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I ricchi

I ricchi

(18 Dicembre 2009) Enzo Apicella
A Copenaghen la 15° Conferenza ONU sul Clima

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    NIENTE SARA' PIU' COME PRIMA?

    (10 Aprile 2020)

    prospettiva marxista

    C’è un motto che, in tempi di epidemia, ormai circola vorticosamente. Spazia dalle pagine dei giornali ai bar virtuali e ai salotti televisivi: niente sarà più come prima!
    L’emergenza coronavirus starebbe plasmando un mondo nuovo, diverso, nuove sensibilità collettive, nuove relazioni sociali, nuovi modelli economici.
    C’è chi prefigura ritorni a valori tradizionali destinati a prevalere sull’arida contabilità pandemica del mercato globale, chi scorge lo sbocciare di diffusi sentimenti di appartenenza comunitaria se non addirittura un rifiorire umanistico. Medici, epidemiologi, virologi catapultati dall’emergenza sulla ribalta mediatica, inebriati dall’improvvisa promozione a star televisive, abbandonano disinvoltamente il solido terreno delle loro autentiche competenze. Per raggiungere lestamente i professionisti della sloganistica sociologica, improvvisandosi (complice il vuoto di una classe politica pavida e degradata) visionari profeti della società che verrà. Non hanno capito nulla dei rapporti sociali in cui sono immersi ma rifilano allegramente il loro verdetto sull’evoluzione dei rapporti sociali futuri. E, quando individuano un ostacolo ad una declinazione palingenetica del “niente sarà più come prima”, in genere se la prendono con i comportamenti irresponsabili dei cittadini che non rimangono a casa, che cedono individualmente alle lusinghe della passeggiata all’aperto, arrivando ad attribuire a questi comportamenti la principale responsabilità per uno sterminio perpetrato ai danni delle generazioni anziane e delle persone fisicamente più fragili. Che l’epidemia richieda ad ognuno una prova di buonsenso e di autocontrollo è evidente. Ma ciò che colpisce è che dalla stragrande maggioranza di questi soloni non provenga mai una parola – dicasi una – contro Confindustria, che ha scatenato tutta la potenza di fuoco della sua influenza sociale e politica per continuare a spedire quotidianamente sul luogo di lavoro, in piena epidemia, milioni di operai e proletari, ottenendo dal Governo una lista di un’ottantina di attività economiche definite “essenziali” e come tali esentate da ogni sospensione. Evidentemente condividono l’ardito giudizio scientifico, espresso da un esponente marchigiano dell’associazione padronale, secondo cui i luoghi di lavoro non rappresentano luoghi di contagio. O forse più prosaicamente la loro ignoranza teorica delle leggi e delle dinamiche della società capitalistica non gli impedisce di riconoscere lo spartito a cui, in questa società, è bene attenersi per continuare, senza troppe noie, a fare carriera e ascolti. Nostro dovere è invece chiarire con la massima fermezza che l’epidemia si è prodotta in una società capitalistica e che non potrà in nessun modo alterare le basi di questa società. Capitalismo era prima del virus, capitalismo è ora e capitalismo ci attende all’uscita del tunnel dei contagi. Si tratta, quindi, solo di ingenue fantasie di improvvisati profeti del sociale, ringalluzziti da un nuovo ruolo nella grande macchina della disinformazione e delle ideologie? Vaneggiamenti dozzinali destinati a spiaccicarsi sul muro della realtà, con l’accompagnamento rituale della tipica formula autoassolutoria: la profezia era bella e nobile ma nulla ha potuto contro il legno storto dell’umanità. Scappatoia tanto più gradita in quanto offre all’oracolo pataccaro l’aura fascinosa del pensatore titanico troppo avanti rispetto alla miseria della propria epoca. Magari fosse solo così. Mentre i suddetti pataccari sermoneggiano, industriali, lobby capitalistiche, frazioni borghesi organizzano con metodo e con cura l’ennesimo assalto alla diligenza delle casse pubbliche, rimpinguate da tempo immemore dai lavoratori salariati. Quegli stessi lavoratori salariati che hanno potuto toccare drammaticamente con mano i costi umani delle “riforme” del sistema sanitario, portate avanti per anni e anni da tutte le multiformi espressioni politiche di una borghesia che oggi si strappa le vesti, pretendendo sovvenzioni e esenzioni su larga scala proprio alla luce di una crisi essenzialmente sanitaria. Mentre i luminari della medicina convertitisi in veggenti e guide della trasformazione sociale, testimonianze viventi dello scandalo della scienza asservita alle logiche del capitale e azzoppata dalle contraddizioni del capitalismo, distribuiscono pagelle e linee guida ad una società assurdamente concepita come un tutt’uno incontaminato da divisioni di classe e interessi conflittuali, racchiusa nella caricatura di un’immensa somma di liberi arbitri e responsabilità individuali, la classe dominante affila il suo arsenale. Non solo per ottenere il clamoroso risultato di continuare a mantenere in produzione masse di salariati nel bel mezzo di una colossale e inedita campagna all’insegna del “tutti a casa” e del distanziamento sociale, ma anche per attrezzarsi a scaricare puntualmente su questi lavoratori anche la massima parte dei futuri costi dell’emergenza. Senza dimenticarsi di aggiungere a questi costi un surplus di ulteriore rafforzamento nei rapporti di classe. Ecco, quindi, che la formula del “niente sarà più come prima” acquisisce oggettivamente, nei fatti, un significato concreto, una funzione effettiva. Può preparare il terreno ai “sacrifici” che ancora una volta ricadranno sul proletariato, può contribuire a quel clima di interessata eccezionalità, di velenoso comunitarismo aclassista, di fronte al quale anche il pur minimo accenno di difesa di classe è stigmatizzato come sussulto egoistico ignaro del mutamento dei tempi. Di fronte a tutto questo ingranaggio sociale, già in moto contro la nostra classe, è nostro preciso compito ribadire, chiarire che alla fine dell’emergenza non c’è alcun arcobaleno sociale. Anzi, un ulteriore inasprimento della condizione di subalternità del proletariato, l’aggravamento di fenomeni di precarizzazione e della condizione di ricattabilità di ampi settori di lavoro dipendente configurano uno scenario che non può essere assolutamente escluso. Se questa fase straordinaria e drammatica comporterà invece qualche sviluppo favorevole, la rivitalizzazione di fermenti preziosi nella prosecuzione della lotta per una società liberata dall’oppressione di classe e dalle catene del capitale, ciò sarà stato possibile solo se il proletariato avrà compiuto un passo avanti, anche uno solo, verso una maggiore consapevolezza della propria identità di classe, della funzione che la lotta di classe riveste nella difesa della propria specifica condizione e nell’affermazione di una più umana esistenza collettiva. La parabola dell’emergenza coronavirus non si risolverà in una riaffermazione, ancora più cruda, dell’ordine capitalistico solo se la classe salariata, almeno nelle sue esperienze più avanzate, avrà fatto tesoro di alcuni aspri insegnamenti di questa fase critica. Solo se saprà scorgere, nel vortice ingannevole della retorica e delle narrazioni della classe avversa, l’agire nemico. Il virus non porta con sé né il trionfo della nazione contro la globalizzazione (al limite si potranno accentuare tendenze pregresse nella spartizione del mercato capitalistico globale) né apocalissi rigeneratrici. Viviamo sprofondati negli orrori del capitalismo e lo rimarremo anche dopo la fine dell’epidemia. La classe che reggeva tutto il sistema già prima dell’epidemia, che è stata scaraventata in massa nella prima linea della produzione durante l’epidemia, deve attrezzarsi, rafforzarsi per affrontare tutti gli attacchi, i colpi, gli inganni, le pressioni che già si preparano per la fase successiva all’emergenza. Quel qualcosa che possiamo sperare possa risultare effettivamente e utilmente modificato è nella possibilità di un avvio della ripresa della capacità di lotta di quel proletariato la cui condizione di sottomissione e insieme di centralità sociale l’emergenza ha drasticamente illuminato. Il resto è ciarpame, e nemmeno innocente.

    Prospettiva Marxista

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