette contro i governi sostenuti o composti da essi. Per il sistema di potere degli ayatollah iraniani, poi, le proteste di massa delle scorse settimane, per quanto subito stroncate con centinaia di morti, anche ragazzini di 13-14 anni, e migliaia di arresti, segnano un altro colpo di maglio dato dai lavoratori a una macchina oppressiva già lesionata e screditata dall'insostenibile polarizzazione sociale esistente tra un pugno di ricchi onnipotenti (con e senza le vesti religiose) e 50 milioni di famiglie assediate o minacciate dalla povertà – secondo la denuncia del sindacato della Bus Company di Teheran e dintorni.
Grande novità! Che registra in generale l'inarrestabile processo di laicizzazione della società arabe e medio-orientali, e in particolare il logoramento dell'ipotesi islamista, sia radicale che moderata, una volta che sia sottoposta alla dura prova dei fatti. Centrata anche sotto questo aspetto la denuncia del sindacato iraniano che vede nel governo e nello stato iraniani degli esecutori delle politiche dettate da FMI e Banca mondiale (altro che Corano!): con tanto di programmi di aggiustamento strutturale, privatizzazioni estensive, zone di libero scambio, compressione dei salari, licenziamenti di massa, taglio dei sussidi statali e inflazione, mercificazione del diritto all'istruzione, appropriazione privata delle risorse pubbliche da destinare all'assistenza e sicurezza sociale, stipendi milionari e lucrosi proventi per i clan favoriti e le loro stirpi. Una sorta di remake delle scandalose disuguaglianze sociali dei tempi dello Scià. E per quanto sia impresa ardua battere in demagogia e capacità di manipolazione il clero di ogni confessione, la realtà bussa alle residenze dorate di questi impostori con la sua mano di acciaio. Il tempo loro concesso sta scadendo...
Grande novità, sottolineiamo, in particolare per quei paesi in cui la spaccatura confessionale è stata per decenni un ostacolo pesantissimo all'unità del campo degli sfruttati, come in Libano, in Iraq, nella stessa Algeria e in Sudan. È altrettanto rilevante che in Algeria si siano ritrovati insieme uniti nelle dimostrazioni arabi e amazigh (berberi), sottraendo al gioco del potere e dei poteri esterni che lo puntellano, l'annosa carta coloniale francese della divisione “etnica” - “siamo tutti amazigh”, si è gridato forte ad Algeri. Anche in Sudan Bashir e il suo clan sono stati contestati per aver usato la carta della divisione etnica: “ehi, razzista/i, siamo tutti Darfur”, si è gridato forte a Khartum.
Il catalogo delle buone notizie include l'amplissima presenza e lo speciale protagonismo delle donne nelle sollevazioni, anzitutto delle leve giovanili e studentesche. È vero: erano in piazza anche nel 2011-2012, benché per la stragrande maggioranza delle femministe metropolitane la cosa sia stata allora, al pari di oggi, un non evento. Questa volta, però, l'integrazione delle donne nel movimento di lotta e la forza delle loro specifiche rivendicazioni è stata ancora maggiore, specie in Algeria, Sudan e Libano. Se la cosa si generalizzerà nelle future tornate di questo lungo conflitto, come pensiamo e auspichiamo, saranno cavoli acidi per tutti quei bestioni, arabi ed europei, che si sono dilettati a dileggiare le donne arabe e “islamiche” quasi fossero schiave nate, felici di inginocchiarsi davanti ai maschi da sempre e per sempre.
La reazione dei poteri costituiti, locali e globali
La reazione dei poteri locali ha combinato la violenza terroristica (il terrorismo di stato) con tattiche attendiste per cercare di sfiancare le lotte.
Sui confini di Gaza Israele ha schierato contro la marcia del ritorno un centinaio di cecchini liberi di uccidere a piacimento – per la “comunità internazionale” (dei briganti) ne ha piena facoltà. In Sudan il 3 giugno i militari hanno puntato tutto sul potere dissuasivo di un massacro esemplare (oltre 100 morti in un giorno a Khartum) scatenando contro i dimostranti che assediavano il quartier generale dell'esercito le forze speciali (gli ex-Janjaweed) allenate ai macelli in Darfur. Gli è andata male: davanti all'ingigantirsi del movimento, infatti, hanno dovuto liquidare Bashir e iniziare a trattare. A Baghdad, Nassiriya, Najaf, Karbala, Kut e Bassora il governo iracheno, spesso tramite le milizie filo-iraniane, ha fatto laghi di sangue: centinaia di assassinati e almeno 17.000 feriti, per terrorizzare i manifestanti, i pubblici dipendenti, insegnanti e studenti in sciopero, e stroncare il blocco dei porti e delle raffinerie. Anche in questo caso la forza della rivolta popolare non è stata piegata. Il premier Mahdi ha dovuto rassegnare le dimissioni e la massima autorità sciita irachena, al-Sistani, ha pensato bene di invitare le cricche di profittatori al potere ad abbassare il tiro e indire nuove elezioni – a questo punto, i compiti terroristici sono passati alle milizie filo-iraniane. In Algeria e Libano la posizione dei circoli di governo è stata più prudente e attendista. Anche in Algeria al posto di comando c'è sempre la repressione nella forma di arresti mirati degli agitatori ritenuti più pericolosi, incluso Lakhdar Bouregaa, un veterano della guerra di indipendenza di 86 anni; ma finora senza massacri. Centinaia di arresti con un occhio di riguardo agli amazigh (berberi) additati per essere i fomentatori del “disordine”, “falsi algerini”. In aggiunta, una bella dose di terrorismo propagandistico incurante dei paradossi – i governanti accusati nelle strade di avere svenduto le ricchezze del paese alle multinazionali (italiane, francesi, statunitensi, britanniche, tedesche, russe, cinesi, turche) presenti in forze sul territorio algerino, e ai satrapi del Golfo, si permettono di dare dei “traditori, perversi, mercenari dei francesi” e, per buon peso, omosessuali, ai milioni di dimostranti che si prefiggono di conquistare una nuova e definitiva “indipendenza” dai capitali stranieri. Il movimento non si è fatto intimidire e con la sua imponenza ha decretato l'uscita di scena di Bouteflika e fatto slittare per due volte le elezioni presidenziali. Ora che le elezioni delegittimate si sono tenute, con una partecipazione reale più bassa dell'ufficiale 39%, e l'élite politico-militare-affaristica al potere cerca di dare forza all'eletto Tebboune, sono cominciate le bastonature di massa. Dove? A Orano, città dalla grande tradizione di lotta, nella quale l'affluenza alle urne è stata vicina allo zero. In parallelo si intensifica il clamore intorno al rischio (inesistente) di una secessione degli amazigh. La stessa scena si è materializzata quasi in contemporanea a Beirut, dove a metà dicembre si sono verificati i primi duri attacchi alle manifestazioni, mentre la feccia della nomenklatura nazionalista cerca di dirottare la collera popolare contro i rifugiati siriani e palestinesi, e di rinfocolare le divisioni intra-libanesi su basi confessionali.
Sotto la guida dei loro consiglieri e soprastanti europei, statunitensi, sauditi, qatarioti, russi, cinesi, i potentati borghesi locali si sforzano di uscire dai guai con il metodo applicato nel 2011-2012: liquidare alcune figure-simbolo (Bouteflika, al-Bashir, Mahdi, Hariri) allo scopo di conservare il più possibile intatti gli apparati e i meccanismi di dominio consolidati e rispondenti alle necessità di controllo su tutta l'area dei capitali transnazionali. Le concessioni effettive alle piazze ribollenti sono state finora assai modeste. In Sudan è stato varato un complicato processo di transizione lungo ben 39 mesi verso un potere politico interamente civile (elezioni fissate per il 2022); epperò il controllo delle forze armate sui ministeri-chiave della Difesa e degli Interni resta assoluto, e il loro diritto di veto sulle decisioni del nuovo governo la dice tutta su quanto i generali siano determinati a bloccare ogni effettivo cambiamento. A capo del governo, è stato messo l'economista britannico-sudanese Hamdok, ex-funzionario della Deloitte&Touche, dell'African Development Bank e delle Nazioni Unite, non esattamente un rivoluzionario preso dalla strada. In Algeria lo stallo è totale: solo negli ultimi giorni Tebboune ha aperto un piccolo spiraglio al “dialogo” nella speranza di dividere l'hirak. Una dinamica analoga, ma molto più insanguinata, è in corso in Iraq, dove il premier Mahdi si è dimesso, qualche militare e poliziotto è stato punito per aver sparato ad alzo zero sui manifestanti, ma non è stato preso nessuno dei provvedimenti rivendicati dalle masse diseredate. Spettacolare il testacoda in Libano: per fermare la sollevazione, il governo Hariri è arrivato a promettere la revoca delle misure anti-popolari, il dimezzamento degli stipendi dei ministri, una più forte tassazione dei ricchi e, roba da non credere!, un “contributo” di 3-4 miliardi di dollari del sistema bancario libanese al risanamento del bilancio statale... sennonché, alla fine di un lungo giro dell'oca che ha visto il miliardario Hariri dimettersi da capo del governo, è arrivata la ricandidatura dello stesso Hariri, il bersaglio n. 1, anche se non il solo, della sollevazione. È la prova provata della irriformabilità del sistema di potere esistente – sebbene alla fine il capo dello stato Aoun gli abbia consigliato di farsi da parte (mettendosi dietro le quinte per un po') per incaricare un “tecnico”, Hassan Diab.
Il punto è questo: come ha provato la furiosa reazione contro-rivoluzionaria seguita alle sollevazioni del 2011-2012, il compimento della rivoluzione democratica anti-imperialista nel mondo arabo e in Medio Oriente, un vero, ampio riconoscimento di diritti alle classi sfruttate e la radicale redistribuzione della ricchezza rivendicati da queste sollevazioni, sono in frontale contrasto con la stabilità del capitale globale. A loro volta questi radicali cambiamenti sono in frontale contrasto con il dominio imperialista su questa area strategica del mondo esercitato attraverso élites capitalistiche autoctone, economiche, politiche, militari, confessionali, amministrative, sempre più integrate al capitale globale e separate dalle proprie genti. La democrazia borghese, il welfare restano, ad oggi, lussi esclusivi dei paesi imperialisti. Lussi anche in Occidente tutt'altro che garantiti a prescindere, se solo si tiene a mente l'esperienza del nazi-fascismo (che non è stata una semplice “parentesi”), e i continui giri di vite degli ultimi decenni all'insegna di una combinazione tra politiche di austerità e autoritarismo preventivo e repressivo. Se questo accade in Occidente, figurarsi in Algeria e in Libano, in Sudan e in Iraq! Per non parlare del campo di concentramento di Gaza e della spietata dittatura anti-operaia iraniana.
Del resto, cosa i “nostri” governanti pensino di queste sollevazioni popolari e proletarie lo si può capire dal micro-spazio che riserva loro il sistema dei mass media (istituzionale per definizione). Ciò che prevale di gran lunga è l'ordine di oscurarle, affinché rimanga credibile il mantra secondo cui “quel mondo fermo a 1400 anni fa” non è in grado di formulare alcuna rivendicazione “moderna” che possa riguardare anche la classe lavoratrice e la gioventù italiana e europea. Possono mai mettere in primo piano manifestazioni che smentiscono su tutta la linea la chiave di lettura confessionale (sunniti contro sciiti) spacciata ogni giorno come la fondamentale chiave di lettura di tutti gli avvenimenti arabi e medio-orientali? Manifestazioni che mettono sotto accusa i regimi più ligi al FMI o pronti a piegarsi senza fiatare ai super-padroni del mondo? Sollevazioni che, mettendo in questione i governi amici, mettono al contempo a rischio i grandi interessi economici e militari che l'Italia ha nel Maghreb e nella regione medio-orientale? Tutt'al più si potrà parlare di “uso eccessivo della forza” da parte dei poteri locali, come ha fatto l'ipocrita burocrazia dell'Unione europea, sempre con cura e molta misura, però. E lo si farà solo quando il governante di turno non è sufficientemente gradito e si spera di sostituirlo con qualche personaggio ancor più subordinato del perdente di turno. Ma, parlando in generale: che mille al-Sisi, al-Assad, Soleimani nascano in terra araba e in Medio Oriente! È questa la trasversale preghiera laica che i Mattarella e i Draghi, i Salvini e le Merkel, i Macron e i Johnson fino agli insignificanti figuranti Di Maio e Zingaretti, rivolgono al loro dio denaro con relativi ordini di scuderia per servizi segreti, truppe regolari, truppe mercenarie, managers, esperti, giornalisti e altri tipi di mercenari del “pensiero”. Non per nulla da decenni, quando dalle sollevazioni di massa e dalla lotta anti-imperialista emergono i Ben Boulaid, Ben M'hidi, Amirouche, i Lumumba, i Sankara; e quando dalla lotta di classe del proletariato arabo e medio-orientale nascono intrepidi militanti comunisti della causa proletaria (pensiamo alla leva di giovani marxisti che nei primi anni '80 diede vita al Pcd'Iran); le sentenze di morte vengono comminate e fulmineamente eseguite senza bisogno di processi. Eppure – se gli antagonismi che stanno dietro alle sollevazioni sociali arabe resteranno operativi, e come può essere altrimenti? - neanche la più efferata delle repressioni potrà impedire il ritorno in forze della rivoluzione sociale.
Il cuneo rosso – Pagine marxiste – Gruppo comunista rivoluzionario
Tendenza internazionalista rivoluzionaria
6842