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(28 Marzo 2011) Enzo Apicella

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E dopo l’emergenza?

(8 Aprile 2020)

Le misure adottate (o non adottate) da tutti i governi di fronte al dilagare della pandemia di Covid-19 hanno smascherato per l'ennesima volta la vera realtà del modo di produzione capitalistico. Anche questa pandemia, come quelle che l'hanno preceduta nel tempo, ha la propria origine in una struttura di classe, con tutti gli squilibri, le devastazioni, le tragedie che comporta e che non fa che produrre e riprodurre – nell'economia, nell'ambiente, nei rapporti fra individui, nella vita sociale e quotidiana. Di fronte a eventi del genere, da essa stessa originati, la società del capitale e del profitto si dimostra poi incapace di gestirli, di garantire salute e sicurezza alle popolazioni che ne fanno le spese, e in primo luogo alla popolazione proletaria, già di per sé sfruttata e massacrata in più d’un modo: in tutti i paesi, il caso delle strutture sanitarie nazionali andate in tilt a causa dei tagli selvaggi di quelle che per il capitale già in crisi profonda sono spese improduttive è lampante ed eloquente. È infine evidente che le modalità di applicazione delle misure “d’emergenza” hanno risposto e continuano a rispondere a precisi interessi di classe: la produzione e il profitto innanzitutto! Ma di tutto questo abbiamo già detto e scritto [1].
Qui, c’interessa piuttosto tornare a sottolineare e attaccare le violente misure antiproletarie che vengono (e soprattutto verranno) introdotte, fatte passare per “misure d'emergenza nell'interesse di tutti”. Ma “l'interesse di tutti” in una società divisa in classi, basata sulla legge del profitto, della competizione e della concorrenza, NON ESISTE! Basta pensare alla miserabile resistenza e alle criminali manovre con cui padronato e governi hanno svicolato e continuano a svicolare di fronte alle decise rivendicazioni di lavoratori e lavoratrici, scesi spontaneamente in sciopero un po’ ovunque nel mondo, perché gli impianti venissero chiusi, in modo da salvaguardare la salute di chi ci lavora. Interessi di classe, dunque: l'economia capitalistica innanzitutto, il profitto innanzitutto! Ecco la vera, rivoltante violenza di classe, quotidiana, ipocrita, spietata, che il proletariato in lotta dovrà spazzare via una volta per tutte prendendo il potere, strappandolo a una classe dominante ferocemente omicida, oltre che parassitaria e storicamente superflua!
Non basta. Deve essere chiaro che le “misure d'emergenza” introdotte nelle ultime settimane lasceranno la propria impronta anche dopo la “fine dell’emergenza”. In una società divisa in classi, la classe dominante impara dalle proprie esperienze, e non torna mai indietro. Esattamente come passa dal regime liberale a quello fascista quando è necessario contrastare l'“assalto al cielo” dei proletari, e poi di nuovo, quando conviene, passa a quello formalmente democratico, ma in realtà erede nella sostanza dell'esperienza fascista, così essa passerà dal pre-emergenza al dopo-emergenza, portandosi dietro tutta l'ideologia e la pratica dell'emergenza: la sorveglianza e il sospetto, la puzzolente retorica patriottarda e il vomitevole richiamo nazionalista, l'appello all'unità di tutti e la mobilitazione dei “bravi cittadini”, il controllo militare del territorio e la repressione del dissenso... E lo farà con il contributo attivo, propositivo, entusiasta dei partiti di destra come “di sinistra” e di quei cani da guardia anti-proletari che sono i sindacati di regime, impauriti che “la rabbia” possa dilagare [2].
Il ciclo di crisi economica strutturale che ha avuto inizio alla metà degli anni '70 del '900, a chiusura di quello espansivo del secondo dopoguerra, ha continuato a colpire il proletariato internazionale per tutti i decenni seguenti, al di là delle illusorie, momentanee e risibili “ripresine”. Le “ricette” adottate dal capitale in quegli stessi decenni (la finanziarizzazione dell’economia, per by-passare una produzione che, dal punto di vista del saggio medio di profitto, risultava sempre più asfittica; il debito pubblico sempre più bulimico) non hanno fatto che gonfiare bolle speculative destinate di volta in volta a scoppiare, facendo altre stragi sociali. La crisi economica più recente, quella apertasi nel 2008-9, non s'è in verità mai chiusa: ben prima che si diffondesse la pandemia, la recessione in molti paesi non era una minaccia, ma una realtà, e non eravamo solo noi comunisti a dirlo, ma gli stessi economisti borghesi, e lo dicevano con aperta e rivelatrice preoccupazione [3].
Il modo di produzione capitalistico non sta più insieme. Può sopravvivere solo esasperando le sue stesse contraddizioni e preparando un nuovo bagno di sangue, una nuova guerra mondiale: l’unica soluzione finale a esso nota, da cui uscire (se ne uscirà!) per riprendere un nuovo ciclo infernale di accumulazione a un livello ancora superiore e con un ancor più alto tasso di distruttività. La pandemia è sopraggiunta quando la recessione era in marcia in paesi come l’Italia, la Francia, la Germania, e ha dato il colpo di grazia a un'economia mondiale già fragile e traballante, la cui estensione e interconnessione fa sì che un rallentamento, un inceppamento, si riverberino più o meno immediatamente su tutto il globo. Quando poi la pandemia avrà fine, ci saranno solo macerie, come dopo una guerra: e mai come in quest'occasione il linguaggio militaresco è stato il pane quotidiano di politici, economisti, scienziati giornalisti! Bisognerà allora ricostruire! E la politica anti-proletaria riecheggerà (ma, per l'appunto, con un’intensità ancora più feroce) quella della “ricostruzione nazionale” degli anni '50 e '60 del '900. Con la differenza, per l’appunto, che là c’era un’economia in ripresa dopo le distruzioni della guerra; qui, invece, c’è un’economia boccheggiante da anni e anni.
Molte aziende dovranno chiudere e/o drasticamente “ristrutturare”: di conseguenza, s’impennerà la disoccupazione e, insieme a essa, essa procederà a passi da gigante la precarizzazione del lavoro in ogni settore produttivo – altro che gig economy, l’“economia dei lavoretti” su cui tanto s’è ricamato negli ultimi tempi! Ovunque s’intensificheranno i ritmi di lavoro, perché “bisogna recuperare, nell’interesse di tutti”, e con essi aumenteranno i controlli perché “efficienza e produttività devono stare al primo posto” nel dopo-emergenza. Il “regime di fabbrica” (in senso lato: cioè, il tasso di sfruttamento) non potrà che aumentare, in quella che già fin da ora è indicata come “economia di guerra”: sacrifici “per tutti”, sotto il mirino delle “forze dell’ordine” e l’occhio spietato dei droni. La repressione, il controllo a tappeto, i divieti di assembramento, di manifestazione, di sciopero, di picchettaggio, di dissenso si diffonderanno e diventeranno realtà quotidiana per milioni e milioni di lavoratori e lavoratrici. Con essi, cresceranno la manipolazione e la mobilitazione nazionalistiche: il “Siamo in guerra!” che oggi risuona quotidianamente assumerà connotati nuovi – ultra-patriottici, ultra-sciovinisti, ultra-populisti. Si alimenterà così anche la competizione di “tutti contro tutti”, fino alla “guerra fra poveri”, per quel tozzo di pane raffermo che il capitale avrà la grazia di concedere a masse affamate. E così, nella quotidianità delle reazioni indotte, dei rapporti individuali e sociali, s’intensificherà la preparazione del nuovo conflitto mondiale. La disgregazione delle “alleanze storiche”, l’insulsa nullità di strutture come la fantomatica Europa, il ridisegno di confini che la retorica borghese e piccolo-borghese presentava come stabili oppure come ormai superati, non faranno che accompagnare questo spietato processo.
Tutto ciò colpirà chiunque non si assoggetti alla nuova emergenza della ripresa: i proletari messi sempre più alla catena, le avanguardie di lotta, i comunisti. La blindatura della democrazia (il suo carattere di sostanziale dittatura con la maschera ingannevole della democrazia) procederà a passi da gigante, dopo quelli già decisivi compiuti in questi giorni e settimane, in questi mesi e anni e decenni: passi che, nella logica e pratica del capitale, non possono conoscere rallentamenti o arretramenti [4].
A fronte di tutto questo, con sempre maggiore urgenza si pone la necessità reale della rinascita di organizzazioni territoriali di lotta e difesa proletaria, che si facciano carico di tutti gli aspetti del vivere e lavorare nella società del capitale: le condizioni di vita e lavoro nel senso più ampio del termine, dai ritmi e dalla nocività in fabbrica, nei cantieri, sulle strade, nei campi, alla scottante e sempre aperta “questione delle abitazioni”, dagli aumenti di salario alla rivendicazione di un salario integrale pagato da stato e/o padronato per chiunque sia già senza lavoro o il lavoro l’abbia perso, dal crescere delle bollette a quello dei prezzi dei mezzi pubblici. Organismi che si facciano carico di tutto ciò senza discriminazioni o gerarchie in base a età, genere, origine, religione, appartenenza sociale o politica; e che, per estensione e radicamento nella classe (non solo in questo o quel settore d’essa), siano davvero in grado di contrastare l’opera di divisione fra proletari e di sostegno all’economia nazionale svolta in tutti questi decenni dai sindacati di regime: e di farlo assumendosi tutte le responsabilità pratiche e organizzative di veri organismi di lotta, senza bruciare preziose energie proletarie in inutili pseudo-dibattiti teorico-politici o – peggio ancora – nella distruttiva chimera di un “sindacato-partito” o di un “vero sindacato di classe” nato a tavolino, ennesima riproposizione dei mefitici inter-gruppi tipici degli anni ’70. Il procedere stesso della crisi economica, le contraddizioni che essa apre, le conseguenti derive sociali, potrebbero risospingere inesorabilmente i lavoratori di ogni stato imperialista su quel terreno di lotta, costringendoli a darsi nuovamente strutture stabili di difesa, che costituiranno uno dei terreni di scontro tra i comunisti e il fronte variegato del nemico riformista e borghese [5].
Ma questo ovviamente non basta. Nell’arco di ormai un paio di secoli, le esperienze delle lotte economico-sociali hanno dimostrato infatti il limite della loro azione, se esse vengono condotte nella solitudine dello spontaneismo dei lavoratori: da soli, senza l’intervento del partito comunista, non solo i proletari non potranno mai arrivare a un’azione politica (agire cioè come classe per sé, con i suoi propri obbiettivi storico-politici), ma anche rimanendo in questo ambito (cioè come classe in sé, ovvero come mera forza-lavoro del sistema capitalista) cadono facile preda del riformismo, che li sacrifica uno dopo l’altro sull’altare del capitale, peggiorando l’insieme delle loro condizioni generali.
Alla necessità della rinascita di questi organismi di base, s’accompagna dunque l’altra urgente e drammatica necessità: quella del rafforzamento e radicamento internazionale del partito rivoluzionario. È nei fatti stessi del corso del capitalismo, che in questi momenti di emergenza vengono messi tragicamente a nudo, che si fa sentire questa necessità: di un polo, di un punto di riferimento organizzato, che possa far uscire dalle sabbie mobili sia di una “politica” borghese putrefatta come il sistema sociale che rappresenta sia di un riformismo piccolo-borghese intriso di utopia, di illusioni, di fumisterie e ipocrisie.
Ma “sentire” l’urgenza di tale necessità non basta. In troppi, si crede di poter ovviare alla (relativa) assenza del partito rivoluzionario dalla scena storica attuale “costruendolo” come se fosse una casetta del Lego: riunendosi periodicamente intorno a un tavolo con altri gruppi e formazioni, elaborando “piattaforme” e “documenti congressuali” su cui “convergere”, coordinandosi con questo o quel partito o partitino in una riedizione degli “intergruppi” politico-sindacali del tempo che fu, creando fantomatici fronti (popolari?) o bureaux o uffici di collegamento o “tendenze”, resuscitando vecchie sigle o inventandone di nuove, credendo e facendo credere che il partito possa nascere dalle lotte e nelle lotte, dagli organismi di base investiti di una... funzione politico-educativa. Un partito bricolage, insomma, cui ciascuno porta quel che può: il tutto nel disprezzo più completo dell'omogeneità di teoria, principi, programma, e soprattutto nell'indifferenza per un bilancio impietoso di ciò che è stato l'ultimo secolo di storia del movimento operaio e comunista – che è la vera e unica base da cui si deve partire per cominciare a porsi il problema del partito, come fece la Sinistra nel 1926, all'alba della più feroce ondata controrivoluzionaria, consegnando alle generazioni future, con le sue “Tesi di Lione”, il bilancio di un passato di lotte, di trionfi e di sconfitte – ponte necessario lanciato verso il futuro [6]. Il partito non “si costruisce”, esattamente come non “si costruisce il socialismo”: ci si può solo immettere in una tradizione che è ben presente nella storia del movimento comunista per continuare la battaglia, ostinatamente e scomodamente controcorrente – e quella tradizione è la nostra tradizione. Ma, si sa: queste son bazzecole! la crisi incalza, bisogna far presto: costruiamo il partito senza curarci di quel che è stato! Scurdammoce 'o passato!
E, se il partito non “si costruisce”, nemmeno s’improvvisa né s'improvvisa il suo legame (dialettico) con la classe e con le sue lotte. Non s'improvvisa, perché partito vuol dire in primo luogo continuità teorica e pratica di un'organizzazione e, se non si lavora a quella continuità, se non la si difende coi denti, se non la si assicura per altre generazioni (e non come “gruppo di studio”, come “manica di intellettuali chiacchieroni”, di “filosofi in libertà”), quella continuità si spezza, tramonta, non serve più a nulla – restano solo la dittatura dell'ideologia dominante e la repressione statale borghese. Il partito non s'improvvisa, perché l'unica garanzia che ci può essere per la sua capacità di direzione della classe verso la presa del potere e la gestione della dittatura proletaria come obbligato ponte di passaggio verso la società senza classi sta per l'appunto nella formazione dei quadri militanti, nella partecipazione alle lotte proletarie con funzione tendenzialmente critica, direttiva e organizzativa, nell'analisi continua e approfondita dei fatti economici e sociali (non per vezzo intellettuale né per sfoggio o acquisizione personali). Il partito non s'improvvisa, perché la classe lo potrà riconoscere e riconoscere la sua guida (e così facendo riconoscere se stessa come fattore di storia e non più come classe oppressa) solo se l'avrà avuta a fianco nelle proprie lotte, nelle proprie cocenti sconfitte o vittorie parziali, solo se da esso avrà potuto trarre gli insegnamenti di quelle lotte, di quelle sconfitte e vittorie, solo se nei suoi militanti avrà potuto individuare gli elementi che meglio sanno guardare e agire dentro l'oggi e in prospettiva. Domani sarà troppo tardi: e l'esperienza storica, con le sue tragedie legate all'assenza o al ritardo del partito rivoluzionario, ce l'ha insegnato in maniera fin troppo drammatica.
Al lavoro, dunque, davanti a un post-emergenza che promette di diventare un’emergenza continua – fino al suo apogeo: il nuovo conflitto mondiale che si prepara!
[1] “L’uso sociale dell’epidemia”, https://www.internationalcommunistparty.org/index.php/it/357-il-programma-comunista-2020/n-02-marzo-aprile-2020/2693-l-uso-sociale-dell-epidemia
[2] Dichiara il segretario della CGIL nazionale, Maurizio Landini: “non possiamo rischiare di trasformare la paura in rabbia quando il contagio si sta allargando anche sui luoghi di lavoro”, https://www.adnkronos.com/soldi/economia/2020/03/23/coronavirus-landini-maglie-decreto-allargate-aperti-settori-non-essenziali_v1yux8JA4kf5RYT62Vm8lN.html
[3] Si vedano gli articoli “Note sugli effetti pratici e visibili della crisi economica in atto” e “Il virus della crisi”, sul nostro sito www.internationalcommunistparty.org.
[4] Al riguardo, facciamo pure riferimento a un solo nostro testo fra i tanti: “Forza, violenza, dittatura nella lotta di classe” (1946), anch’esso disponibile sul nostro sito: https://www.internationalcommunistparty.org/index.php/it/pubblicazioni-2/66-prometeo/292-forza-violenza-e-dittatura-nells-lotta-di-classe-1946.
[5] Si vedano i nostri opuscoli Partito di classe e questione sindacale e Per la difesa intransigente delle condizioni di vita e di lavoro dei proletari. Forme di organizzazione, metodi e obiettivi di lotta, entrambi consultabili sul nostro sito.
[6] Le “Tesi di Lione” presentate dalla Sinistra al III Congresso del Partito Comunista d’Italia si possono leggere sul nostro sito, alla pagina https://www.internationalcommunistparty.org/index.php/it/pubblicazioni-2/prove1/107-indice-pubblicazioni/indice-testi-basilari-di-partito/751-in-difesa-della-continuita-del-programma-comunista.

Partito comunista internazionale
(il programma comunista – kommunistisches programm – the
internationalist – cahiers internationalistes)

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