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Salvate la Sanità

Salvate la Sanità

(28 Novembre 2012) Enzo Apicella
Secondo Monti il sistema sanitario nazionale è a rischio se non si trovano nuove risorse

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    Sanità: la falsa quiete prima della tempesta della pandemia.

    Intervista a una ex lavoratrice dell'ospedale Sant'Andrea di Roma.

    (25 Marzo 2020)

    Vi proponiamo una intervista a P.,una ex lavoratrice OSS (operatore socio-sanitario) del Sant’Andrea, grande struttura sanitaria pubblica inaugurata nel 2001 all’estrema periferia nord della città di Roma. La lavoratrice ripercorre con noi le tappe di una mobilitazione che la vide
    protagonista assieme a decine di suoi colleghi e colleghe licenziati dalla Direzione
    dell’ospedale mesi fa. Una lotta in cui non solo le istanze dei lavoratori, ma anche e soprattutto
    la qualità del servizio, sguarnito di questi operatori di provata esperienza e professionalità,
    scontò una sconfitta rovinosa.
    Le parole della intervistata, raccolte diversi giorni prima che la attuale emergenza
    Coronavirus si manifestasse in tutta la sua gravità, assumono nel contesto attuale un
    inquietante significato profetico.

    sant'Andrea

    - Puoi dirci qualcosa che faccia comprendere il contesto in cui lavoravi? Come è strutturato l’ospedale Sant’Andrea? E come era organizzato il vostro lavoro?

    L’ospedale Sant’Andrea è una struttura sviluppata su nove piani in altezza e tre piani sotterranei, per un totale di dodici piani.
    Per ogni metà di piano ci sono 28 letti, per cui dobbiamo moltiplicare i ventotto letti per dodici, moltiplicando poi il risultato per due.. Senza contare il pronto soccorso, il tutto orientato a un bacino di utenza enorme, quattro municipi di Roma e i comuni di una grossa fetta della regione Lazio, anche fuori provincia.

    - E del personale che opera in questa struttura?

    Il numero degli impiegati giornalieri dell’ospedale si attesta intorno alle 1500 unità, ma il numero di medici e infermieri va diminuendo.
    Limitandoci ai lavoratori e alle lavoratrici che animarono la mobilitazione di cui stiamo parlando e che subirono il licenziamento, noi eravamo 43, ma non eravamo tutti OSS: tre lavoratori prestavano servizio nei magazzini, uno al centralino e tre “facevano la notte”, ovvero erano impiegati nella sanificazione dei letti lasciati liberi dai pazienti dimessi o deceduti: lavoro assai importante in un ospedale, visto l’alto numero di pazienti che contraggono infezioni durante il ricovero e debbono poi sottoporsi a forti cure antibiotiche, fatti, questi, che stanno a dimostrare l’importanza delle misure di igiene nei luoghi di cura, e non certo d oggi, in tempi di emergenza da “Coronavirus” (al momento in cui raccogliemmo l’intervista, a fine febbraio, l’”emergenza” riguardava unicamente le “zone rosse” nel nord d’Italia, e le misure di sicurezza pubblica vigenti oggi in tutto il paese non erano neppure ipotizzate, NDR), ma sempre.
    Io ero una OSS, qualifica che accomunava 30 lavoratori e lavoratrici in tutto, tutti con una storia peculiare alle spalle: come gruppo di lavoro siamo “nati” con l’spedale, in cui iniziammo a prestare servizio inquadrati come OTA (i vecchi “portantini”). Due anni fa l’azienda ci comunicò, verbalmente (la prima delle molte comunicazioni informali che avremmo avuto dalla Direzione, mai per iscritto, e ci tengo a specificare ciò perché tale modalità di comunicazione di per sé qualifica il modo di lavorare dell’azienda), attraverso la cooperativa per cui lavoravamo, che per poter continuare a svolgere le nostre mansioni avremmo dovuto qualificarci come OSS. Io personalmente ero già in possesso di tale qualifica, ma molti altri colleghi no, e hanno dovuto affrontare una spesa di 2800 euro per iscriversi al corso propedeutico alla qualifica professionale (cifra ce gli fu rateizzata, ma che andò a gravare su retribuzioni per nulla alte). Pertanto i nostri contratti furono azzerati, come se ci fosse stato un licenziamento collettivo con successiva riassunzione, e da OTA siamo diventati OSS, perdendo una parte del monte-ore complessivo, ma accedendo a un livello professionale superiore, il C2.
    Successivamente l’azienda si rese conto di alcune problematicità: in primo luogo c’erano state troppe proroghe nei confronti della cooperativa da cui dipendevamo; in secondo luogo “gli costavamo troppo” (cosa vera solo in parte, giacché ritengo che i conti non siano stati fatti in modo corretto); infine, gli appalti alle cooperative in questo paese sono illegali dal 2016 . Peccato però che noi fossimo diventati OSS –in seguito a promesse di assunzione con tale qualifica- nel 2018…Il termine “legalità” va tanto di moda di questi tempi, in questo paese, e le forze politiche ne fanno larghissimo uso, pensiamo quanto i riferimenti alla “legalità” sono frequenti nel linguaggio di una forza come i 5S; la prima cosa che mi viene in mente al sentire sbandierare questo termine pubblicamente è che in epoca fascista era “legale” deportare gli ebrei. Ci dissero che eravamo “illegali”, che non era possibile assumerci se non tramite concorso, nello spirito della re-internalizzazione dei servizi pubblici e tante belle parole. Ma tali inviti al rispetto della “legalità” venivano da chi ci aveva spinti a più di una “illegalità”: ad esempio io e i miei colleghi potevamo lavorare fino a 14 ore consecutive, dalle 7.00 alle 21.00, e la mattina successiva essere di nuovo sul posto di lavoro alle sette del mattino. Quando i colleghi infermieri (li definisco “colleghi” perché quando ti ritrovi tutti i giorni nello stesso reparto a lavorare fianco a fianco, i lavoratori di diversa qualifica professionali sono colleghi) ci ammonivano dicendoci che chi fa la “lunga” ha il diritto di uscire prima, che turni di quella durata erano fuori di ogni regola, che la legge pone dei limiti rigorosi alla durata della giornata lavorativa, limiti che hanno il loro senso nel rispetto dei diritti del lavoratore ma anche nelle garanzie e tutele che si debbono all’utente, che tali limiti sono stati pensati e stabiliti dalla legge anche e soprattutto per evitare che un lavoratore troppo appesantito da turni massacranti possa commettere errori, errori che in un luogo di cura potrebbero avere conseguenze gravi o fatali. Alle nostre rimostranze in tal senso, la Direzione dell’ospedale replicava che tali limiti di legge non erano validi per noi, che non dipendevamo dall’ospedale ma dalla cooperativa. Quindi, gli stessi che ci ammonirono con il rispetto della “legalità” erano gli stessi che per anni avevano aggirato la legge, considerandoci non persone, ma “monte-ore”: questo eravamo chiamati ad essere, un “monte-ore” da rispettare lavorando ininterrottamente dalle sette di mattina alle nove di sera, senza neanche il permesso di assentarci dieci minuti per cambiarci di abito, che altrimenti avremmo “frodato” l’azienda di quei minuti. Per i lavoratori “stabilizzati”, anche in seguito a una recente inchiesta del TAR, hanno il diritto a dieci minuti per cambiarsi, in entrata e in uscita.
    Queste situazioni i spingono a pormi alcuni interrogativi: non siamo forse tutti e tutte cittadini e cittadine, lavoratrici e lavoratori dotati degli stessi diritti? Cosa ha permesso a queste persone di aggirare la legge facendoci lavorare come schiavi, che turni di lavoro di 14 ore erano la norma ne l870all’epoca della prima industrializzazione in Italia.? Oggi, è ancora permessa tale pratica?
    Non credo che il problema siano le cooperative, sarebbe troppo facile imputare a queste il malfunzionamento di tutto il sistema, che permette certe cose: faceva comodo a tutti che ci fossero dei lavoratori disposti ad accollarsi turni di tante ore, e che in caso di malattia erano prontamente sostituiti dalla cooperativa responsabile del servizio da noi erogato. La nostra estromissione dall’ospedale ha lasciato scoperti gli infermieri, che infatti hanno iniziato a protestare per i carichi di lavoro amentati in modo insostenibile, portandoli a indirizzare alla Direzione lettere di protesta contro il nostro licenziamento.. Chi in tale situazione ci rimette maggiormente è il malato, l’utente.




    - Prestavate servizio, quindi, in una struttura sanitaria pubblica, ma al tempo stesso dipendevate da una cooperativa sociale. Puoi parlarci del vostro inquadramento?



    Eravamo soci lavoratori di cooperativa, abbiamo pagato tutti e tutte una piccola quota di iscrizione e siamo diventati soci lavoratori.. Ma nessuno di noi “soci” ha mai potuto partecipare a una assemblea, mai percepire un utile. Anche la nostra qualifica di “soci lavoratori” era in realtà un raggiro della legge: per legge avremmo avuto diritto a partecipare a tutte le decisioni, ad eleggere il CDA della cooperativa, e tutto questo non è mai avvenuto, era semplicemente un modo comodo per non definirci dipendenti a tutti gli effetti.
    Il problema non è la cooperativa in sé, ma il sistema di sfruttamento cui siamo sottoposti, un sistema che fa si che, non appena chiediamo di essere “internalizzati” dopo aver prestato per anni il nostro servizio in questa struttura alle condizioni di deprivazione dei nostri diritti che ho prima descritto, ci rispondono che ciò non è possibile.
    In questo “gioco” si inseriscono anche i sindacati confederali, in modalità simili a quelle che si verifica tra i lavoratori della scuola, in cui alcune mansioni come quelle rivolte agli utenti disabili sono di pertinenza delle cooperative, e tale situazione fa comodo a tutti: se piove, l’operatore AEC non riceve la sua retribuzione, così come nei casi di assenza da scuola del bambino che è chiamato ad assistere: l’operatore in tal caso deve tornare a casa perdendo una giornata di lavoro, che non gli sarà retribuita. E tale sistema ha potuto sussistere per molti anni grazie alla connivenza delle grandi confederazioni sindacali.
    L’articolo 36 della Costituzione recita “Ogni lavoratore ha diritto a una retribuzione adeguata alla sussistenza di sé e della propria famiglia”; quando gli AEC delle scuole scioperarono, la risposta della CGIL fu la richiesta dell’aumento di livello: ma l’aumento di livello comporta per legge l’accesso al posto di lavoro attraverso un concorso, e tra quei lavoratori ce ne sono alcuni con la III media, altri di età superiore ai cinquant’anni, e costoro non hanno alcuna possibilità di accedere a concorsi (che, comunque, non si fanno) dopo aver prestato servizio per anni.

    - Quando si sono verificate per la prima volta le condizioni che hanno portato al vostro allontanamento dal posto di lavoro?

    Il passaggio che c’è stato imposto, il passaggio alla qualifica di OSS all’indomani della Legge del 2016, avvenne nel 2018. Nel 2019 i sindacati confederali firmarono un accordo censurabile, che prevedeva la nostra uscita “scaglionata” dall’ospedale e dal posto di lavoro in cambio di alcune garanzie (tutte poi puntualmente disattese). La Direzione dell’ospedale (ancora in via assolutamente verbale e informale) fino all’ultimo giorno di lavoro (31 gennaio 2020) ci assicurò che saremmo stati riassorbiti da un’altra cooperativa mantenendo lo stesso livello e il contratto a tempo indeterminato. Ci siamo ritrovati, invece, demansionati (scendendo dal livello C2 a quello A1) e con contratti a tempo determinato; e c’è stato persino detto che dovremmo ringraziare per la “generosità” che ci è stata elargita.
    Siamo stati riassorbiti da altre strutture, ma non tutti; alcuni di noi, i più deboli sia emotivamente che economicamente, , hanno rinunciato ai nuovi incarichi: ciò che è stato loro offerto era un lavoro di tre ore al giorno in una ditta di pulizie, e ti lascio immaginare quale sarebbe stato lo stipendio; hanno preferito rinunciare per prendersi la disoccupazione.




    - Parlaci della vostra mobilitazione.

    Abbiamo indetto il nostro sciopero nel dicembre 2019, chiedendo il sostegno dei sindacati confederali; questi non ci negarono apertamente il loro appoggio, ma hanno tergiversato a lungo facendoci perdere solo tempo.
    Commettemmo poi l’errore di prestar fede al “padrone”, il quale ci ha presentato egli stesso un “grande” sindacalista, di un sindacato nuovo, territoriale, forse anche di destra, ora non ricordo bene: questi prometteva di fare la voce grossa, di rivolgersi all’Ispettorato del Lavoro, senza dar seguito ad alcuna di queste promesse, anzi, facendo il gioco dell’azienda.
    Una azienda ospedaliera con problemi di bilancio (e che a tutt’oggi non paga gli straordinari ai suoi dipendenti) e che ciononostante non fa che promuovere PO, Posizioni Organizzative, ovvero dirigenti, e ben retribuite; “forse” sarebbe meglio avere meno PO e più infermieri e più OSS, perché un ospedale serve per curare le persone, on come luogo di scambi per favori politici.


    - Quale fu il ruolo delle organizzazioni sindacali nella vicenda? E quali sono stati i vostri rapporti con la Direzione dell’ospedale?


    I rapporti con i sindacati sono stati quelli che ho appena descritto.
    I rapporti con la Direzione dell’ospedale, praticamente inesistenti, nonostante le nostre reiterate richieste di incontri, e solo una volta una nostra piccola delegazione è stata ricevuta, assieme ai delegati sindacali dei confederali e dei COBAS, solo per essere trattati piuttosto male ed accolti dalle parole “Ma non lo sapevate che i termini della questione erano questi?”.

    E con e istituzioni locali?

    Ci siamo rivolti alla Regione, e in quell’ambito hanno finto di darci ascolto, ricevendoci in una unica occasione, in cui un funzionario regionale , alludendo ai numeri della nostra mobilitazione (30-40 lavoratrici e lavoratori), non ha trovato di meglio che osservare “Con tanti problemi di disoccupazione pensate forse che voi, pochi come siete, troverete ascolto?”.

    -Quali sono stati, invece, i vostri rapporti con altre categorie di lavoratori e lavoratrici della struttura?

    Un autentico e sincero attestato di solidarietà lo abbiamo avuto dagli infermieri, i quali con ragione ritenevano che il nostro allontanamento avrebbe avuto gravi ricadute sulle loro condizioni di lavoro e sul diritto alla salute dei pazienti, che sarebbe risultato leso dallo scadimento del servizio dovuto alla erosione di personale.
    Gli infermieri sono stati con noi fin dall’inizio: le loro rime lettere di protesta in merito al nostro licenziamento sono partite dai reparti di medicina, quelli in cui le criticità del lavoro infermieristico sono maggiori. Poi anche i colleghi degli altri reparti si sono uniti alle loro rimostranze, poiché era alta tra gli infermieri la consapevolezza dell’importanza del ruolo di noi OSS nell’ospedale, non come singoli lavoratori, ma come gruppo. Essi intuirono alla perfezione quali sarebbero state le conseguenze del nostro licenziamento sul loro lavoro. Dalle notizie di cui attualmente dispongo, sin dal terzo giorno successivo alla nostra uscita tornarono ad essere indirizzate alla Direzione del Sant’Andrea: si sono ritrovati con un solo OSS ogni due reparti e ogni 56 utenti.

    - Puoi fare un bilancio della vostra mobilitazione, al netto della sconfitta?

    Una sconfitta da cui ripartire: di “piccoli numeri” è fatto l’esercito dei disoccupati, inoltre ciò che accaduto a noi non rappresenta un “caso isolato”, e prevediamo che le stesse dinamiche si ripresenteranno in tutti gli altri ospedali, con effetti rovinosi tanto sull’occupazione, quanto sul servizio erogati ai pazienti.
    Viviamo in una Repubblica “fondata sul lavoro”: dov’è il lavoro!? Siamo stati accusati di non aver voluto partecipare ai concorsi: ma non si fanno concorsi da 30 anni! Non rivendichiamo solo il lavoro come un nostro diritto, ma ricordiamo anche di aver dimostrato sul campo la nostra professionalità e l’importanza del nostro lavoro per il funzionamento dell’ospedale.




    -Con l’esperienza di questa lotta e di questa sconfitta alle spalle, nonostante il fatto di essere stati dispersi, ipotizzando una connessione ancora più stretta tra le vostre istanze e quelle di altri operatori della sanità?

    Almeno da parte di quelli di noi maggiormente politicizzati, al netto delle molte difficoltà, sarebbero ricettivi e disponibili a un tale scenario, mentre altri elementi non lo sarebbero: da questo punto di vista eravamo molto eterogenei. La nostra frustrazione, il nostro dolore nascono dal fatto che, finché ci siamo mobilitati come auto-organizzati, la nostra lotta ha pagato, giungendo a “irritare” la Direzione del Sant’Andrea; mentre nel momento stesso in cui si siamo affidati ad appoggi “esterni” , il livello della nostra attenzione è venuto meno ed è stato il disastro.
    L’auto-organizzazione, il “salto” della mediazione sindacale, si rivela un imperativo per chi lotta sul posto di lavoro, nonostante le difficoltà che comporta.
    L’alternativa è ritrovarsi nelle condizioni che io, tanto per fare un esempio, sto subendo nel posto di lavoro (attualmente ho un contratto a tempo determinato in un altro ospedale, avendo anche dovuto subire la dequalificazione a un livello più basso del precedente): come se qualcuno mi avesse messo un bavaglio, non posso esprimermi né parlare, né rivendicare i miei diritti, di cittadina prima ancora che di ex lavoratrice del Sant’Andrea.
    Quando si parla di salute, sia che ne parli l’OMS, sia che ne parli la Legge 91-08, l’ultima in materia di sicurezza sul lavoro, si fa riferimento alla “salute psico-fisica”, si ripete che il lavoratore deve trovarsi in un ambiente sano, deve “star bene”; invece il lavoratore è continuamente represso, non puoi neanche permetterti di dichiarare di aver diritto a una pausa di dieci minuti per cambiarti di abito. La negazione di questo diritto può sembrare di poca importanza, ma è psicologicamente devastante: ti fa sentire uno schiavo, privo di ogni potere contrattuale. A volta ho proprio la voglia di sbattere la porta e dire: “Va bene, da oggi farete a meno di me”, vorrei essere libera di farlo.

    Ringraziamo la lavoratrice e ci auguriamo di incontrarla ancora in occasione delle prossime lotte.

    Leonardo Donghi

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