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    Pandemia, prevenzione e prospettive di lotta (II)

    Seconda parte del contributo a firma di Ense

    (11 Maggio 2020)

    per una medicina da rinnovare

    Quando la scienza diventa una questione di classe

    Dobbiamo rispondere ad una domanda lasciata in sospeso : perché i governi, gli stati, a cominciare dai governi e dallo stato italiano, non hanno fatto una politica di prevenzione per la pandemia che sta infettando il pianeta, e in vista della quale già da anni erano stati approntati – sulla carta – dei piani di intervento?

    La risposta non può che essere questa: perché i costi per la prevenzione o per i relativi lavori di cura non producono profitto (plusvalore diretto), o – almeno – non ne producono abbastanza da soddisfare la brama di profitti della classe capitalistica, e rappresentano perciò solo un costo passivo.

    Pensiamo alle mascherine contro il Covid-19: quando le mascherine costavano prezzi esorbitanti (dato che il governo Conte aveva consentito ogni tipo di speculazione senza muovere un dito), se tu avessi risparmiato sull’acquisto per proteggere dal virus tua madre, saresti stato considerato un reietto, una persona meschina; ma se “tu” sei il proprietario di una azienda, è logico – secondo la logica spietata del profitto – che al di sopra di una certa cifra tu non possa spendere per proteggere operaie ed operai che lavorano per te.

    Pensiamo alla questione della ArcelorMittal (ex Ilva) di Taranto e paragoniamola allo stare in casa con un motorino acceso.


    Se un ragazzo abitasse in una casa grande a sufficienza per poterci fare dentro qualche giro in motorino, e lo avesse fatto veramente quando tutti dovevano stare chiusi in casa per il Covid-19; e se a causa di questo suo divertimento, fossero morti i suoi nonni per le esalazioni di monossido di carbonio, sicuramente a quest’ora sarebbe in prigione. Se invece un imprenditore compra una azienda che avvelena, fa ammalare e uccide la popolazione nelle vicinanze a causa dei gas emessi dalla stessa e non fa nulla per cambiare la situazione (sarebbero necessari 1,3 miliardi per abbattere pressoché totalmente l’inquinamento), che fa lo stato? Lo mette in galera o lo costringe a spendere il necessario? No, neppure per idea: sospende l’applicazione delle leggi per permettergli di “dare lavoro” ad alcuni “cittadini”, e morte ad altri (magari i figli dei primi, o loro stessi). È appunto quanto succede con l’acciaieria di Taranto, l’Arcelor Mittal.

    Come vediamo, la legge non ci ripara dagli assassini della nostra salute e della nostra vita.

    Talvolta lo fa, ma solo quando abbiamo avuto sufficiente forza per imporglielo. Del resto non è lontanissima l’epoca in cui il Re aveva potere di vita e di morte sui suoi sudditi. Oggi, se sei un Re moderno, cioè il padrone di una multinazionale, hai potere di vita e di morte sui tuoi dipendenti o anche sulla popolazione di una intera città.

    Il principio di legalità è relativo. Molto relativo.

    Facciamo un altro esempio: se tu sei proprietario di un coltello che hai piantato nella pancia di una persona che è morta, se ti prendono, vai in galera.

    Se invece sei l’affidatario di un ponte che lasci crollare per provata, prolungata incuria (sempre per ridurre al massimo i tuoi costi, e massimizzare i tuoi profitti) come il ponte Morandi di Genova e provochi la morte di 40 persone, non ci pensano neanche a venirti a prendere. Perché, anche se dovevi provvedere alla manutenzione e non l’hai fatto, è logico (?!), sempre secondo la logica del capitale, che tu-capitalista sia sostanzialmente al di sopra della legge, e non abbia la responsabilità diretta del fatto.

    Ritorniamo ora ai concetti che abbiamo richiamato nella prima parte di questo articolo.

    Prevenzione primaria: rimuovere le cause che scatenano pericoli, i rischi di infezioni, di infortuni, di malattie. È possibile, ma costa molto, e non rende a chi si arricchisce comprando e usando forza-lavoro.

    Prevenzione secondaria: costa decisamente meno, e rende decisamente di più; ma – in alcuni campi – non rende abbastanza (non rende, ad esempio, quanto produrre macchinari per gli ospedali o vaccini), ed è per questa ragione che la produzione di mascherine, guanti, prodotti per sanificare, è stata spostata in Cina, o in altri paesi in cui la forza-lavoro costa molto meno.

    Dal punto di vista sociale, è un controsenso portare lontano la produzione di prodotti funzionali alla difesa della salute, ma dal punto di vista del capitale la cosa ha moltissimo senso, perché il costo del lavoro in Cina è, tuttora, molto più basso che in Italia (anche se molto meno di un tempo, grazie alle lotte dei lavoratori cinesi).

    Inoltre, addestrare medici, infermieri e popolazione contro il rischio di pandemia era ed è perfettamente possibile, ma comporta costi, senza nessun guadagno immediato.

    C’è, quindi, totale antagonismo tra la nostra logica e quella dei padroni. Il punto di vista di chi è costretto a vendere la propria forza lavoro per vivere, gli operai, le operaie, i lavoratori salariati in genere, comporta una visione delle cose, e quindi anche della difesa della salute e della prevenzione delle malattie, che coincide con gli interessi della popolazione non sfruttatrice più in generale.

    Dal punto di vista dei padroni, dei capitalisti, del capitale, invece, è impossibile tenere conto dell’interesse di tutta la popolazione.

    L’interesse del capitalista è privato, individuale, contrario e opposto all’interesse “di tutti”. Il singolo capitalista, del resto, non è libero di fare questo o quello, è vincolato – dalle leggi ferree della produzione capitalistica – alla ricerca del massimo profitto.

    L’interesse della classe operaia, invece, coincide oggettivamente con quello della salute intesa come bene pubblico, di tutte e tutti.

    La lunga lotta della classe operaia per una medicina a protezione della popolazione

    In Italia il servizio sanitario nazionale è stato istituito con la legge 883 del 1978 dopo una lunga fase di durissime lotte sociali che quasi sempre non compaiono quando si va a ricercare in rete le notizie relative alla sua nascita.

    La lotta operaia in difesa della salute dei lavoratori e della popolazione non data certamente dagli anni ’70 di questo secolo. Basti un solo esempio estratto da un passato abbastanza remoto per mostrare quanto da lontano venga questa lotta, e come essa abbia, in certa misura, condizionato anche la scienza medica, costringendo una parte, pur minoritaria o estremamente minoritaria di essa, a porsi a fianco delle lotte operaie.

    Parliamo del traforo del San Gottardo, realizzato tra il 1872 ed il 1882.

    Come lavoravano gli operai dell’epoca?

    «…gli operai erano per il 94% piemontesi, lombardi, veneti, toscani più per un altro 3% trentini, che allora erano sudditi austriaci. Solo due su cento erano svizzeri. E c’è da capirlo. Il lavoro era infatti bestiale.

    I nostri operai sul versante di Göschenen nel cantone di Uri, come sarà spiegato giorni dopo al Congresso del Canton Giura dell’Associazione internazionale dei lavoratori, «chiedevano che le 24 ore giornaliere fossero ripartite non più fra tre, ma quattro squadre, ognuna delle quali avrebbe quindi lavorato 6 ore: 8 ore consecutive nel baratro buio e soffocante del tunnel, in mezzo a un fumo che tappava gli occhi, era un compito al di là delle forze umane». (…)

    Quel 27 luglio, dopo l’ennesimo incidente, i poveretti scesero in sciopero. La reazione, racconta Remo Griglié (già direttore de «La Gazzetta») in un saggio rimasto purtroppo inedito, fu durissima: l’ingegner Ernst Der Stockalper, ricevuta una delegazione dei minatori, «ascoltò le confuse e balbettanti lamentele sul clima, sull’aria irrespirabile, sui ritmi forzati di lavoro, sulle paghe inadeguate. “Avete ragione. Qui la vita è dura e probabilmente ingiusta. Chi non se la sente di continuare, non ha che da andarsene. Passi dalla cassa e sarà liquidato. Chi, invece, desidera continuare a lavorare con noi, torni subito al suo posto. Subito”. Girò i tacchi e uscì».

    Umiliati dalla risposta, i minatori decisero di picchettare l’ingresso alla galleria. «Italiani! Se volete esser rispettati, rispettate pure la volontà d’altrui. Lasciate liberamente passare ognuno per la sua strada, al suo lavoro, altrimenti vi trovate in grave urto colle leggi della libertà!», ordinò il sindaco. E siccome Louis Favre, l’imprenditore che aveva vinto l’appalto impegnandosi a consegnare il tunnel entro la tal data per non pagare penali stratosferiche, trovava resistenze a far intervenire l’esercito o la polizia, Ernst Der Stockalper mandò alla direzione della società un telegramma: «I minatori sono in sciopero e bloccano i lavoratori. Inviate 50 uomini armati e 30 mila franchi».

    Poche ore e i miliziani assoldati dalla società, armati di fucili e pistole, erano sul posto. Respinti a sassate al primo assalto con le baionette, spararono. Lasciando sul terreno quattro morti — Costantino Doselli, Giovanni Merlo, Salvatore Villa e Giovanni Gotta — e decine di feriti. La «rivolta dei “regnicoli”», come chiamavano sprezzantemente gli italiani sudditi dei Savoia, finì lì. Molti italiani tornarono sconfitti e licenziati a casa, molti restarono, rassegnati al ricatto e alla violenza. «L’italiano è molto spavaldo quando tiene lui il pugnale in mano», ironizzò il giornale «Basler Nachrichten», «ma diventa molto incerto non appena si trova di fronte la forza». L’ordine era ristabilito.[1]

    Di fronte ai picchetti operai di oggi, risuonano le stesse parole del sindaco svizzero dell’epoca:

    “Se volete esser rispettati, rispettate pure la volontà d’altrui. Lasciate liberamente passare ognuno per la sua strada, al suo lavoro, altrimenti vi trovate in grave urto colle leggi della libertà!”

    Che poi, è sempre e solo la libertà del padrone di imporre le sue condizioni.

    Tuttavia la resistenza operaia lascia sempre una traccia di sé. Vediamo:

    «Nel 1880, durante i lavori, si scatenò tra gli operai una epidemia di anchilostomiasi. Questa forma di anemia divise il mondo medico, anche con un aspro dibattito sulla sua diagnosi e cura. Fu un docente dell’Università di Torino, Edoardo Perroncito (1847 – 1936, che dal 1879 assunse la cattedra di Parassitologia, la prima istituita in Italia, evento, che sancì la nascita della parassitologia come scienza a sé), a scoprire l’origine della malattia (il verme Ancylostonia duodenalis che si sviluppava negli ambienti umidi e si annidava mortalmente nel duodeno umano) e a collegarla a quella che colpiva i minatori in altre parti del mondo (salvando così la vita a migliaia di malati in Italia ma anche in altre zone minerarie europee, in Francia, Belgio, Germania, Ungheria). Nacque così la nozione di malattia professionale»[2].

    Forse Perroncito non era un compagno; certamente, però, aveva quella caratteristica di un certo tipo di medico che vede insito nel suo lavoro un senso di responsabilità sociale percepito come irrinunciabile.

    Tanto è che:

    «Qualche anno dopo, nel 1888, partirono gli scavi per un altro traforo ferroviario, quello del Sempione. Perroncito riuscì a convincere le autorità a inviare sul posto, come ufficiale sanitario, un giovane medico di sua fiducia, Giuseppe Volante.

    Questi, man mano che prendeva forma la comunità dei minatori, che arrivarono anche a fondare con le loro famiglie una vera e propria cittadina, Balmalonesca, oggi disabitata da tempo ma ancora visitabile, si ingegnò a prevenire in tutti i modi la comparsa dell’Ancylostoma, a partire dalle selezioni degli operai, in cui scartò chiunque sembrasse affetto da parassitosi, fino alla costruzione di impianti sanitari molto moderni con docce e bagni con spogliatoi riscaldati.

    Il risultato fu che, durante i lavori di scavo del Sempione, l’infestazione da Ancylostoma ebbe un’incidenza bassissima, e i pochi malati furono tutti prontamente curati. Volante s’impegnò, insieme a un parroco, a un sindacalista e a un direttore didattico provenienti da paesi vicini come Varzo e Iselle, anche ad abituare gli operai (molti dei quali erano migranti provenienti dal Sud Italia) a rispettare le norme igieniche in casa e a mandare i figli a scuola. Passò tanto tempo nelle gallerie ad assistere i lavoratori, e alla fine si ammalò come loro di insufficienza respiratoria per via delle troppe polveri respirate, malattia per cui sarebbe poi morto nel 1936, a 65 anni. »[3].

    Dunque è esistita e può esistere una medicina che si sviluppa accanto alla classe operaia in lotta [4]. Ed è un tipo di medicina che la classe al potere combatte ogni giorno con ogni mezzo, come scriveva Maccacaro:

    «La formazione del medico appare in larga parte funzionale a questo disegno che pone il sapere medico in una posizione di compromissione con la logica che domina il modo di produzione e l’organizzazione della società. In tale senso l’università funzionerebbe come una “fabbrica di consenzienti” dove vengono fornite informazioni, anzi nozioni, avulse dal contesto della medicina reale che inevitabilmente ha sempre più luogo nel territorio, fuori dall’ospedale. Di conseguenza tali nozioni [ossia la gran massa delle nozioni che ricevono gli studenti di medicina – n. ] risultano inutilizzabili, e servono soprattutto a spegnere il senso critico e ad alienare il futuro medico alla accettazione passiva dei dati “tecnici” forniti dai docenti e del falso mito della neutralità della scienza “pura” spacciata come indiscutibile obiettività. Un insegnamento quindi che produce un medico completamente estraneo alla realtà sociale in cui andrà a operare, ma perfettamente omologato alla logica di una corporazione orientata al profitto e assolutamente funzionale alla classe dominante. (…) Sembra in sostanza che l’insegnamento medico, pre- e post-laurea, sia davvero capace di produrre di tutto: dal propagandista farmaceutico al cardiologo… Ma un medico di base capace di inserirsi utilmente in una comunità urbana o rurale, di averne cura, di intenderne i problemi di malattia e difenderne il diritto alla salute, non c’è corso di laurea o scuola di specialità che lo produca. Non sarebbe un medico, ma qualcosa di più; e questo qualcosa di più, non glielo si può concedere di essere.»

    Sono passati più di 40 anni, e la descrizione di Maccacaro regge perfettamente davanti alla realtà della medicina di stato di oggi. Quella che si è fatta trovare totalmente sguarnita, come le autorità statali e regionali, davanti all’avvento di una epidemia non solo prevedibile, ma addirittura – nelle sue linee generali – attesa. E se i medici hanno lasciato sul campo finora più di cento morti, lo devono anche al loro consenso, al loro asservimento ad una politica sanitaria anti-operaia, anti-popolare. Sicché è decisamente apprezzabile che uno tra loro, Mirko Tassinari, segretario dei medici di base della provincia di Bergamo, abbia saputo formulare verso le autorità regionali e nazionali l’accusa di “strage di stato” – un’accusa che i mass media di regime hanno accuratamente silenziato. Ma, diciamolo senza giri di parole, la possibilità che si determini una critica radicale, che vada alla radice dei problemi, alla sanità di classe, alla medicina di classe corresponsabili dell’attuale disastro, la sola possibilità che si arrivi preparati alla successiva ondata di questa epidemia o all’arrivo di altre epidemie del genere, è legata esclusivamente alla ripresa d’iniziativa e di lotta della classe lavoratrice su tutti i terreni e anche su questo. Basta di delegare la salute e la vita a “specialisti” al corrente di tutto salvo l’essenziale: come prevenire le malattie sui luoghi di lavoro e nella società. Basta con la soggezione nei loro confronti. Come lavoratrici e lavoratori della sanità e di tutti i settori di attività dobbiamo affermare con forza la necessità di cambiare radicalmente strada, e riappropriarci dell’autentico sapere scientifico. Solo con questa determinazione, di cui abbiamo già dato qualche prova sia con gli scioperi spontanei che con gli scioperi e la auto-messa in quarantena nella logistica, potremo incidere anche sulla parte più sensibile del campo medico e avvicinarla alle necessità della classe cui apparteniamo. Il che significa, in fin dei conti, alle necessità di preservazione della vita.

    Per realizzare questo, per noi non ci sono spese eccessive o quantità di lavoro che debbano essere risparmiate, è questa una nostra fondamentale priorità.

    Perché:

    «Ci sono (…) moltissimi modi di essere malati ma uno solo di essere sani: realizzare la pienezza del proprio benessere psicofisico e sociale.»[5].

    In conclusione, una conclusione che va ben oltre l’immediato, ben oltre la scienza medica, ben oltre le politiche sanitarie, e implica la rivoluzione sociale:

    “La scienza (…) è null’altro che un modo di essere del potere o meglio è comprensibile e leggibile solo nell’ottica della dialettica dei poteri. La borghesia ha fondato a un certo punto della sua nascita, una nuova scienza per abbattere il potere feudale e la scienza è stata allora liberatrice nella misura in cui ha posto, nei confronti di un potere egemone (in quel momento storico era il potere feudale), la domanda di potere di un’altra componente sociale che veniva nascendo e che era la borghesia. La borghesia, naturalmente, ha poi utilizzato e continua più che mai a utilizzare la scienza come strumento della sua conservazione; così fa ogni potere che tende a conservare se stesso. Ora, se questa è l’operazione che ha fatto la borghesia, questa è l’operazione che dovrà fare il proletariato, e cioè a sua volta il proletariato dovrà fondare una nuova scienza per abbattere il potere borghese”. [6].

    I nostri compiti immediati

    Dove troveremo le risorse per realizzare il nostro programma immediato di lotta?

    Ragioniamo:

    «In meno di 20 anni in Italia la quota di ricchezza nazionale detenuta dal 90% meno benestante della popolazione si è ridotta dal 60 al 45% del totale. Mentre il 10% più ricco ha accresciuto la sua parte fino al 55%. In questo grande ‘travaso’ di patrimonio il top della classe agiata, l’1% degli italiani, ha visto salire la sua quota parte di circa cinque punti percentuali superando il 20% del tesoro privato complessivo. I dati si riferiscono agli anni dal 1995 al 2013 e confermano come il nostro Paese abbia conosciuto, come gran parte del mondo sviluppato, un’impennata delle diseguaglianze sociali.»[7].

    Il SI-Cobas sta promuovendo il “Fronte Unico di Classe” [8], una modalità attraverso la quale la stragrande maggioranza della popolazione, i 54 milioni di meno benestanti, possa obbligare i 6 milioni di super-ricchi a restituire parte di ciò che è stato accumulato grazie al lavoro della maggioranza sfruttata.

    Per farlo, è necessario costruire il punto di riferimento attorno a cui riorganizzare le forze di classe e i movimenti sociali, e attraverso il quale si vada ad imporre a quel 10 % della popolazione la restituzione del 10 % della ricchezza espropriata in questi anni alla classe lavoratrice; lo si può fare in modo semplice già attraverso un atto di questo stato che imponga una tassazione straordinaria sui grandi patrimoni, la famosa patrimoniale di cui si sente parlare (male…).

    Tanto per cominciare e non perire, per resistere alle devastanti conseguenze di questa doppia crisi.

    Verrà il momento in cui sapremo trasformare quella proprietà privata in mano ad una minoranza, in un bene sociale collettivo, espropriando integralmente gli espropriatori, e riappropriandoci di una prospettiva di vita che valga la pena di essere vissuta.

    ***

    Questo scritto è in memoria di Costantino Doselli, anni 20, Giovanni Merlo, anni 26, Salvatore Villa e Giovanni Gotta, anni 25, quattro operai “regnicoli”, assassinati in Svizzera il 27 luglio 1875 dalla milizia di Göschenen per conto della società ginevrina di proprietà di Louis Favre, vincitrice dell’appalto per la costruzione della galleria ferroviaria del San Gottardo – assassinati per avere protestato contro le orribili condizioni di lavoro. Mai dimenticare chi ci ha aperto la strada!

    P. S. – Preveniamo la critica di qualche saccente “ultra-internazionalista” (nella sua immagine di sé stesso), dicendo che sappiamo molto bene che la rimozione delle cause generatrici di questi sciami di virus che attraversano il mondo pretende una lotta internazionalista contro il capitale globale. Lo abbiamo così bene a mente che stiamo lavorando a rafforzare concretamente i legami internazionali tra i lavoratori.

    Note

    1) Cfr.: https://www.corriere.it/cultura/16_giugno_04/traforo-gottardo-tunnel-inaugurazione-galleria-1a4f969e-2a68-11e6-9c68-4645b6fa27fd.shtml?refresh_ce-cp

    2) Cfr.: http://www.meteoweb.eu/2015/05/accadde-oggi-la-medicina-del-lavoro-nata-sotto-il-san-gottardo/448595/

    3) Cfr.: https://www.vanillamagazine.it/la-lotta-all-ancylostoma-il-parassita-killer-degli-operai-nei-trafori-alpini-italiani/

    4) Che, per esempio, sia in grado di mostrare «L’interesse per la tutela della donna al lavoro inizia agli albori della Medicina del Lavoro e si protrae per tutto il secolo, fornendo una visione eccellente del ruolo che la donna ha occupato nella società produttiva. Il titolo di una lettura ad un recente Congresso (di antinfortunistica)“La fabbrica al femminile…” credo che sia sufficientemente eloquente; infatti senza fare della donna sul lavoro una eroina, gli autori prendono in giusta considerazione le osservazioni espresse con rigore e autorevolezza da parte di medici del lavoro, sociologi, psicologi, economisti etc. che evidenziano come problematiche storiche quali l’assenteismo femminile,il surmenage derivante dal doppio lavoro e dalle eventuali gestazioni, il lavoro retribuito e non etc. (…)». Cfr.: http://www.educatt.it/libri/ebooks/C-00000231.pdf

    5) Stralci dell’articolo di Giulio A. Maccacaro, Per una medicina da rinnovare. Scritti 1966-1976, Feltrinelli, 1979.

    6) Cfr.: Giulio A. Maccacaro, in “L’uso di classe della medicina”, Modena, 25 febbraio 1972.

    7) Cfr.: https://www.avvenire.it/opinioni/Pagine/disuguaglianza-in-italia-il-sorpasso-dei-superricchi

    8) Cfr.: http://sicobas.org/2020/04/27/italia-per-un-patto-dazione-mozione-di-sintesi-delle-due-assemblee-nazionali/

    pungolorosso.wordpress.com

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