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    Pandemia, prevenzione e fase 2

    Un contributo a firma di Ense

    (5 Maggio 2020)

    Giulio A. Maccacaro

    Giulio A. Maccacaro

    Nell’alluvione di “informazioni” e numeri diffusi dal governo Conte e dai mass media per allarmare o rassicurare, manca sempre un ragionamento sulla prevenzione di questa epidemia e sulla preparazione a contrastarne gli effetti. Già: una scienza medica che si occupi della prevenzione delle malattie e, prima ancora, della preservazione della salute come bene collettivo, sociale … è questa la grande assente. Ma se non vogliamo essere carne da macello, ora che Covindustria e governo Conte hanno decretato la “fase 2” con la riapertura di tutto, dobbiamo tornare ad impugnare quest’arma. E su questa strada andare fino in fondo.

    E dunque, visto che non ne parla nessuno, mentre è questa la questione-chiave, parliamo di prevenzione. E per farlo in modo adeguato, ci avvaliamo del contributo di Giulio Maccacaro, uno degli illustri compagni del passato che sono poco conosciuti, ma i cui scritti sono di strettissima attualità.

    Maccacaro era uno scienziato, un medico, un insegnante, uno dei fondatori di Medicina Democratica, il fondatore della rivista Sapere, che indagava i rapporti tra scienza e potere, e sostenne la necessità del controllo sociale, cioe’ del controllo operaio, dei lavoratori sullo sviluppo della scienza in generale e della scienza medica in particolare.


    In questo articolo toccheremo tre punti:

    - cosa significa prevenzione;
    - come mai non sono state attuate misure di prevenzione di questa pandemia;
    - in una seconda parte dell’articolo, che seguirà, affronteremo quali compiti ci aspettano, come movimenti di lotta e come classe operaia, per candidarci a cambiare il nostro destino anche su questo terreno.

    Vera e falsa prevenzione

    Partiamo dunque dalle parole di Maccacaro che ci aiutano a distinguere tra vera e falsa prevenzione – la citazione è lunga, ma seguitela, si impara!

    «Prevenire, curare, guarire: sono parole importanti che appartengono non solo al linguaggio ma all’esperienza comuni. Intese nel senso corrente hanno in comune il termine di riferimento: la malattia. Si previene un morbo, si cura una malattia, si guarisce da un’infermità.

    Ma è un senso restrittivo e fuorviante: perché orienta l’attenzione sul patologico, distraendola dal sano e tende a concludere entrambi nell’ambito individuale separandolo dal sociale.

    Due operazioni, cariche di implicazioni mediche e politiche, sulle quali conviene preliminarmente riflettere.

    La prima induce a ritenere che sono sani tutti coloro che non sono malati, oltre ad alcuni malati che non sanno di essere sani. Equivale all’affermazione, abbastanza perentoria, dell’oggettività della malattia: la quale esiste in quanto tale cosi come esistono criteri oggettivi che consentono di verificarne o smentirne l’esistenza; la somma di questi criteri definisce il sapere medico del quale, quindi, il sanitario è titolare indiscusso ed esclusivo. Tra lui e l’“altro” c’è un rapporto analitico e non dialettico, se non addirittura impersonale poiché di fatto si pone tra il medico e la malattia alla quale il malato presta un fisico e occasionale supporto, se non vuol essere rimandato come sano, o, in termini meno lusinghieri, come “malato immaginario”. (…)

    Ci sono, infatti, moltissimi modi di essere malati ma uno solo di essere sani: realizzare la pienezza del proprio benessere psicofisico e sociale.

    La prima riflessione apre, dunque, alla seconda. Se prevenzione è promozione e tutela di salute, essa non può concludersi nell’ambito individuale ma deve muoversi e compiersi in quello sociale: cioè l’ambito di vita e di lavoro dell’uomo, là dove egli è in quanto sono gli altri, dove la sua realtà si misura su quella che trasforma, dove la sua identità emerge non da una definizione ma da una molteplicità di interazioni. Prevenire per la salute vuol, dunque, dire coglierne la dimensione collettiva e derivarne corrette indicazioni di analisi e di intervento per quella individuale. Ma vuole anche dire che tale compito deve essere collettivamente assunto; perché, manifestamente, richiede non solo tutta la competenza tecnica disponibile ma anche tutta la volontà politica impegnabile. In quanto investe l’intero assetto sociale, il modo di produzione, l’organizzazione della vita, ecc. ponendo una serie di problemi non delegabili “d’ufficio” o “per via gerarchica” ma gestibili soltanto dalla soggettività collettiva, cioè in modo largamente e autenticamente partecipatorio. (…)

    Per esemplificare ulteriormente il nostro discorso – senza sacrificarne la pertinenza – tratteniamoci brevemente al modello della malattia infettiva che tanta parte ha avuto nella cultura di molte generazioni e tanto ruolo nella dottrina e nella pratica medica oltre che nella gestione politica di entrambe. Sommariamente:

    1. la malattia infettiva è caratterizzata, solitamente, da uno specifico agente (microbo o virus) diagnosticato il quale – dopo l’era dei chemioterapici e l’avvento degli antibiotici – è individuata la terapia causale;
    2. Alla malattia infettiva si addicono – oltre che provvedimenti di natura igienica – misure profilattiche (vaccinazioni) che possono aumentare la resistenza individuale fino a determinarne la immunità;
    3. Le malattie infettive hanno dominato il quadro delle cause di morte, non raramente in misura epidemica, fino ad epoche relativamente recenti, quali la vigilia della seconda guerra mondiale;
    4. All’estinzione delle malattie infettive il sistema produttivo aveva interesse e ne otteneva merito: interesse perché tali malattie, acute ed epidemiche, potevano essere, come furono, perturbatrici del mercato del lavoro cui occorreva per le esigenze del capitale un prevedibile e razionale controllo; merito perché configuravano un impegno dello stesso sistema contro malattie che a una prima ricognizione non ne apparivano determinate ma, se mai, combattute nel vantaggio della salute degli individui e della popolazione.» (1)

    Una osservazione su questo punto 4: è esistita una fase storica in cui il sistema capitalista si è mobilitato per combattere e prevenire le malattie infettive. Oggi possiamo dire che tale fase storica è superata da una nuova fase del sistema capitalista, che è quella in cui viviamo nella quale la produzione in serie di malattie infettive pare essere sfuggita di mano al capitale globale fino al punto da creargli una catastrofe economica come quella in corso (gli “apprendisti stregoni”…).

    Lasciamoci condurre ancora da Maccacaro per capire, ora, cosa sia la (vera!) prevenzione.

    «A questo punto, sempre nell’ambito di un discorso che vuole essere appena introduttivo e assolutamente elementare, è necessario espandere il concetto di “prevenzione” e individuarne, al di là del già detto, la dimensione politica oltre che medica per riconoscere, infine e con argomentata chiarezza, la vera dalla falsa medicina preventiva. S’usa distinguere tre livelli di prevenzione (…):

    - primaria, rivolta ad abbattere gli agenti patogeni;
    - secondaria, intesa ad arrestare la genesi della malattia e
    - terziaria, mirata a limitarne o riparare i danni. In termini non più di malattia, si suole anche dire che i tre livelli indicati corrispondono alla promozione, alla conservazione e alla riabilitazione della salute, ma l’equivalenza è sospettatamente approssimativa.

    Può servire ad evitare approssimazioni fuorvianti riconoscere nella cosiddetta prevenzione terziaria una declinazione della medicina clinica. Non ce ne occuperemo oltre, in questa sede, onde rivolgerci alle altre due per dire che l’aggettivazione che le distingue scolasticamente può essere mistificante scientificamente e politicamente. Mi sembra più corretto riservare il nome di medicina preventiva alla prevenzione primaria e chiamare la secondaria per quello che è: medicina predittiva. Significativamente è questa seconda che ha assorbito la maggior parte degli sforzi – finanziari e … pubblicitari – dedicati, ostentatamente, alla prima.

    Ora il modello sul quale la medicina predittiva – cui ormai corrisponde nella cultura di massa la “diagnosi precoce” – fonda la sua razionalità e lo sviluppo ordinato nel tempo della malattia cui corrisponde un progressivo deterioramento della prognosi da contrastare con un’anticipata sensibilità della diagnosi dalla quale dipende l’efficacia della terapia: soprattutto se la causa è specifica, l’effetto riconoscibile e la cura risolutiva. (…)

    Infine si capisce come oggi occorra, più che mai, una medicina che invece si impegni alla ricerca e alla rimozione di tutte le cause di sofferenza, dovunque e comunque esse siano riconducibili: non soltanto nel germe o nel gene, non soltanto all’interno della sua stretta che spegne nell’uomo la libertà di essere sano e nella medicina la possibilità di essere liberatrice.

    Questa medicina deve essere:

    preventiva nel senso più genuino e intrepido non esaurendosi nella diagnosi precoce di malattie già accettate nel momento in cui sono accertate; promuovendo, invece, e difendendo la salute umana da tutte le offese dell’ambiente di lavoro e di vita fino a piegare queste a quella e non viceversa;

    - sociale nel senso che sappia rivolgere e portare il suo intervento nella comunità reale in cui l’uomo vive, opera e realizza se stesso, senza strappare o ignorare, come da sempre, queste sue radici ma riconoscendovi, anzi, la testimonianza dell’assoluta inseparabilità della salute collettiva da quella individuale;
    - collettiva nel senso che, superando qualsiasi forma presente o imminente del sistema mutualistico burocratico, parassitario e inefficace, dichiari e realizzi l’assunzione integrale da parte della collettività partecipante del diritto di porsi come soggetto, non solo di salute ma anche di sanità;
    - umana nella misura in cui – recuperato il colloquio perduto tra una medicina sempre più oggettivante ed una sofferenza più soggettivata, ricomposti i frammenti di un atto medico denaturato dalla mercificazione e dalla oblazione al potere – restituisca al malato e al medico la loro integrità che li faccia essere finalmente della stessa parte: quella dell’uomo contro il potere, quella del lavoro contro il capitale.»

    Questa indicazione è tuttora fondamentale per capire come dobbiamo pensare, e quanto dobbiamo lottare per lo sviluppo della salute collettiva, sociale. Nel prossimo paragrafo parleremo delle responsabilità di sistema e di quelle della politica ufficiale, ma non dobbiamo mai dimenticare che la rivendicazione di un ruolo attivo per la salute pubblica ci riguarda come responsabilità di classe, sia che siamo o che non siamo operatori sanitari.

    Troppo spesso si è infatti pensato di avere assolto al compito della critica di classe limitandosi a classificare la medicina come “medicina ufficiale”, denunciando il ruolo delle multinazionali del farmaco, o ribellandoci al ruolo normalizzatore della psichiatria così come la utilizza il capitale. Tutto giusto, intendiamoci, ma insufficiente.

    Troppo spesso siamo stati disattenti al fatto che le misure attuate dalle diverse amministrazioni pubbliche, sia centrali che regionali, hanno messo in difficoltà migliaia di operatori sanitari che talvolta si sono saputi organizzare e hanno posto in discussione il potere politico che li stava umiliando e distruggendo nella loro dignità di soggetti sociali e politici, chiudendo ad esempio i piccoli ospedali ed eliminando i loro posti di lavoro. Ma queste resistenze sono state lasciate sole, come se le questioni da loro poste fossero questioni “corporative” e secondarie, e non riguardassero invece l’insieme dei lavoratori. La politica sanitaria degli ultimi decenni è stata una politica organica volta ad affermare anche in questo campo l’assoluto primato del profitto e ad espellere la prevenzione, quella vera!, dalla realtà del sistema sanitario, e perfino dalla discussione pubblica.

    Come mai non sono state attuate misure di prevenzione di questa pandemia

    Se si tiene presente ciò, non sorprende che le strutture sanitarie italiane (e la quasi totalità di quelle europee, per non parlare poi degli Stati Uniti) sono arrivate allo scoppio dell’epidemia totalmente impreparate. Eppure il fenomeno non solo era prevedibile, era anche largamente previsto; addirittura esiste da più di un decennio un Piano nazionale di preparazione e risposta ad una pandemia influenzale che è stato pubblicato sul sito salute.gov.it nel 2007, sito del Ministero della Salute (2), che lo presenta in questo modo:

    «Dalla fine del 2003, da quando cioè i focolai di influenza aviaria da virus A/H5N1 sono divenuti endemici nei volatili nell’area estremo orientale e il virus ha causato infezioni gravi anche negli uomini, è diventato più concreto e persistente il rischio di una pandemia influenzale.

    Per questo motivo l’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) ha raccomandato a tutti i Paesi di mettere a punto un Piano pandemico e di aggiornarlo costantemente seguendo linee guida concordate.

    Il Piano nazionale di preparazione e risposta per una pandemia influenzale, stilato secondo le indicazioni dell’OMS del 2005, aggiorna e sostituisce il precedente Piano italiano multifase per una pandemia influenzale, pubblicato nel 2002. Esso rappresenta il riferimento nazionale in base al quale saranno messi a punto i Piani operativi regionali.»

    Il piano si articola in 75 pagine; qui ci limitiamo a dare conto solamente di poche tra le indicazioni che conteneva, al fine di far capire di cosa stiamo parlando.

    «L'obiettivo del Piano è rafforzare la preparazione alla pandemia a livello nazionale e locale, in modo da:

    1. Identificare, confermare e descrivere rapidamente casi di influenza causati da nuovi sottotipi virali, in modo da riconoscere tempestivamente l’inizio della pandemia
    2. Minimizzare il rischio di trasmissione e limitare la morbosità e la mortalità dovute alla pandemia
    3. Ridurre l’impatto della pandemia sui servizi sanitari e sociali ed assicurare il mantenimento dei servizi essenziali
    4. Assicurare una adeguata formazione del personale coinvolto nella risposta alla pandemia
    5. Garantire informazioni aggiornate e tempestive per i decisori, gli operatori sanitari, i media ed il pubblico
    6. Monitorare l’efficienza degli interventi intrapresi. (…)

    L’operatività del Piano sarà valutata con esercitazioni nazionali e regionali, cui parteciperanno tutte le istituzioni coinvolte in caso di pandemia. Il presente Piano è suscettibile di periodiche revisioni, al cambiamento della situazione epidemiologica.»

    Il piano prevedeva quali erano i lavoratori da tenere in particolare considerazione e a cui garantire una protezione rinforzata, identificando:

    «… 6 categorie, elencate in ordine di priorità:

    1. Personale sanitario e di assistenza (…)
    2. Personale addetto ai servizi essenziali alla sicurezza e alla emergenza (…)
    3. Personale addetto ai servizi di pubblica utilità (…)
    4. Persone ad elevato rischio di complicanze severe o fatali a causa dell’influenza (…)
    5. Bambini e adolescenti sani di età compresa tra 2 e 18 anni
    6. Adulti sani». (…)
    7. Erano previste anche una serie di misure per il trattamento e l’assistenza, tra cui le seguenti:

    «In fase interpandemica e di allerta è cruciale mettere a punto le procedure per garantire un razionale accesso alle cure, in modo da ottenere l'uso ottimale delle risorse:

    - Censire la disponibilità ordinaria e straordinaria di strutture di ricovero e cura, strutture socio-sanitarie e socio-assistenziali, operatori di assistenza primaria, medici di medicina generale, pediatri di libera scelta, medici di continuità assistenziale e specialistica ambulatoriale
    - Censire le strutture di ricovero e cura dotate di dispositivi per la respirazione assistita
    - Definire i livelli delle strutture dove i pazienti dovrebbero essere idealmente trattati durante una pandemia (primarie, secondarie e terziarie, incluse le unità di emergenza e cure intensive)
    - Determinare il triage ed il flusso dei pazienti fra strutture sanitarie a vari livelli
    - Individuare potenziali luoghi alternativi per le cure mediche (ad es. strutture socio-sanitarie, RSA, scuole, ambulatori, etc.)
    - Definire i criteri per la sospensione di ricoveri programmati e la resa in disponibilità di posti letto aggiuntivi (…)
    - Individuare le misure di supporto non di tipo sanitario, quali l’incremento dei permessi per assistenza ex-L.104/92, i servizi di assistenza domiciliare (conferimento pasti /spesa), il riconoscimento di permessi lavorativi a volontari
    - Mettere a punto piani di emergenza per mantenere i servizi sanitari ed altri servizi essenziali (…)
    - Avvio delle procedure per reperire fondi finalizzati all’acquisizione di farmaci e dispositivi di protezione da utilizzare in caso di pandemia. (…)
    - Costituire, previo censimento dell’esistente, una riserva nazionale di: antivirali, DPI (Dispositivi di protezione individuale), vaccini, antibiotici, kit diagnostici e altri supporti tecnici per un rapido impiego nella prima fase emergenziale, e, contestualmente, definire le modalità di approvvigionamento a livello locale/regionale nelle fasi immediatamente successive»

    Di documenti simili a questo abbiamo certificazione per tutti i paesi occidentali oggi più colpiti: maggio 2006 per gli Stati Uniti, aprile 2009 per la Spagna, 2014 per il Regno Unito.

    Il compito è stato fatto, come da scolaretti che dovevano obbedire ad un ordine: perché non è stato messo in pratica?

    Chiariamo subito, ad onta di equivoci: se fosse stato dato seguito a quanto è stato scritto, parleremmo di operatori sanitari adeguatamente addestrati e dotati delle protezioni necessarie a non infettarsi, con la conseguenza che sarebbero morte migliaia di persone in meno perché le strutture a rischio sarebbero state adeguatamente attrezzate, con importanti benefici per tutti noi. Ci veniamo dopo.

    Prima, però, cerchiamo di capire una cosa: è questa la vera prevenzione di cui parlava Maccacaro? La risposta è: No. Qui siamo nel campo della medicina predittiva, cioè della prevenzione secondaria, con indicazioni per la successiva prevenzione terziaria, volta a limitare e riparare i danni. Ribadiamo il concetto: con “medicina predittiva” si intende quella attività della conoscenza medica volta a chiarire che “data la esistenza delle condizioni concrete X, allora si verificherà Y”.

    Il documento del Ministero contiene solo deboli accenni alla prevenzione di primo livello, cioè alle indicazioni politiche strategiche volte a rimuovere le cause che possono portare allo sviluppo di una pandemia, che l’Organizzazione Mondiale della Sanità, l’OMS, induce ad inserire nel documento. Anzi, per essere precisi, ce n’è solo una degna di nota:

    «c. Integrare le informazioni epidemiologiche umane e veterinarie – definire ed attuare il flusso informativo per integrare la sorveglianza epidemiologica e virologica sull’uomo con quella in ambito veterinario – identificare gli allevamenti animali (per specie) in cui gli operatori potrebbero essere sottoposti a sorveglianza speciale, e provvedere ad un censimento degli operatori stessi – definire i protocolli di sorveglianza epidemiologica e virologica ad hoc tra gli esposti ad influenza animale»
    Qui sembrerebbe esserci qualcosa che ricorda la prevenzione primaria: cercare di agire, intervenire vicino alle cause. Eppure, se osserviamo bene, non è così. Non si parla – neanche a dirlo! – di risalire alle cause delle epidemie; ma non si parla neppure di cambiare radicalmente le condizioni per cui gli operatori della sanità potrebbero essere sottoposti a rischi. No, le condizioni sembrano date ed immutabili, e gli stessi lavoratori, al massimo, devono essere “sottoposti a sorveglianza speciale” per capire se si ammalano e se possono diventare portatori di contagio. Per complicità o per impotenza, l’OMS non si occupa di indicare i metodi affinché i lavoratori della sanità possano fare il loro lavoro in sicurezza: le condizioni di lavoro sono imposte dal capitale, non sono oggetto di discussione da parte di questo tipo di “scienza”. Il lavoro comporta il rischio di ammalarsi in quelle date condizioni che sono accettate come un dato di natura, e non sono perciò oggetto di analisi e soluzione, perché farlo implicherebbe dei costi cui i padroni non possono sottomettersi a causa della “competizione internazionale”, e via di questo passo. Noi lavoratori possiamo e dobbiamo morire per la loro ricchezza; l’importante è che la nostra morte non sia fonte di contagio per un numero eccessivo di persone. Il lavoratore, in ogni caso, non è un soggetto, e non può diventare partecipe della prevenzione. Tutt’al più può essere sorvegliato.

    Questo è il linguaggio dei padroni, della classe dominante (3); e l’OMS parla il linguaggio delle classi dominanti e si rivolge alle classi dominanti (4). Eppure neppure i “tecnici” dell’OMS sono stati ascoltati: perché?

    (Continua)

    (1) Cfr. Giulio A. Maccacaro, Per una medicina da rinnovare. Scritti 1966-1976, Feltrinelli, 1979, pp. 319-326. In alcuni casi le sottolineature sono nostre.

    (2) Il primo è stato pubblicato il 10 febbraio del 2006, ma quello cui facciamo riferimento è del 13 dicembre 2007, che potete trovare in forma integrale all’indirizzo http://www.salute.gov.it/imgs/C_17_pubblicazioni_501_allegato.pdf

    (3) Figurarsi se un documento del genere poteva fare cenni sulla necessità di vietare la ricerca e lo sviluppo di armi batteriologiche.

    (4) Forse è per la sensazione di impotenza determinata dal rendersi conto di essere stati messi da parte anche da parte dell’establishment che Tedros Adhanom Ghebreyesus, direttore generale dell’OMS, spiegava l’11 marzo 2019 in un’intervista a Repubblica: «Il pericolo di una nuova pandemia influenzale è sempre presente. La possibilità che un nuovo ceppo si trasmetta dagli animali all’uomo e causi una pandemia è più che mai reale. La domanda corretta quindi non è se avremo mai un’altra pandemia, ma quando». Tentava la carta dell’opinione pubblica (per scrupolo di coscienza? per senso di impotenza?), ma i mass media si sono ben guardati dal fare una campagna martellante in proposito, e l’opinione pubblica non se ne è neppure accorta.

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