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IL PANE E LE ROSE - classe capitale e partito
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IL DRAMMA LIBANESE

(13 Agosto 2020)

libano alberi

Gli effetti delle esplosioni che il 4 agosto hanno devastato il porto di Beirut hanno ulteriormente posto sotto tensione gli equilibri di una specifica realtà capitalistica e accentuato i suoi conflitti, le sue contraddizioni, le tendenze all’aggravarsi di determinate fragilità. Va chiarito, da subito, un dato di fondo.
La società libanese ha sempre più maturato nel tempo i tratti di un capitalismo ad alto tasso di parassitismo. Non c’è la benché minima sfumatura morale in questa constatazione. Il tratto parassitario, improduttivo, di una componente sociale, di un’attività, è dato dalla sua relazione con il capitale. Il concetto di parassitismo è del tutto interno alle leggi e alle dinamiche del capitale, è relativo alla mancata generazione di plusvalore e ad un’esistenza, all’interno del quadro capitalistico, resa sistematicamente possibile dal consumo di plusvalore altrove e da altrui generato. Quella che, non senza una buona dose di retorica, era stata battezzata la “Svizzera del Medio Oriente” è arrivata ad una condizione critica: all’esile struttura produttiva (che si riflette anche in un marcato disavanzo nelle partite correnti e nell’importazione della massima parte del fabbisogno alimentare, in un settore industriale minimo rispetto all’ipertrofia dei servizi e di un impiego pubblico improduttivo) si sono aggiunte le difficoltà del settore bancario, preminente nell’economia libanese e con una cruciale, per il complessivo quadro sociale, funzione di attrazione e di raccolta di plusvalore. Questa realtà capitalistica dai marcati tratti parassitari si è, inoltre, incastonata nel crocevia di molteplici direttrici, proiezioni e influenze imperialistiche e di potenze regionali. Due versanti, questi, che si sono alimentati a vicenda e che si sono intrecciati nel precipitare della crisi libanese. Una crisi da parassitismo nel punto di snodo di un quadrante nevralgico del confronto imperialistico globale. Non sorprende, quindi, che l’aggravarsi delle vulnerabilità di fondo di questa specifica conformazione capitalistica abbia posto in fibrillazione tutta la complessa architettura politico-istituzionale che si è sviluppata essenzialmente sulla spartizione di quelle leve e di quei canali, sempre più precari, di appropriazione e redistribuzione del plusvalore prodotto in gran parte al di fuori del quadro libanese. Come non sorprende che lo svolgersi della crisi abbia chiamato sempre più apertamente in causa nessi e legami tra il quadro libanese e potenze esterne.
I giorni immediatamente seguenti la catastrofica esplosione non solo non hanno posto tra parentesi l’intenso gioco di influenze e di rivalità tra potenze intorno al Libano, ma lo hanno persino reso più palese. Il presidente francese Emmanuel Macron, primo capo di Stato straniero a giungere in Libano e a recarsi sui luoghi della catastrofe, è intervenuto direttamente sul delicato tema degli assetti del quadro politico libanese, ribadendo platealmente il ruolo e le ambizioni che storicamente l’imperialismo francese ha rivestito e perseguito nel Paese dei cedri. Parigi si è posta, inoltre, alla guida di una conferenza internazionale di donatori nel deciso tentativo di assumere un ruolo di punta nella gestione e nel controllo dei flussi e degli interventi economici, con tutto ciò che questi possono comportare in termini di influenza politica. La Turchia non ha voluto farsi distanziare, inviando una delegazione con a capo il vicepresidente e il ministro degli Esteri e proclamando la propria volontà di partecipare alla ricostruzione del porto di Beirut. Una tragedia con centinaia di vittime e centinaia di migliaia di sfollati può rappresentare un’occasione ghiotta nel gioco spietato dell’imperialismo.
La funzione di cassaforte del Medio Oriente ha fatto la fortuna e la tragedia del Libano. Ha permesso la formazione di dinastie di miliardari, fondate non di rado sul selvaggio sfruttamento di lavoratori e lavoratrici stranieri, ma ha concentrato al contempo tensioni e campi profughi. Ha consentito un meccanismo di ridistribuzione della rendita su scala statale, ma ha alimentato incessantemente la lotta intorno ad esso, generando un gigantesco e ammorbante sistema clientelare. Uno Stato guidato in gran parte da una borghesia dagli accentuati tratti rentier, storicamente adusa a destreggiarsi nel groviglio dei rapporti di potenza della regione alla ricerca di un surplus di forza a beneficio del proprio interesse particolare di frazione, di raggruppamento etnico o religioso, anche a scapito del processo di formazione di una compiuta dimensione nazionale, non poteva che spalancare praterie alle sistematiche intrusioni e ingerenze di attori regionali e globali. A loro volta, queste presenze hanno messo profonde radici, condizionando pesantemente il divenire dell’assetto borghese del Libano.
Nei giorni seguiti all’esplosione hanno ripreso vigore le proteste di piazza legate al deterioramento della condizione economica di vasti strati sociali. La retorica profusa a piene mani dai mass media borghesi nel panorama internazionale ha frettolosamente tratteggiato una situazione che vedrebbe un’indistinta massa popolare in rivolta contro i palazzi del potere, contro l’insieme della classe politica, accomunata nella condanna di un intero sistema di corruzione e favoritismi. A parte il fatto che migliaia di persone in piazza per giorni, in grado di fronteggiare le forze di polizia, non possono essere l’esito solo di un’improvvisa spinta spontanea, scevra dall’azione organizzatrice di forme di coordinamento e nuclei direttivi. A parte il fatto che la narrazione del “popolo” contro i “potenti” si è rivelata puntualmente una misera copertura ideologica di ben più complesse dinamiche politiche e sociali già in una formidabile sequenza di casi, dall’Egitto alla Libia e all’Ucraina. A parte tutto questo, la domanda fondamentale che occorre porsi nel seguire lo sviluppo delle proteste libanesi è se sia possibile e riscontrabile una spinta borghese volta a superare la frammentazione e la profonda segmentazione del quadro politico e istituzionale per guidare l’approdo ad una compiuta dimensione nazionale contro tutte le forze particolariste e i loro legami con le potenze esterne. O, in alternativa, se sia possibile e riscontrabile una spinta proletaria in grado di imprimere al movimento di protesta il segno di una classe capace di sottrarsi a pervasivi meccanismi spartitori e particolaristici e di imporre una radicale riscrittura dell’assetto politico nazionale come la borghesia libanese non si è rivelata in grado di fare. In entrambi i casi, non si può tacere la presenza di notevoli ostacoli e difficoltà al concretizzarsi di queste opzioni. Il precipitare della condizione economica del Libano e l’aggravarsi della crisi del suo assetto politico derivano proprio dall’assenza o dall’estrema debolezza di una forza borghese proiettata a dare corpo alla prima opzione. Difficile immaginare che da un deteriorarsi della situazione economica, a cui si collega la crescente fragilità degli equilibri e dei meccanismi di ripartizione dei poteri pubblici, in un quadro complessivo segnato dalla molteplice e pesante ingerenza di capitalismi stranieri, possa scaturire nel breve una spinta borghese capace di porsi realmente il compito di ripulire le stalle di Augia del mondo politico della stessa borghesia libanese. Ma la specifica conformazione del capitalismo libanese, i suoi specifici limiti e la sua debolezza produttiva, militano al contempo contro l’opzione di un proletariato sufficientemente forte per imporre il proprio autonomo segno ad un movimento di protesta interclassista e massicciamente caratterizzato da componenti borghesi e parassitarie finite ai margini o maggiormente penalizzate da un sistema di ripartizione di cui hanno fatto a lungo pienamente parte. Tutt’altro che residuale, quindi, è l’ipotesi che la protesta assuma sempre più i connotati di un’azione di alcuni segmenti, a guida borghese, della società libanese in lotta per una ricomposizione del sistema in termini ad essi maggiormente favorevoli, di una protesta rivolta in realtà non contro l’insieme del mondo politico ma contro alcune sue componenti. La storia di quella che spesso è definita superficialmente come una partitocrazia settaria sospesa su una generica oppressione popolare e avvolta nella tela di torbide e minoritarie relazioni clientelari, lasciando in ombra il percorso di formazione di quella che è la specifica realtà borghese in Libano e i suoi nessi con il circostante quadro regionale ed imperialistico, si potrebbe rivelare, quindi, tutt’altro che prossima ad esaurirsi. Semmai potrebbe conoscere un nuovo capitolo di lotta per una ridefinizione. In quest’ottica, appare chiaro come l’autonomia di classe – anche nei termini di analisi di una dinamica storica in divenire, di consapevolezza del rischio di subordinarsi a forze sociali nemiche e della necessità di emanciparsi da ingannevoli miti e accattivanti illusioni – costituisca, in Libano e non solo, un’acquisizione di vitale importanza.

Prospettiva Marxista

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