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L'angoscia dell'anguria

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(24 Luglio 2013) Enzo Apicella

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Giorno dopo giorno cresce drammaticamente la necessità del comunismo!

(1 Novembre 2020)

Gli avvenimenti degli ultimi sei mesi hanno messo a nudo, una volta di più, il carattere distruttivo e auto-distruttivo del modo di produzione capitalistico, con le sue leggi spietate e non modificabili. Un susseguirsi di crisi, diverse nella forma ma identiche nella sostanza, dimostra che la sua lunga agonia può solo produrre, su tutto il pianeta, miseria crescente, guerre sanguinose, devastazioni ambientali, crisi sanitarie, disperazione, angoscia, male di vivere e nuda e cruda difficoltà anche solo a sopravvivere.
Abbiamo più volte mostrato come la crisi economica del 2008-9 non si sia mai risolta, trascinandosi per un decennio fra alti e bassi e preparando così crolli ancor più spaventosi. Su questa crisi (diciamo così, pre-pandemica), il cui evolvere già preoccupava tutti gli osservatori borghesi per le evidenti implicazioni sociali e politiche, si è innestata – figlia di un modo di produzione incapace di risolvere anche sul piano scientifico e sanitario i propri “effetti collaterali” – la crisi pandemica. Il Capitale, attraverso i suoi strumenti di dominio (parlamenti, governi, forze dell’ordine, organi di informazione), ha subito colto l’occasione per introdurre e attuare una serie di misure che, con il pretesto di “contenere il virus”, sono orientate a “contenere e reprimere” la rabbia sociale che la crisi economica potrebbe portare con sé. Nel fare ciò, le classi dominanti di tutti i paesi possono contare su un’esperienza plurisecolare di esercizio del potere nei confronti del proletariato: di utilizzo, cioè, di qualunque situazione “anomala” per rendere più efficienti e pervasive le proprie strutture repressive, a ogni livello – culturale, ideologico, politico, e soprattutto militare. Non di complotto si tratta, quindi, ma di pratica nell’uso della forza e della violenza anti-proletarie.
A questo punto, ecco la crisi post-pandemica. L’emergenza non ha fatto altro che esasperare e spingere in avanti, con i suoi effetti a ogni livello, la crisi già in atto prima del suo scoppiare: uso della forza-lavoro come carne da macello, sempre più acuita precarizzazione, licenziamenti a raffica, violenza legale e illegale, padronale e statale, contro i lavoratori e le lavoratrici in lotta, abile utilizzo della “guerra fra i poveri”... La ciliegina sulla torta non poteva essere infatti altro che una legislazione d’emergenza con tutte le sue misure repressive, mantenuta e anzi affinata e resa più pervasiva proprio grazie all’esperienza della pandemia. Ma di questo abbiamo già detto, scritto e dimostrato a sufficienza, nel passato recente, come in quello prossimo e remoto.
Nei mesi a venire è possibile che una situazione così critica si traduca in improvvise, più o meno circoscritte, esplosioni e che ciò si trasformi infine in una vera crisi sociale di dimensioni non solo nazionali. Sarà allora necessario che i proletari scesi in lotta nelle strade e nelle piazze si tengano lontani dal vicolo cieco dell’esasperazione fine a se stessa, del ribellismo senza prospettiva, della rabbia disorganizzata incapace di sostenere la violenza dello Stato. Si diano quindi organizzazioni di lotta stabili e solide, di difesa delle proprie condizioni di vita e di lavoro. E si preparino a un livello più alto di scontro politico.
Ciò naturalmente non basta. La difesa è possibile solo se si orienta all’attacco e l’attacco può riuscire solo se si dà un obiettivo non contingente, non limitato, non circoscritto alla realtà così com’è.
E allora, con quell’evidenza che risulta misteriosa e oscura solo a chi sia cieco od ottuso difensore a spada tratta del modo di produzione vigente come “migliore dei mondi possibili”, cresce, giorno dopo giorno, nei fatti stessi della vita quotidiana, la drammatica necessità di passare a un modo di produzione diverso e superiore: a una società senza classi, al comunismo.
Sappiamo bene che dire ciò si scontra con il muro di gomma e acciaio dell’ideologia dominante, che imbottisce i crani con la litania della “morte del comunismo”. A noi comunisti questa litania fa solo sorridere, perché è la dimostrazione dell’impotenza e ignoranza dell’ideologia dominante. Il comunismo non è morto per la semplice ragione che, come modo di produzione finalmente affermato, non è mai esistito: anche questo l’abbiamo provato in decenni e decenni di lotta, in migliaia e migliaia di pagine, in infiniti esempi fattuali e materiali.
Di fronte a ciò che si sta già preparando, a livello mondiale, per la classe proletaria (lacrime e sangue), di fronte a un corso sempre più catastrofico della crisi economica capitalistica che può solo condurre a un nuovo conflitto mondiale, a un nuovo macello inter-imperialistico, è necessario dunque insistere sulla necessità del comunismo e del processo politico-rivoluzionario per giungervi, di una società senza classi che strappi infine ogni aspetto della vita associata all’imperio della legge del profitto, del denaro, della competizione, della produzione per la produzione.
Per questo bisogna lottare, a questo bisogna lavorare, con urgenza ma con lucidità e soprattutto senza la fretta di chi vuole a tutti i costi vedere “i risultati della propria azione” per soddisfare la propria ansia di protagonismo, senza l’arroganza di chi crede d’inventare scorciatoie a un percorso che è materialisticamente determinato. I principi, la teoria, il programma, la tattica, l’organizzazione esistono, in un tutto unico, da quasi due secoli: attraverso l’organizzazione del nostro partito e la sua partecipazione alle lotte del proletariato, noi li abbiamo difesi con le unghie e con i denti attraverso tutte le ondate controrivoluzionarie (e l’ultima, in cui siamo tuttora immersi, è stata ed è la più lunga e devastante), per consegnarli – tagliente arma di battaglia e non occasione di inutile dibattito intellettuale – alle generazioni future di militanti comunisti.

Da Il programma comunista, n.4 (2020)

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