">
il pane e le rose

Font:

Posizione: Home > Archivio notizie > Comunisti e organizzazione    (Visualizza la Mappa del sito )

Che Guevara

Che Guevara

(10 Ottobre 2008) Enzo Apicella
41 anni fa veniva assassinato dagli sgherri dell'imperialismo Ernesto Che Guevara

Tutte le vignette di Enzo Apicella

PRIMA PAGINA

costruiamo un arete redazionale per il pane e le rose Libera TV

SITI WEB
(Memoria e progetto)

Tutti pazzi per Keynes…

Di pieffe (con due parole del Lord ai suoi adulatori di sinistra)

(4 Settembre 2020)

John Maynard Keynes

John Maynard Keynes

Un re taumaturgo (*) ha stregato gran parte dell’extra-sinistra italiana: John Maynard Keynes. Intendiamoci: fra coloro che si ritengono portatori di un “progetto di sinistra”, di una “alternativa di classe”, di una “trasformazione radicale” della società (espressioni che da tempo sostituiscono il riferimento diretto alla rivoluzione e all’abbattimento dello Stato borghese, concetti non spendibili con facilità, specie in vista “delle necessarie aggregazioni elettorali”), ben pochi si riferiscono esplicitamente all’opera e alle ricette di questo economista come al proprio evangelo.

E tuttavia oggi la maggioranza di coloro che si pretendono comunisti, e che quasi sempre alla critica del capitalismo prediligono le invettive contro “il liberismo” o “l’ordoliberismo”, hanno da tempo scelto il keynesismo come l’orizzonte strategico entro cui collocare la propria azione politica. E identificano le soluzioni e gli elementi programmatici di una ipotetica azione di classe, o almeno i suoi “primi passi”, proprio a partire dal modus operandi di quella che per lunghi anni è stata la politica ufficiale dei principali Stati capitalistici.

Togliatti, togliattismo e “democrazia progressiva”


Una tale dipendenza è del tutto spiegabile, se consideriamo le tradizioni politiche da cui la maggior parte degli attuali “comunisti italiani” discende – tradizioni politiche tutte saldamente incardinate nella collaborazione di classe, nella rivendicazione della “democrazia progressiva”, nella lunga marcia dentro le istituzioni borghesi, a partire dalla glorificazione della Costituzione della Repubblica borghese post-fascista, che avrebbe avuto il merito di rappresentare la forma politica nuova entro cui poteva e doveva darsi l’emancipazione della classe operaia. Il togliattismo, insomma, come adattamento dello stalinismo alle condizioni italiane, e radice comune di tanta parte delle “opposizioni” oggi esistenti.

In effetti, finita la guerra, Togliatti e il suo “partito nuovo” identificarono con lucidità, fino a codificarla nelle tesi dell’ottavo congresso, una strategia “realistica”, praticabile nelle condizioni dell’epoca, di graduale riforma del capitalismo (le famose “riforme di struttura”). Nel quadro della subordinazione del proletariato agli interessi generali della borghesia (a partire da quello centrale di ricostruire il suo Stato e rilanciare l’accumulazione capitalistica), questa strategia prevedeva che, grazie all’ingresso del sistema in una nuova fase espansiva, ne potesse derivare un miglioramento nelle condizioni di lavoro e di vita della classe lavoratrice e un “allargamento della democrazia”.

Nei fatti lo sforzo fatto per “inserire elementi di socialismo” nella struttura economica e nell’apparato istituzionale dello Stato, come si esprimeva il PCI ancora negli anni ’70, non è stato altro che un fiancheggiamento conflittuale dell’azione che il governo nazionale centrato per decenni sulla D.C. svolgeva a livello generale; un fiancheggiamento operato sia “dal basso” con iniziative di lotta, che dalle posizioni para-istituzionali che i riformisti andavano conquistando, dagli enti pubblici alle autonomie locali.

Dal boom alla crisi: il fallimento del keynesismo


In campo economico, tale azione, portata avanti dall’Italia al pari dei maggiori centri capitalistici, viene in genere qualificata come “keynesiana” e, a stare agli adulatori del Lord, avrebbe conosciuto il suo massimo splendore negli anni del boom economico. In realtà a condurre la danza in quel periodo non furono “le politiche keynesiane”, fu la ripresa dell’accumulazione capitalistica seguita alle distruzioni belliche, sulla base del super-sfruttamento del proletariato, fatto di bassi salari, disoccupazione persistente, emigrazione interna, incremento dei ritmi, repressione padronale fuori e dentro le fabbriche, ecc.

Se anzi assumiamo come tratto caratteristico di tali politiche il deficit spending, notiamo che la crescita del debito pubblico e/o l’avvio della dinamica inflazionistica prendono corpo in modo consistente non negli anni dello sviluppo, ma proprio in quelli della crisi: l’inflazione “galoppante” è degli anni ’70 e l’esplosione del debito avviene negli anni ’80. In entrambe le fasi, il keynesismo ha fatto bancarotta. Nella prima, l’inflazione non ha certo permesso l’avvio di un circolo virtuoso, divenendo invece un serio problema per i capitalisti, nella forma della stagflazione, cioè la compresenza di inflazione e stagnazione economica. Nella seconda, la crescita del debito pubblico, lungi dall’essere riassorbita dall’ipotizzato successivo incremento del prelievo fiscale, si è aggravata sempre più. Il fatto che la borghesia abbia abbandonato le politiche preconizzate dal Lord di Cambridge per riorganizzare la propria azione dietro le bandiere del monetarismo di Friedman non va certo letto, come avviene spesso all’interno del movimento e delle “opposizioni di sinistra”, alla stregua di un cambio di paradigma, la scelta di un “modello” differente fondato sull’esclusione, anziché sull’integrazione, del lavoro salariato. Una tale visione è totalmente idealistica e intrisa di soggettivismo, perché capovolge il rapporto di causa ed effetto che guida l’iniziativa delle classi dominanti. Non è la scelta di un diverso paradigma che spiega l’inasprimento dell’attacco padronale e statale alla classe lavoratrice; al contrario, esso va spiegato con la necessità per la classe capitalistica di venire a capo, con altri strumenti, di una crisi profonda e persistente. E’ di fronte a tale crisi che la cassetta degli attrezzi keynesiana ha fatto fallimento, e la classe dominante, nel suo procedere pragmatico sulla base delle sollecitazioni provenienti dal sottosuolo economico-sociale, ha dovuto abbandonare il vecchio modo di agire, dando una netta sterzata al suo operato. Il keynesismo, dunque, ha fallito, proprio laddove avrebbe dovuto mostrare la sua validità: condurre il sistema capitalistico fuori dalle secche della crisi e permettere la ripresa economica. Del resto, anche gli USA uscirono realmente dalla Grande Depressione iniziata nel 1929 solo con il riarmo e la guerra più che col New Deal rooseveltiano. Perfino i keynesiani più impenitenti, che hanno riproposto quello schema all’indomani della crisi del 2007-2008 e di quella attuale ancora più devastante, sono costretti ad ammetterlo, cercando di spiegarlo con il fatto che le politiche espansive, allora, vennero interrotte troppo presto e non poterono così dispiegare la loro efficacia.

Le ipotesi di Keynes e la funzione del keynesismo

Senza dubbio, la cosiddetta rivoluzione keynesiana ha permesso alle classi dominanti di affinare i propri strumenti di intervento, ma non ha certo fornito loro la ricetta magica per mettere il sistema al riparo delle insanabili contraddizioni che lo animano, tanto meno, sul piano teorico, è stata in grado di superare o integrare l’analisi marxista, secondo l’interpretazione di una parte dell’economia accademica “di sinistra”. Sostanzialmente inutili, o quanto meno inessenziali, nelle fasi di sviluppo dell’accumulazione, quando si limitano ad affiancare il funzionamento spontaneo del sistema, le politiche keynesiane svelano la fallacia dei propri presupposti quando il processo di accumulazione mostra la corda. L’argomentazione analitica di Keynes, in opposizione alla dottrina classica del laissez-faire, può infatti riassumersi grossolanamente così. Il capitalismo, lasciato a se stesso, non tende affatto ad uno stato di equilibrio in cui siano massimizzati i benefici, cioè la completa utilizzazione dei fattori produttivi, con la piena occupazione, ecc. Al contrario, a mano a mano che l’economia si sviluppa, cala la propensione al consumo e cresce quella alla liquidità, cioè una parte crescente del reddito viene risparmiata e non viene spesa. La conseguenza è che investimenti e consumi, cioè la domanda effettiva che si presenta sul mercato, diventano insufficienti ad assicurare il volume della produzione necessario a garantire la piena occupazione. Perché ciò avvenga, è dunque necessario un intervento dello Stato, una domanda pubblica aggiuntiva che colmi il gap e permetta di superare la strozzatura. Per fare questo, lo Stato deve attivare una spesa in deficit che, facendo crescere la domanda aggregata, raggiunga lo scopo di riattivare il meccanismo produttivo. La ripresa economica, poi, avendo come conseguenza naturale la crescita del prelievo fiscale, permetterebbe di riassorbire il deficit e ripristinare l’equilibrio di bilancio.

Tralasciando molte altre cruciali questioni, è importante sottolineare che un tale intervento, se è in grado di agevolare il funzionamento dell’economia in caso di crisi congiunturali, non può sollevare il sistema da una crisi di ampia portata, che non si origina per una carenza di domanda sul mercato, ma chiama in causa i meccanismi della valorizzazione, la tendenza storica alla caduta del saggio di profitto, e necessita, per il suo superamento, che vengano ripristinate condizioni capaci di adeguare il livello del plusvalore estorto al proletariato alla massa del capitale già accumulato. La “rivoluzione keynesiana” dunque ha innovato effettivamente la politica economica dei governi, perché ha permesso il definitivo superamento delle rigidità del loro operato in materia di ortodossia di bilancio, accompagnando la lenta transizione del sistema monetario e finanziario a base aurea in direzione di quello scaturito dagli accordi di Bretton Woods (dove l’imperialismo britannico in declino, rappresentato proprio da Keynes, fu costretto a cedere alla soverchiante potenza di quello yankee) e, infine, dell’attuale. E’ in questa trasformazione che risiede il motivo del perché anche i monetaristi non possono non dirsi un po’ keynesiani, dal momento che l’utilizzo del deficit spending come strumento ordinario delle politiche monetarie e di bilancio è prassi consolidata nel governo dell’economia. Ciò che muta è il livello della spesa in deficit e le tecniche con cui è realizzata – monetizzazione diretta della spesa pubblica grazie all’intervento delle Banche Centrali o collocazione dei titoli del debito sul mercato finanziario.

In ogni caso, va riconosciuto che le politiche keynesiane si sono da sempre poste come il tentativo fallito di risolvere le contraddizioni del sistema capitalistico per salvaguardarne il potere e difendere la sua esistenza. Intervento anticiclico per eccellenza, dunque, nel quadro di una teoria che non riconosceva, né poteva farlo, per ovvi motivi di classe, altri problemi che non fossero strozzature temporanee agevolmente superabili una volta individuati gli intoppi passeggeri.

L’idillio inconfessabile fra Keynes e tanta “sinistra radicale”

L’aspetto paradossale, e comico, di tutta la vicenda è che i togliattiani che oggi spuntano qua e là, riproponendo vecchie ricette che conservano tutto l’opportunismo del passato senza però il respiro che un capitalismo in ripresa dava loro all’epoca, segretamente innamorati di Keynes senza poterlo apertamente confessare, vanno oltre il teorico borghese. In che senso? Precisamente, nel senso che essi concepiscono l’intervento statale, la spesa pubblica in deficit, ecc., non come un transitorio intervento anti-ciclico per ripristinare il normale funzionamento economico, bensì come una sorta di spazio liberato, una nuova dimensione in cui finalmente capitalisti e proletari possono pacificamente convivere all’interno di uno Stato che per definizione è “di tutti”, suscettibile di essere indirizzato verso la difesa e il rafforzamento delle esigenze sociali. Insomma, un nuovo modello di capitalismo, sfortunatamente abbandonato all’epoca della svolta liberista avviata da Reagan e Thatcher, che si tratterebbe di riprendere e sviluppare e …chissà che, per tale via, non si arrivi al socialismo senza tutte quelle complicazioni rivoluzionarie che hanno funestato il passato del movimento operaio. Un nuovo modello (da “scegliere”, come al supermercato…) capace di rendere perpetua la spesa in deficit e con ciò conciliare l’esistenza del modo di produzione capitalistico con una condizione operaia e proletaria in perenne ascesa e asintoticamente tendente all’emancipazione.

La gran parte degli attuali oppositori di extra-sinistra si muovono proprio in questa dimensione. Lungi dal denunciare il fallimento del keynesismo e spiegare che la profondità della crisi capitalistica ne ha imposto l’uscita di scena (almeno nei limiti che richiamavamo prima), essi gli danno credito, lo rimpiangono e lo trasformano addirittura in una creatura mitologica: da politica economica volta a sormontare la stagnazione economica in nome e per conto della borghesia e dei suoi interessi di sfruttamento, esso diventa il terreno di un confronto finalmente “normale” fra proletari e capitalismo.

Ed infatti, per fare un solo esempio, cosa si rimprovera all’UE, fra le altre cose, se non di non stampare moneta come le altre Banche Centrali, di non monetizzare il debito pubblico, ecc.? A parte il fatto che ciò non risponde al vero (la BCE sostiene da tempo i piani massicci di quantitative easing con un’imponente creazione di moneta), resta il fatto che il modello che si intende ripristinare, spacciandolo come soluzione dei problemi di impoverimento delle masse, è quello della politica monetaria espansiva che la borghesia ha seguito in Italia per alcuni anni, come se una tale politica avesse un carattere progressivo rispetto al monetarismo e all’austerità che le hanno fatto seguito. Invece della lotta a fondo contro tutte le varianti di politica monetaria della classe capitalistica, che sono strumenti diversi per rispondere al medesimo fine anti-proletario, si rivendica la monetizzazione del debito come la soluzione giusta ai problemi di classe. Notiamo, per inciso, che un’impostazione analoga è presente anche in altri paesi: negli USA, ad esempio, il “socialista” Bernie Sanders si rifà alla MMT, la Modern Monetary Theory, elaborata in alcune università americane e imparentata col keynesismo.

Il keynesismo: teoria e politica anti-proletaria al 100%

Chiediamo: la spesa in deficit e, in particolare, la monetizzazione del debito sono forse senza conseguenze sulle condizioni proletarie? Sono forse replicabili all’infinito, in una sorta di moto perpetuo virtuoso che permette di non addossare a nessuno dei contendenti i costi della crisi? No di certo! Se i capitalisti e i loro portavoce più spregiudicati pretendono di spiegarci che in economia “non esistono i pasti gratis”, per costringerci a sacrifici sempre più pesanti in nome della presunta razionalità del meccanismo economico, i rivoluzionari devono raccogliere la sfida su questo terreno. Anche noi dobbiamo riconoscere che “non esistono pasti gratis” per la semplice ragione che nessuna politica economica dei governi borghesi può salvare gli operai dal peggioramento delle loro condizioni di vita se essi non lotteranno per imporre i propri bisogni e le proprie necessità con la loro forza organizzata. Come? Non certo scaricando montagne di debito pubblico sulla schiena dell’attuale e delle future generazioni di sfruttati, e neanche illudendosi che “la creazione di denaro dal nulla” ad opera della Banca Centrale sia un’alternativa preferibile. All’epoca del governo Lega-5Stelle, noi denunciammo il carattere reazionario dello sfondamento del deficit preconizzato da Salvini e Di Maio, mentre vi era chi, da sinistra, lo vedeva come un tentativo, troppo timido ma pur sempre positivo, di “opporsi alla dittatura di Bruxelles”. Analogamente, oggi non ci rivolgiamo al governo e alla Banca Centrale chiedendo “stampate moneta!”. Noi diciamo: la nostra politica economica è la lotta, la lotta di classe degli sfruttati. La lotta dei proletari per aumenti salariali sganciati da produttività e competitività; per la riduzione drastica e generalizzata dell’orario di lavoro a parità di salario; per il salario medio ai disoccupati; per imporre una patrimoniale agli strati borghesi più ricchi, per aggredire la ricchezza capitalistica, che è il frutto del nostro lavoro, della nostra fatica, del nostro sfruttamento; per abbattere la spesa militare e ritirare immediatamente le missioni militari all’estero; per riorganizzare l’intera struttura sanitaria secondo il principio della prevenzione delle malattie e della tutela integrale della salute sui luoghi di lavoro; etc. Solo un tale programma può essere considerato “un primo passo” verso un generale scontro di classe che ponga apertamente il problema della totale espropriazione degli espropriatori, cioè del rovesciamento del sistema capitalistico.

Se guardiamo a ciò che avvenne in Italia negli anni ’70, possiamo vedere che in presenza di ampie lotte operaie, la classe capitalistica fu costretta a fare concessioni, ma la politica monetaria espansiva e inflazionista, con il corollario di una continua incombente svalutazione dei salari, non fu certo una conquista operaia. Al contrario, fu il modo con cui lo stato capitalistico affrontò la situazione per trasformare le conquiste parziali strappate dagli operai in un boomerang contro i loro interessi di classe complessivi, recuperando per tale via i margini di profitto intaccati e la perdita di controllo dei processi sociali che l’attivazione delle masse aveva innescato. Ancora una volta, il keynesismo, se così vogliamo chiamarlo, non fu il terreno di un progresso sociale dei salariati, ma la risposta borghese, antioperaia e antiproletaria, ai movimenti di lotta che percorrevano il paese.

Appendice – Due sentite parole di Lord Keynes


ai suoi adulatori di extra-sinistra (raccolte da G. Pala)


Estraiamo da un vecchio (1980-1985), acutissimo, corrosivo scritto di Gianfranco Pala, Pierino e il lupo. Per una critica di Sraffa dopo Marx, Franco Angeli, 2015 (**), alcune pagine (161-165) nelle quali è riassunto, attraverso estratti dalle sue opere, il profondissimo ‘pensiero’ di Lord Keynes su Marx e il socialismo. Buon divertimento.

[Poiché il testo di Pala è scritto in forma di apologo, diamo qui di seguito la legenda dei nomi: Mohr è Marx; Lord K è Keynes; Ric è Ricardo; Jean Baptiste S è Say; Friedrich E è Engels; Philip Henry W è Wicksteed; George Bernard S è Shaw; Nicholas L è Lenin; WCK sono i Collected Writings di J. M. Keynes, editi da Macmillan, London, 1971-1979.]

«La seconda parte dell’Avviso [l’Avviso è una sorta di post-fazione del libro di Pala, scritta per smentire che il ‘lupo marxicano’, ossia Marx, viva bene nella gabbia in cui Sraffa lo ha rinchiuso – n. n.] riguarda la seconda diceria che va smentita. Si riferisce, come sapete, ai presunti buoni rapporti tra l’usignolo dell’imperialismo Lord K (Keynes), e il portavoce del proletariato, Mohr. I diffusori tendenziosi di quelle voci, naturalmente, stanno bene attenti a come parlare. Rinviano specificamente al cosiddetto “nucleo razionale” dell’opera “scientifica” di Lord K. Sanno bene che l’intero suo pensiero è male assortibile con le concezioni rivoluzionarie del materialismo storico-dialettico del Moro. Perciò costoro si provano a “conciliare” tra loro i diversissimi principi teorici. (Ignorando, forse, che proprio Mohr nega la possibilità di enucleare presupposti puramente logici. Avete visto, poc’anzi, che un simile errore egli lo imputa anche al vecchio Ric, quando costui vuole “apparire più rigoroso”).

«Anche qui – anche in questo “secondo avviso” – non si vuole più disquisire su chi abbia ragione tra Mohr e Lord K, né si vuole precludere alla crescente schiera di garbati intellettuali la possibilità di intraprendere eclettiche vie della conciliazione, post-moderne deboli e pluraliste (che poi spesso sono vie che corrono parallele alle vie del pentimento). Qui si mette solo a diretta disposizione dei lettori – che forse ancora una volta potrebbero essere increduli – le considerazioni esplicite che si possono reperire sul tema del confronto. Seguendo il corso della storia, ovviamente, non potranno essere qui le parole del Moro a fare testo: il 1883, l’anno in cui lui moriva, l’altro nasceva. Saranno perciò esposte, al contrario, alcune sommarie considerazioni di Lord K su Mohr, comunismo e dintorni. Considerazioni “demolitrici”, tanto asciutte quanto viscerali: e che nessuno potrà addolcire e sottrarre al loro ruolo demolitore antagonistico. Ciò testimonia direttamente – parola di Lord – su quale spazio vi sia, teorico e politico, per un’opera di conciliazione: nulla!

Del pensiero e dell’opera di Mohr (Marx)

«Se vi è capitato di chiedervi donde provenga e che vie segua la ricordata “vulgata” tradizionale che pone il pensiero del Moro in “continuità” con quello di Ric, eccovi serviti. L’abbondanza di prove in contrario appena mostrata è evidentemente misconosciuta. Lord K ritiene che, in effetti, la teoria di Mohr sia semplicemente, con ogni plausibilità, una deduzione dell’economia ricardiana. Al punto che, se questa dovesse cadere, il sostegno essenziale ai fondamenti intellettuali dell’opera di Mohr cadrebbe con essa. A questa apodittica asserzione, Lord K dà sostegno, con il seguente sillogismo: includo il pensiero di Mohr nella ortodossia come il “laissez faire” (essendo questi i gemelli del xx secolo di Ric e Jean Baptiste S). Gli eretici di oggi devono demolire le forze dell’ortodossia, io – sottolinea di suo pugno Lord K – mi colloco tra gli eretici! [cfr. cwk, xii, pp. 488-489].

«Difatti, in alcune lettere scritte a George Bernard S, Lord K confessa con sicumera di credere che il libro di teoria economica che stava scrivendo – la Teoria generale – rivoluzionerà grandemente il modo di pensare i problemi economici. Vi sarà un grande cambiamento, e, in particolare, i fondamenti ricardiani del pensiero di Mohr saranno abbattuti [cfr, cwk, xiii, pp. 492-493]. L’opinione che Lord K ha del Capitale è la stessa di quella che lui ha del “Corano”. Sa che è storicamente importante e sa che molte persone, non tutti idioti – bontà sua! – lo considerano una pietra miliare, una fonte di ispirazione. Tuttavia, quando Lord K lo guarda, gli sembra inspiegabile che possa avere questo effetto. Il suo polemizzare noioso, vecchio e accademico, gli sembra straordinariamente inadatto allo scopo. Tanto da renderlo sicuro che la sua validità economica contemporanea è nulla [cfr.cwk, xxviii, p. 38]. Secondo lui si costruisce così una dottrina che pone a suo testo sacro, al di là e al di sopra di ogni critica, un libro di economia – Il capitale – ormai vecchio, non solo scientificamente errato, ma privo di interesse e possibilità di applicazione nel mondo moderno. Un credo che esalta il rozzo proletariato [sic!] al di sopra della borghesia e dell’intellighenzia, le quali, per quanti siano i loro difetti, sono l’… essenza della vita [!!], e portano sicuramente in sé il seme di ogni progresso umano [cfr. cwk, xxix, p. 258].

«Il fatto è, per Lord K, che il grande rompicapo della domanda effettiva potrebbe solo vivere furtivamente, sotto la superficie, nel sottomondo di Mohr [cfr. cwk, vii, p. 32]. È’ vero che, ammette Lord K, Mohr fece una pregnante osservazione: la tendenza degli affari è il caso di D – M – D’. Ma il susseguente uso che ne fece il Moro fu altamente illogico. L’eccedenza di D’ su D è (…) l’origine del plusvalore, per Mohr e per coloro che credono nel carattere necessario dello sfruttamento per il sistema capitalistico. Mentre coloro che credono nella sua interna tendenza alla deflazione e alla sottoccupazione, sostengono l’inevitabile eccedenza di D. La verità intermedia è, per Lord K, che il continuo eccesso di D’, sarebbe interrotto da periodi durante i quali, presumibilmente, D deve essere in eccesso. Lord K stesso ritiene, allora, che la sua eclettica argomentazione serva in ultima analisi a una “riconciliazione” tra le due tendenze, quella di Mohr da un lato, e quella di un misterioso Maggiore Douglas dall’altro! [cfr. cwk, xxix, pp. 81-83].

«Ecco dunque a che cosa si riduce l’opera di Mohr, nell’opinione del Lord. Mohr e il suo amico Friedrich E hanno solo inventato una maniera spregevole [!] di scrivere, che i loro successori hanno conservato con fedeltà. Ma essi – al di là di un vecchio polemizzare – non hanno scoperto alcuna chiave dell’enigma economico [cfr. cwk, xxviii, p. 42]. Cosicché, il socialismo di Mohr è destinato a rimanere per sempre un prodigio per gli storici del pensiero: come possa, una dottrina così illogica e noiosa, aver esercitato un’influenza così forte e duratura sulle menti degli uomini e, attraverso essi, sugli eventi storici [cfr. cwk, ix, p. 285].

«Per codesto motivo, Lord K, quasi in chiusura della sua Teoria generale, crede che il futuro dovrà apprendere più dallo spirito di Silvio Gesell che da quello di Mohr. La risposta a quest’ultimo, dunque, egli crede che vada trovata tra le righe della prefazione del libro di Silvio G, L’ordine economico naturale. Il suo scopo infatti, nel suo complesso, può essere ricercato nell’individuazione di un socialismo anti-marxista [!?!]. Una reazione contro il “laissez faire” che sia costruita su fondamenti teorici totalmente diversi da quelli di Mohr essendo basati sul rifiuto anziché sull’accettazione delle ipotesi classiche [cfr. cwk, vii, p. 355]. D’altra parte – sia detto con la franchezza di un Lord – i seguaci del Moro sono pronti a sacrificare le libertà politiche individuali al fine di cambiare l’ordine economico esistente: come i fascisti e i nazisti [cfr. cwk, xxviii, p. 28].

Della rivoluzione proletaria e del socialismo


«Recensendo il libro del suo amico e collega, Philip Henry W, Il senso comune nell’economia politica,Lord K non può fare a meno di esclamare che le osservazioni di costui sul socialismo sono “ammirevoli”. Ciò a cui giustamente il prof. W attribuisce la popolarità di molte delle menzogne del sindacalismo e del socialismo, è quello che egli chiama il “microbo del malessere della civilizzazione” [cfr. cwk, xi, pp. 513-514]. D’altronde, questo “microbo” è quello che le classi lavoratrici di Europa hanno coltivato per molti anni nei loro cuori, nella speranza ultima della rivoluzione, secondo la dottrina del Moro. Ma per esse il fallimento dell’esperimento bolscevico è stato devastante. Esse sanno che non è con quei mezzi che possono alleviare la miseria e l’oppressione materiale del mondo [cfr. cwk, xvii, p. 269].

«Per Lord K non vi sono né dubbi né mezzi termini, il leninismo è la fede di una minoranza di fanatici persecutori, guidati da ipocriti: Vladimir Ilič è un Maometto. Ma per Lord K vi è la pervicace speranza, per fortuna [… sua], che i criteri economici del leninismo contraddicano a tal punto la natura umana che andranno incontro a una sicura sconfitta. Difatti il leninismo, quasi a mo’ di sfida, se la prende con l’atteggiamento dell’individuo e della comunità di fronte all’amore del denaro (sic!). In Inghilterra, anche ai tempi di Lord K, fare quattrini, quanti più quattrini possibile, non è meno rispettabile socialmente (forse lo è di più), di una vita dedicata al servizio del paese. Ma nella Russia del futuro si vuole che la carriera (!) del fare quattrini, in sé, non si presenti neppure come possibilità a un giovane rispettabile (!). Perfino gli aspetti più ammirevoli (!?) dell’amore del denaro, che esistono nella nostra società, come la parsimonia, il risparmio, ecc. saranno resi così difficili nella pratica da non valerne la pena [cfr. cwk, xxix, pp. 81-83].

«D’altra parte – continuando a seguire le testuali, ancorché sorprendenti, parole di Lord K – Vladimir Ilič non aveva molto interesse, in un modo o nell’altro, per l’economia del comunismo. Le storie della rivoluzione non contengono niente di più rimarchevole, e di più freddamente e splendidamente luccicante della carriera di Nicholas (alias Vladimir Ilič) L, ora al termine, non per capitolazione o tramonto, ma per l’annebbiamento dovuto alla debolezza fisica. Inoltre, sentenzia il Lord, i comunisti dottrinari erano terribilmente di seconda scelta (!). Non sorse alcun intelletto capace di eseguire alcunché di interessante. Nel 1921, il regime dottrinario, folle e inefficiente, fallì. I morti avevano fatto il loro compito. L’infame era stato spazzato via, nella lotta evoluzionistica una specie di bestia si estinse, e il compito di Vladimir Ilič fu compiuto [cfr. cwk, xvii, p. 437].

«Fu forse per quel disinteresse di Vladimir L che, secondo Lord K, il declino del bolscevismo venne nutrito dall’istupidito idealismo e dagli errori intellettuali di slavi ed ebrei. Per il Lord inglese, il genio degli slavi russi si è mostrato inadatto agli affari moderni e alla direzione della complicata economia del mondo industriale. Cosicché essi, più degli altri europei, erano alla mercé dei loro ebrei [cfr. ivi, pp. 372; 436]. Per il distinto Lord, ciò vuol dire che occorre stare attenti ai desideri dei consiglieri economici ebrei di una parte dei socialisti. Giacché bisogna sapere che molti ebrei, nel fondo del loro cuore, sono nazisti o comunisti (!?), e dunque non hanno neppure alcuna nozione di come fu costruito o è sostenuto il “Commonwealth” [cfr. cwk, xxiv, p. 626]. Non ci si illuda poi, avverte con inarrivabile finezza l’ariano Lord, che il comunismo renderà gli ebrei meno avari di prima! [cfr. cwk, xxix, p. 260].

«Insomma: la Russia sovietica, per Lord K, ha troppe cose detestabili. Non si cura di quanto distrugga in materia di libertà e si serva deliberatamente delle armi della persecuzione, della distruzione e del conflitto internazionale. Suborna spie in ogni famiglia o comunità all’interno, e fomenta disordini all’estero. (I lettori noteranno, per inciso, che… Lord K non arriva a fare propria la nota tesi secondo cui i bolscevichi mangiavano i bambini!). Intravvide tuttavia i prodromi di una futura strategia del pentimento: si domanda dubbioso, infatti, quanto questa nuova religione, con l’andar del tempo debitamente annacquata e adulterata, possa far presa sulle masse [cfr. ivi, pp. 257-258].

«Contro queste prospettive, Lord K indica la filosofia sociale verso cui tende la sua Teoria generale. Le implicazioni di questa teoria – dice, per quanti non lo avessero ancora capito – sono “moderatamente conservatrici”. Non c’è necessità alcuna di un sistema socialista di stato che abbracci la maggior parte della vita economica della comunità. Non è importante che lo stato assuma la proprietà dei mezzi di produzione, le necessarie misure di socializzazione possono essere introdotte con gradualità e senza una rottura nelle tradizioni generali dellasocietà. Ma poi, soprattutto, l’individualismo, emendato dei suoi difetti e dei suoi abusi, è la miglior salvaguardia della libertà personale [cfr. cwk, vii, pp. 377-378]. Altrimenti, è duro per un figlio dell’Europa occidentale, istruito (!) perbene (!!) intelligente (!!!), ritrovare i suoi ideali nella confusa paccottiglia delle biblioteche rosse. A meno che non abbia precedentemente subito qualche strano e orribile (!) processo di conversione, che abbia sconvolto (!!) tutto il suo ordine (!!!!) di valori [cfr. cwk, xxix, p. 258]. In fede – autenticamente – il Lord disse.

Ora, chi vuole “conciliarlo” con Mohr, si accomodi!»

====

(*) Prendiamo l’espressione dal libro di Marc Bloch, I re taumaturghi, in cui il grande storico presenta una tradizione medievale che attribuiva speciali, quasi miracolosi, poteri ai re francesi come intermediari di Dio nelle guarigioni, in particolare, dalle scrofole: “Il re ti tocca, Dio ti guarisca”.

(**) La messa in forma del vecchio dattiloscritto è stata curata da Paola Tonello, della redazione del Cuneo rosso; la pubblicazione del libro di G. Pala è stata possibile grazie a Charles-André Udry, animatore della casa editrice Page Deux e del blog http://www.alencontre.org

pungolorosso.wordpress.com

Fonte

Condividi questo articolo su Facebook

Condividi

 

Ultime notizie del dossier «Questioni di teoria»

4528