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Berlusconi bombarda

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(26 Aprile 2011) Enzo Apicella
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UNA DINAMICA PIÙ COMPLESSA
PER LA TRATTATIVA TRA STATI EUROPEI

(9 Settembre 2020)

prospettiva marxista

Nello scenario di luglio della politica borghese europea, la trattativa sul Recovery fund ha assunto un ruolo centrale. Un’intensa attività diplomatica da parte delle varie centrali imperialistiche, compresa quella italiana, è infine sfociata nel Consiglio europeo straordinario inizialmente previsto nei giorni 17 e 18 luglio. Il negoziato si è rivelato serrato, cadenzato da tese riunioni di vario formato, e solo alle prime ore del 21 luglio i rappresentanti dei vari Paesi Ue sono arrivati ad un’intesa. La questione dei fondi da distribuire (parte in sussidi parte in prestiti) ai vari Paesi in nome della ripresa economica dopo l’emergenza Covid-19 ha riacceso, soprattutto in Italia, l’attenzione del mondo politico e mediatico sui temi legati all’integrazione europea e al suo significato. In linea generale, lo spessore del dibattito non si è elevato al di sopra dei registri emersi nella fiammata di euroentusiasmo che aveva segnato il contesto italiano tra la fine degli anni Novanta e i primi anni Duemila, gli anni della maturazione e della realizzazione di ciò che finora rimane l’unico vero grande passo in direzione di un potere statuale unitario in Europa: la moneta unica. Rari sono stati i contributi (per quanto ovviamente di matrice borghese) ponderati e di un certo respiro in uno scenario che a tratti è parso un grande caravanserraglio ideologico dalla spiccata propensione retorica. Si può riscontrare, tra le maggiori differenze rispetto agli anni di diffuso entusiasmo per la costruzione europea, l’aggiunta nel quadro italiano di un’ormai evidente e consolidata componente critica nei confronti di quello che un tempo era sembrato un traguardo di unificazione continentale generalmente accettato e celebrato. Senza che per questo però il confronto italiano sui temi europei sia avanzato rispetto al prevalente impianto sloganistico, anzi. In questo rinnovato contesto di intensa circolazione di ideologie borghesi intorno alla questione europea, occorre da parte nostra ribadire l’impostazione di fondo a cui ci siamo sempre attenuti. L’emersione, nella competizione politica borghese, di formazioni sovraniste non ci ha certo indotto a scoprire l’europeismo come male minore. In epoca imperialista, nella fase di putrescenza imperialista che viviamo, non accordiamo a nessuna opzione borghese relativa al tema dell’integrazione europea una preferenza dal punto di vista degli interessi proletari. Più che mai ci riconosciamo nella formula leniniana dell’unificazione politica dell’Europa, in regime capitalistico, o impossibile o reazionaria. Con la fondamentale implicazione politica che, nella mancanza di uno Stato europeo per una borghesia europea, il nemico in casa nostra continua ad essere l’imperialismo italiano. Ma ciò non significa che possiamo escludere a priori evoluzioni politiche finora mai realizzatesi nel quadro dell’imperialismo, meno che mai dobbiamo degradare il nostro sforzo di analisi e di applicazione del marxismo al livello di tifo per quelle forze che incarnerebbero la soluzione su cui si è “scommesso”. Va evitata scrupolosamente la china di selezionare i fatti, i dati reali, a seconda della rispondenza, della loro compatibilità con le proprie ipotesi, previsioni e preferenze, occultando gli uni, sorvolando sulla loro portata e invece enfatizzando gli altri. Non tifiamo, ma osserviamo con la maggiore lucidità possibile gli sviluppi e gli effetti delle dinamiche capitalistiche. Nel fuoco della lotta di classe potremo trovarci nuovamente a dover tenere conto di come differenti sviluppi nel campo borghese possano avere effetti differenti sulle possibilità, i tempi e gli spazi dell’autonoma azione politica del proletariato. Ma ciò non concerne oggi la questione dell’unità politica o della permanenza della divisione in Stati nazionali dell’imperialismo europeo e anche quando saremo chiamati ad affrontare nella nostra azione le divisioni e le articolazioni del fronte nemico, quando saremo sufficientemente forti per sviluppare realmente (e non nelle fantasie manovriere delle mosche cocchiere) un’azione tattica che dia concretezza ai passaggi dell’impianto strategico nella realtà composita degli schieramenti classe, la lucidità di analisi e la più severa capacità di fare i conti con la realtà saranno necessarie, più che mai. Non tifare pro o contro l’unificazione politica dell’Europa non significa che non dobbiamo seguire con estrema attenzione, sottoporre ad una incessante analisi, condotta con il metodo marxista, gli sviluppi della questione europea, tutta interna al quadro delle logiche borghesi e dei rapporti di forza imperialistici. Non può mai essere indifferente, infatti, per un soggetto rivoluzionario il come, con quali forme e strumenti, con quale estensione e grado di efficienza, il potere capitalistico sia in grado di organizzarsi, sia nell’ottica della lotta per la spartizione dei mercati a livello mondiale sia sul versante del controllo e dell’oppressione della classe subalterna. Né dove e con quali effetti ed intensità si possano aprire le linee divisorie dello scontro tra borghesie e frazioni borghesi. Inoltre – e avvertimmo con grande forza questa implicazione negli anni in cui il dogma teleologico dell’inevitabile unificazione politica europea impazzava sulla scena italiana – la realizzazione, allora così largamente vaticinata, di una fusione delle prerogative degli Stati nazionali europei per via consensuale, sulla spinta della sempre più determinante consapevolezza, ai massimi vertici dei vari imperialismi del continente, della necessità di dare vita ad uno Stato di stazza paragonabile ai concorrenti nella contesa imperialistica, avrebbe comportato per la scuola marxista la necessità di una profonda rilettura di alcuni tratti di classe della borghesia, ritenuti fino a quell’avvenimento parte integrante, e confermata nel procedere storico, di un’intima contraddittorietà a cui assegnare una funzione tutt’altro che irrilevante nelle prospettive strategiche della rivoluzione. Non potevamo escludere in partenza che il processo di integrazione europea potesse porre ai soggetti politici che cercano di rappresentare la continuità del marxismo la sfida di una impegnativa riconsiderazione di questo fattore. In realtà, il corso di questo processo non ha messo in discussione gli essenziali limiti della borghesia nelle sue capacità di realizzazione politica, di raggiungimento di una fattiva consapevolezza di classe, oltre ai suoi radicati particolarismi. Anche la trattativa intorno al Recovery fund e i suoi esiti non hanno posto all’ordine del giorno questo riesame interno alla teoria marxista. Non hanno smentito il giudizio circa la centralità, nei più significativi processi di formazione di un’entità statuale in sostituzione di precedenti e molteplici sovranità, del momento della forza, di una forza capace di rivestire una funzione centralizzatrice, non di un consenso consapevole dei vantaggi futuri di un’astratta dimensione superiore di classe. Una borghesia che, magari spronata dall’inedita emergenza sanitaria e dai suoi effetti sul piano economico-sociale, rinunci spontaneamente e pienamente alle proprie prerogative politiche giunte storicamente ad organizzarsi al livello di Stato nazione, accetti di inserirsi in un superiore assetto statuale in termini subordinati rispetto ad altre borghesie nel nome dei futuri vantaggi che questa subordinazione comporterebbe sul piano della competizione globale, appartiene ancora al mondo dell’irreale.

Sogni hamiltoniani e realtà intergovernativa

Il varo del fondo denominato infine Next Generation Eu di 750 miliardi di euro vede un ruolo significativo della Commissione europea, a partire dal conferimento del potere di contrarre prestiti sul mercato dei capitali a nome dell’Unione europea. Ma tutti gli altisonanti richiami al “momento hamiltoniano” (la Ue avrebbe compiuto un salto di qualità verso un compiuto assetto federale sulla falsariga della decisione di Alexander Hamilton, considerata assai frettolosamente come il momento cruciale nella formazione degli Stati Uniti, di accorpare a livello federale i debiti dei vari Stati nel 1790), levatisi al cielo azzurro-stellato quando andava prendendo forma una bozza di accordo sul nuovo strumento finanziario, hanno dovuto bruscamente fare i conti con la realtà. Come è stato prontamente, e non sorprendentemente, rilevato sul versante britannico, per storia tradizionalmente molto sensibile al tema del grado e del significato politico dell’integrazione europea, a fronte delle divisioni emerse, l’Europa non si è mostrata pronta a compiere il fatidico passo sulla scia del primo segretario al Tesoro statunitense (NOTA 1) . Nel quadro dell’accordo raggiunto dai Paesi Ue, viene ribadito il carattere eccezionale del nuovo fondo europeo, aspetto che va a rafforzare la considerazione che, soprattutto quando si evocano passaggi epocali verso nuove forme di statualità, un conto è mettere in comune “il” debito, un conto è farlo con “un” debito. Ma l’aspetto che ci sembra più rilevante è che la stessa trattativa che ha infine consentito il via libera al nuovo strumento europeo è avvenuta chiaramente e saldamente sul piano intergovernativo, che non ha dato nessun segnale di cedere spazio e rilevanza a beneficio delle istituzioni comunitarie, tutt’altro. Non solo ciò significa che per seguire e comprendere future battaglie politiche intorno alla questione europea, e magari, nel cruciale specifico, alla formazione effettiva di un potere fiscale unico in Europa (traguardo che in realtà la trattativa e i suoi esiti non hanno nemmeno lambito), occorrerà tenere ancora lo sguardo ben fermo sui rapporti di forza tra Stati e sugli sviluppi delle alleanze e del confronto tra essi. Ma lo stesso perimetro delle politiche comunitarie continua ad essere tutt’altro che esente dall’influenza determinante degli Stati e dell’andamento del loro confronto. Basti pensare al giudizio espresso dal capogruppo popolare, il tedesco Manfred Weber (CSU), durante la seduta plenaria del Parlamento europeo il 23 luglio, secondo cui l’implementazione del fondo si risolverebbe in una «rinazionalizzazione» del bilancio europeo, conferendo ulteriore spazio e priorità alle scelte nazionali dei Paesi beneficiari. La stessa presidente della Commisione, Ursula von der Leyen, intervenendo anch’ella nella seduta del 23 luglio, ha definito il ridimensionamento dei programmi del bilancio pluriennale della Ue, quale riflesso degli accordi sul fondo per la ripresa, «una pillola difficile da mandare giù». La decisione sul nuovo strumento europeo è rilevante, un mancato accordo avrebbe comportato probabilmente effetti significativi sull’insieme della costruzione europea. La Commissione europea acquisisce una funzione rafforzata, ma non un definito ruolo di preminenza sui Governi nazionali. Anzi, non è per nulla da escludere che, nell’espletare il proprio incarico nell’attuazione concreta delle linee guida del fondo, la Commissione dovrà misurarsi con la dialettica del rapporto tra Stati, che rimane fondamentale nel definire effettivamente l’operatività delle tanto discusse “condizionalità”. D’altronde, come ha ruvidamente ricordato la Süddeutsche Zeitung, la presidenza della Commissione europea, a differenza di Malta, Cipro o della Slovenia, non ha alcun potere di veto (NOTA 2) . Proprio sul piano del confronto tra Stati il vertice europeo del 17-21 luglio ha posto in luce una dinamica che, se dovesse risultare confermata nel tempo, potrebbe schiudere nuove possibilità allo sviluppo del confronto imperialistico interno alla Ue. Oltre all’ormai noto gruppo di Visegrad si è formato un altro blocco di Paesi, considerabili minori rispetto alla forza economica, demografica e alle possibilità politiche dei maggiori Paesi europei, ma che hanno dimostrato, coalizzati, di poter esercitare un’influenza sulle trattative. Il nuovo gruppo – Austria, Danimarca, Svezia, Olanda a cui si è avvicinata la Finlandia – è stato definito dei “frugali” e da più voci sulla stampa internazionale è stato associato, come ruolo e rivendicazioni, alla funzione svolta dalla Gran Bretagna all’interno dell’Unione. Che determinate inclinazioni e sensibilità abbiano una loro profondità storica può suggerirlo anche il fatto che, dei quattro “frugali”, ben tre (Svezia, Danimarca e Austria) hanno figurato tra i Paesi fondatori dell’Efta, il blocco liberista europeo promosso dal Regno Unito nel 1960 e in concorrenza con la CEE. Ma in questo nuovo “club” sono rintracciabili anche evidenti legami storici con la Germania. Pur con tutte le frizioni legate al profilo e agli orientamenti politici delle attuali leadership di Ungheria e Polonia, anche il gruppo di Visegrad racchiude un’area storicamente compresa nel più diretto spazio di influenza tedesco. Occorrerà seguire il corso degli avvenimenti per capire se e quanto un’eventuale permanenza di questi raggruppamenti potrà risolversi in una rinnovata capacità dell’imperialismo tedesco di muoversi su più tavoli, di disporre di incrementati spazi di manovra e di un potenziato ruolo di mediazione. Se così fosse, bisognerà attendersi segnali di nervosismo da Parigi. Intanto, archiviata, almeno per ora, l’enfasi sul “momento hamiltoniano”, l’imperialismo francese non ha atteso di raggiungere nuovi e superiori livelli di integrazione continentale per proiettarsi, con i vertici del proprio Stato, nel quadro politico libanese, posto sotto pressione anche dagli effetti delle esplosioni del 4 agosto. Né l’imperialismo tedesco ha rinunciato a manifestare – in relazione agli sviluppi della situazione in Bielorussia e al caso dell’oppositore russo Alexei Navalny – un intenso dinamismo politico nell’Europa orientale e sul versante dei rapporti con la Russia.

NOTE:

1_ “Europe pulls together”, The Economist, 25/31 luglio 2020.
2_Björn Finke, Matthias Kolb, Cerstin Gammelin, “Hurra, wir leben noch”, Süddeutsche Zeitung (edizione online), 21 luglio 2020.

Prospettiva Marxista

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