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    QUARANTA ANNI FA LA SCONFITTA ALLA FIAT

    (29 Ottobre 2020)

    Dal n. 94 di "Alternativa di Classe"

    la

    La cosiddetta "Marcia dei 40000"

    Le lotte dei lavoratori alla fine degli anni '70 avevano migliorato le loro condizioni economiche e normative, ma soprattutto dal '69 avevano posto il problema del potere all'interno delle fabbriche e delle officine. Potere operaio contro il potere padronale esercitato dai suoi scagnozzi (dirigenti, capi e capetti...).
    Quelle lotte avevano infatti messo in crisi la cultura dell'impresa, una crisi pesante che aveva rimodellato le stesse strutture della rappresentanza operaia di base e sindacale. I rapporti di forza in fabbrica erano cambiati, il potere operaio si era rafforzato. La FIAT, testa di ariete del padronato italiano, con una forza-lavoro di circa 140mila persone (con l'indotto 200mila), dove lo scontro di classe era più duro, aveva cercato di uscire dalla crisi, sia produttiva, sia di riconquista del suo potere totale nelle officine.
    Saranno proprio le lotte dei lavoratori, la saturazione dei mercati, la crisi petrolifera determinata dalle nazionalizzazioni operate nei primi anni '70 dai paesi arabi, la guerra del Kippur nell'ottobre del 1973, che hanno velocizzato la fine del ciclo keynesiano. La FIAT, la cui struttura produttiva era stata pensata come grande concentrazione di forza-lavoro, con il metodo tayloristico, ormai era superata, soprattutto in confronto alle aziende automobilistiche giapponesi.
    La grande fabbrica aveva sì voluto dire per i padroni maggiori profitti, ma dal punto di vista dell'antagonismo di classe aveva facilitato l'organizzazione dei lavoratori. La catena di montaggio (vedi ALTERNATIVA DI CLASSE Anno I n. 10 a pag. 5), se da un lato aveva voluto dire parcellizazione e controllo, da parte dei lavoratori era stata un formidabile vettore di coagulo delle esigenze, bisogni ed esperienze di lotta, espresse da quello operaio supersfruttato che era l'operaio-massa, addetto appunto alla catena di montaggio.
    La FIAT, per uscire dal tunnel della crisi, vedeva nel modello giapponese (massiccia automazione, medie fabbriche di montaggio automatizzate, attorniate da centinaia di piccole aziende di componenti), la potenziale soluzione per ridurre i costi e aumentare la produttività. Così, alla metà degli anni '70, la FIAT aveva cominciato ad automatizzare le lavorazioni più faticose (lastroferratura, vernicatura,...) e a rendere più autonome le fasi della lavorazione, iniziando ad eliminare le catene di montaggio.
    Inoltre, iniziava un'attiva politica di decentramento produttivo per riconquistare nella piccola e media impresa margini di flessibilità, e accentuava lo spostamento della produzione all'estero. Comunque, negli anni 1974-'75 era arrivata la prima crisi di sovrapproduzione, e la concorrenza fra i capitalisti (come abbiamo visto, in particolare dei giapponesi) si faceva sempre più accanita. Le possibilità di fare concessioni ai lavoratori si sarebbero ridotte sensibilmente, e i padroni sapevano che, per stare sul mercato e guerreggiare con gli altri pescecani, dovevano tenere basso il costo del lavoro.
    Per i lavoratori si aprivano due strade: o accettare le compatibilità del capitalismo e subire la controffensiva padronale, oppure contrapporsi ed infrangere i limiti del sistema, ponendosi il compito della presa del potere e dell'instaurazione di un nuovo potere economico-produttivo. Solo i lavoratori con più coscienza classista avevano capito i veri motivi dello scontro, ma la maggioranza della forza-lavoro, anche quando aveva espresso una forte combattività, esprimeva ancora fiducia, sul piano sindacale, ai vertici CGIL-CISL-UIL e, su quello politico, al PCI e in parte al PSI. Ma questi signori, invece, avevano, a loro volta, piena fiducia nel capitalismo, che, secondo loro, poteva ancora sviluppare la sua crescita economica, che, a sua volta, avrebbe favorito maggiore occupazione e miglioramento del tenore di vita dei lavoratori.
    In particolare, il PCI, quantomeno già dalla "svolta di Salerno", seguendo le direttive staliniane di compromesso con le forze borghesi, aveva cercato d'ingraziarsi le classi dirigenti borghesi per arrivare a governare il Paese, scopo poi raggiunto con la nascita del PD. I sindacati, già dal loro nascere, erano una forza, per loro stessa natura, riformista, che non oltrepassava limiti che potessero mettere in difficoltà il padronato.
    In questo contesto, il capitale, per isolare i lavoratori più combattivi e le richieste più avanzate, ed ottenere il ritorno alla pace sociale nelle officine, aveva bisogno dell'appoggio sindacale e della sinistra. Così, nell'Ottobre 1976 Berlinguer annunciava la politica dell'austerità, ed il 26 Gennaio 1977 i confederali firmavano un accordo "per frenare l'inflazione e difendere la moneta attraverso il contenimento del costo del lavoro e l'aumento della produttività", che eliminava gli scatti futuri di contingenza nel conteggio del TFR, aboliva sette festività e aumentava l'orario di lavoro, mentre contemporaneamente il padronato riceveva un monte di miliardi pubblici.
    Successivamente veniva varato "il contratto formazione-lavoro", dove lo Stato concedeva sgravi fiscali per assunzioni di ragazzi, le cui condizioni lavorative cominciarono a peggiorare. Il 13-15 Febbraio 1978 all'EUR di Roma si svolgeva l'assemblea dei sindacati CGIL-CISL-UIL, che ratificava la nuova linea sindacale proposta da Lama (CGIL). Una linea che aveva fatto suo il punto di vista di Confindustria, affermando che i lavoratori, in nome dello sviluppo, dovevano accettare i sacrifici, che, per difendere l'occupazione, si dovevano contenere le richieste salariali, e che la mobilità andava contrattata da fabbrica a fabbrica.
    A questa linea suicida i lavoratori più combattivi si opponevano, e il PCI e il Sindacato, per dimostrare la loro capacità di controllo sulla forza-lavoro, si facevano complici del padrone per individuare e segnalare i lavoratori più combattivi. La FIAT già allora era una holding a respiro internazionale, e in quel momento, anche per i motivi già accenati, era l'azienda interessata ad una pesante sconfitta del movimento dei lavoratori.
    Il primo tentativo della FIAT per assaggiare la consistenza dell'avversario è stata la vertenza contrattuale del 1979, quando l'azienda non ha ceduto nonostante le 100 ore di scioperi, sia perchè aveva gli autoparchi pieni di macchine, sia perchè aveva intravisto uno scricchiolio nella partecipazione della forza-lavoro agli scioperi. A questo punto la FIAT aveva giocato la sua carta, mettendo in libertà migliaia di lavoratori, e la risposta sindacale risultava molto debole (scioperi articolati, ma cercando di rifornire le scorte di materiale a tutte le sezioni!), creando disoriamento tra i lavoratori, nonostante che gli operai di Lingotto avessero bloccato la produzione.
    Gli operai si erano riversati nelle strade di Torino, facendo blocchi stradali e occupazioni simboliche della RAI, del giornale "La Stampa" e della Stazione ferroviaria. Dopo sette giorni il Sindacato firmava l'accordo, che mandava a mare molte conquiste del '69. La FIAT non aveva completamente vinto, ma aveva capito che poteva proseguire nella sua strategia.
    Prendendo, infatti, poi come pretesto sia la morte del suo dirigente Carlo Ghiglieno, ucciso dalle BR, che alcuni agguati ai caporeparti, aveva preparato, complici Pecchioli (dirigente PCI) e Lama, una lista di 61 operai, ovviamente i più combattivi nelle lotte. Subito venivano accusati di essere fiancheggiatori del terrorismo, venendo additati genericamente di infedeltà ai principi dell'azienda. Il pretore sentenziò che il licenziamento era nullo, e allora la FIAT li licenziava di nuovo, stavolta con delle motivazioni individuali.
    La maggioranza degli operai, anche se non aveva capito l'affondo che stava per portare l'azienda, comunque la ritenevano un'altra prepotenza del padrone, e la FLM (sindacato unitario metalmeccanico) si era schierata con loro. Ma la Federazione CGIL, CISL e UIL ed il PCI l'accusarono di essere debole nella lotta contro il terrorismo e la violenza. CGIL-CISL-UIL poi, per salvarsi la faccia, dichiararono due ore di sciopero, ma il licenziamento dei 61 attivisti, in realtà, faceva comodo anche a loro, perchè erano i protagonisti delle lotte delle officine (cortei interni, picchetti, blocco delle merci e altro), che spesso sfuggivano di mano ai burocrati sindacali.
    Come detto, la FIAT stava riprendendo il potere nelle officine, e cominciavano a piovere multe e sospensioni. Ad inizio 1980 cominciarono ad arrivare i licenziamenti per assenteismo, che da 500 nel mese di Gennaio, arrivarono a 2000 in Agosto e il tasso di "assenteismo" passava così, con il nuovo clima, dal 17 al 5 per cento. Intanto, all'interno dei piani alti della FIAT si aveva un cambiamento il 31 Luglio 1980 con le dimissioni di Umberto Agnelli: da Amministratore delegato prendeva la carica il "duro", e alieno dalle mediazioni, Cesare Romiti. Questo cambiamento voleva dire che l'azienda si stava preparando allo scontro.
    L'11 Settembre 1980 la FIAT annunciava la procedura per il licenziamento di 14469 lavoratori del settore Auto e Teksid, e l'incontro al Ministero del Lavoro tra la parti sociali non arrivò ad una conclusione, anche se il Sindacato era disponibile ad accettare la cassa integrazione a rotazione sino al 31 Marzo 1981 e la mobilità esterna, cioè il licenziamento... Il Governo Cossiga prendeva tempo per trovare una soluzione di mediazione, ma il 27 Settembre cadeva. La FIAT sospendeva così i licenziamenti e metteva in cassa integrazione 24mila dipendenti per tre mesi, a partire dal 6 Ottobre, ed il 29 il Sindacato decideva di revocare lo sciopero.
    Ma il 30 Settembre l'azienda rendeva pubblico l'elenco dei cassintegrati, la cosiddetta "lista di proscrizione", alla quale avevano lavorato da mesi i capi, i responsabili di settore e dirigenti, e tale lista non colpiva solo i lavoratori più combattivi, ma lavoratori con menomazioni o con malattie professionali, e persino handiccapati. Un provvedimento che cercava di dividere tra i lavoratori buoni e quelli cattivi.
    Il "Consiglione" di Mirafiori, che riuniva i delegati di tutti gli stabilimenti, insistette per una linea intransigente, decretò il blocco dei cancelli e delle entrate delle merci, e chiese lo sciopero generale nazionale. Il 1° Ottobre nelle assemblee prevaleva la combattività rispetto alla perplessità, e così venivano organizzati ufficialmente i presidi ai cancelli. Il giorno dopo alla porta n. 5 di Mirafiori un grande ritratto di Marx risaltava sul muro, e subito veniva in mente il paragone con i lavoratori di Stettino e Danzica, che invece sventolavano il ritratto del Papa. I picchetti davanti ai cancelli erano molto partecipati, e non solo dai lavoratori della FIAT, ma anche dai lavoratori dell'area torinese.
    Arrivò solidarietà non solo dai lavoratori italiani, ma anche da altre nazioni, come Polonia e Cile. Nonostante il tentativo da parte dei capetti e dei fascisti di sfondare i presidi, nessun materiale e persona riucivano ad entrare. Lo sciopero generale del 10 Ottobre, anche se vi era stata una discreta partecipazione, non aveva però avuto la medesima carica di altri precedenti.
    Il 13 e il 14 Ottobre si riunirono a Roma i segretari GCIL-CISL-UIL e FLM con i dirigenti FIAT per trovare una soluzione, e nello stesso giorno, il 14, il "Coordinamento dei capi" convocava al Teatro Nuovo di Torino un'assemblea. Era la prima volta che i galoppini del padrone prendevano il coraggio di schierarsi in modo organizzato contro le lotte operaie. Dal Teatro usciva un corteo di circa 15mila persone (non certamente 40mila, come aveva detto per primo "Il Manifesto", poi ripreso da tutti i mass media, e diventato un numero storico), che percorreva silenziosamente la città di Torino, portando cartelli con su scritto "Vogliamo lavorare", "Picchetti uguale violenza", "La libertà di lavoro è un diritto", "Vogliamo lavorare in pace", e via di questo passo.
    Si trattava della, poi famosa, "marcia dei 40000", o dei "colletti bianchi", che non comprendeva solo gli impiegati, ma capi di officine, dirigenti, operai crumiri, padroncini delle "boite" dell'indotto, cittadini benpensanti, ovvero la cosiddetta "maggioranza silenziosa". Certamente non era stata una manifestazione spontanea, come era stato fatto credere all'inizio, ma era stata ben preparata dai dirigenti più reazionari, come Calleri (soprannominato "John Wayne", perchè durante gli scioperi dormiva in fabbrica con la pistola carica), e capi come Arisio (poi premiato con l'elezione in Parlamento nel 1983 nelle file del PRI ( Partito Repubblicano Italiano), morto all'età di 94 anni solo pochi giorni fa, il 29 Settembre). Costoro dal "69 in poi erano stati tenuti sotto scacco dalla conflittualità operaia, che aveva messo in discussione la loro onnipotenza all'interno delle officine.
    Per l'assemblea del "Nuovo" erano stati spediti 18mila inviti, ed ai presenti era stata comunque pagata la giornata. La presenza sindacale non era gradita. A Roma, alla notizia che la manifestazione era riuscita, la FIAT non firmava l'accordo che prevedeva la cassa integrazione a rotazione, ed il Sindacato, "preso dal panico (?!)", come suggerivano i giornali dell'epoca, e spinto da Fassino, dirigente torinese del PCI, accettava invece l'accordo che prevedeva la cassa integrazione per 23mila lavoratori a zero ore e nessuna rotazione. Il giorno dopo un volantino firmato PCI affermava vergognosamente che i 37 giorni di lotte operaie avevano costretto la Fiat a firmare!
    Il giorno 15 si riuniva al cinema Smeraldo di Torino il Consiglione di Mirafiori, e respingeva compatto l'accordo, ritenendolo come una svendita delle lotte. Le assemblee indette il 16 trovarono gli operai contrari all'accordo, ma la presenza dei capi e degli impiegati rendeva incerto il risultato. I vertici sindacali decidevano alla fine che, nell'insieme, i lavoratori erano favorevoli all'accordo. I lavoratori, demoralizzati, si sentirono traditi ed abbandonati, e ritennero che ormai qualsiasi resistenza fosse inutile. La rabbia si scaricava sui Carniti (CISL) e i Benvenuto (UIL), malmenati davanti ai cancelli della fabbrica.
    Dei 23mila cassintegrati nessuno è poi rientrato, e 200 di loro, presi dallo sconforto, si sono suicidati. L'accordo, dopo le assemblee, veniva così definitivamente firmato anche dal Segretario regionale CGIL, il già noto e famoso "rivoluzionario", Fausto Bertinotti, futuro Segretario di Rifondazione Comunista, più di recente oscillante finanche verso "Comunione e Liberazione".
    Il 18 Ottobre il Consiglio di Fabbrica del "Lingotto" usciva con un documento molto esplicito, che raccoglieva e sintetizzava il pensiero dei lavoratori, e diceva: "...la conclusione di questo accordo è legata più ad orientamenti politici derivanti dall'impostazione seguita dalla federazione CGIL-CISL-UIL, che ai reali rapporti di forza esistenti in fabbrica: infatti la scelta politica che la maggioranza del gruppo dirigente sindacale ha fatto è quella di volere cambiare la natura di questo sindacato. In sostanza l'attuale gruppo dirigente sindacale ha di fatto accettato che per uscire dalla crisi si deve privilegiare la competitività del prodotto, basata sullo sfruttamento dei lavoratori. La stessa causerà un restringimento della base produttiva, creando una polmonatura di manodopera da utilizzare nei momenti di oscillazione del mercato...".
    Dopo l'accordo, l'ambiente negli stabilimenti FIAT era quello della resa totale alla repressione padronale, sancendo così la vera sconfitta operaia. Gli spostamenti dei delegati dentro la fabbrica subivano grosse limitazioni, veniva vietata la diffusione di giornali e materiale sindacale, gli operai non si potevano unire in più di tre, anche durante le pause: una vera debacle.
    Un'ultima notazione sulla celebrata presenza del Segretario del PCI davanti ai cancelli della FIAT. Era il 26 Settembre 1980, ed E. Berlinguer si era presentato davanti ai cancelli della fabbrica; era stato accolto da una folla di lavoratori che gli avevano rivolto diverse domande. Alla domanda di una operaia: "Se occupiamo la fabbrica, voi cosa farete?" il Segretario aveva risposto che, se lo sviluppo della lotta avrebbe portato democraticamente la decisione di occupare le fabbriche, il PCI non avrebbe potuto essere che con loro.
    Berlinguer aveva mentito, sapendo di mentire. Sia la sua presenza, sia le sue parole erano strumentali, perchè voleva usare sul piatto della politica parlamentare (per avvicinamento al governo e per la polemica con Craxi in quel momento) il peso della classe, e per non compromettere l'immagine del partito delegava alla burocrazia sindacale CGIL di sporcarsi le mani, come poi è avvenuto.
    La sconfitta dei lavoratori FIAT è stata la sconfitta di tutti i lavoratori italiani, ed è stato l'inizio di un lento declino del movimento di classe in Italia, che ci ha portato alle grandi difficoltà prodotte dalle offensive antioperaie e antisindacali del nuovo secolo (Legge Fornero, attacco allo Statuto dei lavoratori, Jobs Act, Decreti sicurezza...), per arrivare oggi alle dichiarazioni del nuovo Presidente della Confindustria, C. Bonomi, pronto a fare la guerra ai lavoratori.
    Gli anni '70 erano stati anni di grandi lotte e altissimi livelli di militanza e di conflittualità, ma era mancata la sponda politica, era mancata l'organizazzione della classe che avrebbe dovuto amplificare le lotte nelle fabbriche e, semmai a partire da esse, oltre che allargare il fronte anche oltre i confini nazionali, produrre quelle alleanze sociali che avrebbero permesso alla classe operaia di sentirsi meno isolata e certamente più forte e sicura nello scontro col padronato.

    Alternativa di Classe

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