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USA: Razzismo, lotte di classe e necessità del partito rivoluzionario

(6 Novembre 2020)

Da il programma comunista, n.5-6/2020

Non sappiamo se, quando uscirà quest’articolo, il grande baraccone delle elezioni USA starà già sbaraccando e se il burattino del Capitale sarà rimasto lo stesso o dal cappello dell’illusionista demo-elettorale ne sarà uscito un altro. Poco importa. Le questioni reali restano tutte sul tappeto di un Paese che è in crisi profonda, come l’intero universo del Capitale ma con un’intensità e una visibilità che si rapportano al peso specifico (economico, sociale, politico, militare) dell’imperialismo più forte. Passata l’ennesima ubriacatura elettorale, è allora utile tornare su alcune di queste questioni reali, poiché – per l’appunto – esse riguardano il proletariato mondiale e non solo quello statunitense.

Esiste davvero una “questione nera”?
A tenere banco nei mesi passati, ben prima e ben più emblematicamente dello squallore infinito della campagna elettorale, sono stati i ripetuti e diffusi moti di protesta scoppiati a seguito della sequenza di omicidi a sangue freddo di afro-americani (e non solo) a opera della sbirraglia in divisa. Gli eventi sono fin troppo noti perché li si debba rievocare con una cronaca dettagliata. Diciamo solo che questa costante, sanguinaria repressione nei confronti dei settori più sfruttati del proletariato statunitense ha accompagnato la storia degli Stati Uniti lungo tutto il 19° e 20° secolo e s’è ancor più acuita in questo primo ventennio del 21°: e ciò indipendentemente dall’inquilino della Casa Bianca, a ulteriore dimostrazione che non di alternanza alla Presidenza e al Governo di “buoni” e “cattivi” si tratta, ma di dinamiche tutte interne alla gestione del potere borghese e, in particolare, agli sviluppi della crisi economica strutturale in cui siamo immersi a partire dalla metà degli anni ’70 del ‘900. L’aspetto davvero significativo è stato l’entità della risposta almeno inizialmente spontanea: non locale, non pacifica, non ossequiosa dei soffocanti e paralizzanti rituali democratici e non circoscritta alla sola comunità afro-americana.
Nelle strade e nelle piazze, si sono ritrovati insieme manifestanti di ogni colore, e ciò dimostra per l’appunto, nei fatti e al di là di ogni valutazione sociologico-statistica, l’entità della crisi sociale che sta maturando nel paese e colpisce trasversalmente componenti diverse, su linee che, a chi sappia vedere, si rivelano linee di classe. La perenne diseguaglianza economico-sociale che caratterizza la società statunitense (diseguaglianza di cui negli anni abbiamo dato più volte dimostrazione) incalza uno strato crescente di mezze classi, di piccola borghesia in caduta libera, e in particolare di giovani. La condizione dei cosiddetti “bianchi poveri”, vivano essi nelle zone depresse degli Appalachi o nei quartieri “problematici” di quelle che un tempo erano le cittadelle dell’industria (automobilistica, siderurgica, ecc.), in altre aree periferiche ma altrettanto “difficili” o lungo le strade senza meta e senza sbocco dei nomadi, degli stagionali, dei senza-tetto, si avvicina alle condizioni in cui da tempo vivono e (non) lavorano i proletari afro-americani, messico-americani, portoricani, asiatici; e l’appartenenza etnica (che troppo spesso ha giocato un ruolo centrale nel divide et impera praticato dal potere borghese) tende a svanire sotto i colpi dello sfruttamento, dell’oppressione quotidiana e di una crisi che i politici possono, come ovunque, negare a parole (o attribuire al candidato-nemico di turno), ma che morde e corrode, strazia e disorienta giorno dopo giorno.
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È indubbio che i proletari afro-americani soffrano delle condizioni peggiori di vita e di (non) lavoro: lo provano, ancora una volta, le statistiche stesse1. Ma basta rileggere la storia del conflitto di classe in terra americana per rendersi conto che quelle condizioni hanno via via caratterizzato tutte le comunità proletarie immigrate (e il proletariato americano che cos’altro poteva essere se non, in larga misura, immigrato o “importato” a forza da fuori?!), e ciò fin dagli inizi dello sviluppo rapido e tumultuoso del modo di produzione capitalistico in quel Paese. L’oppressione economica, politica, sociale, ideologica e militare ha colpito, sull’arco di ormai due secoli, proletari tedeschi, irlandesi, scozzesi, est-europei, asiatici, italiani, spagnoli, portoricani, latino-americani, afro-americani… tutti gettati nel calderone infernale dello spietato sfruttamento che ha permesso agli Stati Uniti di emergere, all’alba del ‘900, come l’imperialismo più forte e potente e di mantenere quella posizione per tutto il secolo e oltre. In questa generalizzata politica anti-proletaria, il razzismo, come espressione più becera dell’ideologia dominante, ha di certo svolto un ruolo centrale, alimentata anche dalla secolare vicenda della schiavitù e del post-schiavitù – come, per tutto l’800 e oltre, lo svolse il razzismo che permeò la società inglese, operando brillantemente per separare i proletari britannici da quelli irlandesi o immigrati dalle colonie.
Al tempo stesso, le lotte che nel medesimo arco di tempo si sono sprigionate da questa condizione hanno toccato più volte vertici di quasi guerra civile, con scioperi durati mesi e mesi, scontri spesso armati con la sbirraglia in divisa o senza divisa, e il coinvolgimento diretto di proletari giovanissimi e di giovanissime proletarie, con episodi di grande importanza, verificatisi anche in pieno secondo conflitto mondiale: come, nel 1943, la sollevazione di Harlem, il ghetto nero per eccellenza, a New York.
Durante gli anni ’60 del ‘900, poi, la crescita delle contraddizioni sociali a partire dalla fine del secondo massacro inter-imperialista mondiale è stata più volte all’origine di eruzioni violente – quelle che i media definiscono ghetto riots e che sono andate a sommarsi ai contraccolpi, anch’essi sociali, causati da un decennio di guerra nel sud-est asiatico: non va dimenticato infatti che, per condurre quella guerra, la macchina militare USA ha potuto contare su una leva obbligatoria che ha colpito soprattutto gli strati più deboli e “svantaggiati” della popolazione (afro-americani e portoricani in primis); né vanno dimenticati i numerosi esempi di insubordinazione, di resistenza e di vero e proprio boicottaggio dello sforzo militare che si verificarono allora, sia sui teatri di guerra che su suolo statunitense. Erano, non dimentichiamolo, gli anni in cui emergeva il cosiddetto Black Power e si affermavano sulla scena di molte metropoli statunitensi i militanti del Black Panther Party, un primo tentativo, generoso ma politicamente fragile e alquanto contraddittorio, di dare forma organizzata al malcontento dei ghetti. Il fermento però andava ben al di là dei ghetti neri, e anche questo è importante da sottolineare: i proletari latinos – soprattutto i messico-americani o chicanos – furono in prima linea in possenti movimenti di sciopero in cui nette istanze classiste si mescolavano a persistenti suggestioni nazionaliste2.
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Nel numero scorso di questo giornale, abbiamo ripubblicato un nostro articolo del 1965, con cui salutavamo una delle più significative rivolte della popolazione proletaria nera negli Stati Uniti: a metà agosto di quell’anno, nel quartiere-ghetto di Watts, a Los Angeles, contro la brutalità e arroganza della polizia e le insopportabili condizioni di vita scoppiarono disordini che durarono quasi una settimana, con l’intervento della Guardia Nazionale e un bilancio finale di 34 morti, più di mille feriti e 3,400 arresti3. La rabbia accumulatasi in decenni di sfruttamento e di repressione, di marginalizzazione e di aperto razzismo, di eliminazione di leader diversi tra loro ma emblematici come Malcolm X e Martin L. King, di delusione per le prospettive pacifiste, riformiste e democratiche, non poteva, materialisticamente, non esplodere e scuotere con violenza i pilastri della società capitalistica statunitense. Così, due anni dopo i disordini di Watts, ecco che, a Detroit e a Newark (gangli industriali fra i più importanti) e altrove, scoppiano altre rivolte, da noi accolte con altrettanto entusiasmo, soprattutto perché furono accompagnate da ripetuti episodi di solidarietà aperta (rilevati con grave preoccupazione dalla stessa stampa borghese) da parte di proletari non neri. Scrivemmo allora (e ancora una volta ci tocca ricordare che il termine “negro” non aveva a quei tempi il connotato dispregiativo che ha assunto oggi) due articoli che offrono una chiave di lettura politica di estrema importanza ieri come oggi4.
È chiaro infatti, per chiunque si ponga in una prospettiva rivoluzionaria, che non esiste una “questione nera” negli Stati Uniti (come altrove!): esiste invece di una questione sociale e di classe. Non di etnia o di nazionalità, dunque, anche se pare assumere quelle forme, soprattutto grazie al contributo fondamentale dell’ideologia dominante in tutte le sue forme e manifestazioni, che agisce abilmente tramite i mezzi di comunicazione, politici e giornalistici, oltre che con i più sofisticati strumenti di repressione militare. Come tutte le comunità “etniche” o “nazionali” che formano la società borghese negli Stati Uniti, nella vecchia Europa, nel resto del continente americano, in Asia o in Africa, la comunità afro-americana è attraversata da fratture di classe: esiste al suo interno una borghesia alta, una piccola e media borghesia, un proletariato e un sottoproletariato; e non ci risulta che nessun nero sia stato colpito alla schiena da sette proiettili mentre saliva sulla sua limousine o entrava negli studi televisivi o banchettava con i suoi compari politici…
Da quei fatti e dai nostri scritti sono passati cinquant’anni, punteggiati da continui sollevazioni, nel corso delle quali le illusioni pacifiste, riformiste, progressiste si sono infrante contro la realtà del dominio di classe: solo però per rinascere ogni volta, sempre più vuote di contenuti e traboccanti invece di penosa retorica, grazie all’opera dell’opportunismo politico d’ogni forma, sempre e comunque servo fedele di un potere borghese che non conosce confini né geografici né di colore, ma che si esercita indifferentemente contro tutti i proletari di tutto il mondo. È alla luce di ciò che vanno valutati gli eventi di questi ultimi mesi e soprattutto le posizioni che ne sono emerse.
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Per certi versi e con le debite differenze, il percorso seguito dallo spontaneo movimento di rivolta scaturito dall’assassinio di George Floyd a Minneapolis il 25 maggio scorso a opera di un manipolo di sbirri in divisa, può ricordare quello seguito dalle cosiddette “primavere arabe” negli anni successivi al 2010: un possente movimento di rivolta nei confronti di condizioni di vita e di lavoro, partito dalla Tunisia proletaria, ha rapidamente incendiato la riva sud del Mediterraneo, per essere poi recepito, incanalato e castrato dall’intervento, più o meno organizzato e dagli obiettivi più o meno chiari, di mezze classi anch’esse da tempo in crisi e intenzionate a far sentire la propria voce – ma sempre nell’alveo sicuro della “società così com’è”, senza cioè minimamente porsi il problema della presa del potere e del passaggio a un modo di produzione superiore5. Da autentici parassiti quali sono storicamente e politicamente, le mezze classi hanno sfruttato la spinta originaria di un moto proletario per avanzare le proprie rivendicazioni ultra-democratiche e ultra-riformiste, spegnendo via via l’originaria fiamma classista: e qui la mancanza, a livello mondiale, di una guida rivoluzionaria organizzata (del partito di classe, del partito comunista) ha fatto sì che l’ideologia e la pratica piccolo-borghese avessero mano libera, soffocando (momentaneamente, c’è da augurarsi!) quel movimento.
Nelle recenti rivolte statunitensi, questo ruolo piccolo-borghese e demo-riformista, di de-potenziamento di un potenziale movimento classista, è stato svolto da organizzazioni come la tanto celebrata Black Lives Matter (BLM). Sappiamo bene d’essere controcorrente nel dire ciò e di rischiare l’impopolarità: ma le cose vanno dette con chiarezza. Quando si propone di battersi genericamente per “la Libertà, la Liberazione e la Giustizia”, quando si chiede a gran voce che vengano “tolti i fondi [defunding] alla polizia” o addirittura che venga “abolita la polizia” (!), quando si esalta “il proprio contributo a questa società” (!), non si fa altro che avanzare un ennesimo, demagogico programma riformista che evita di prendere di petto le questioni reali: da dove hanno origine il razzismo, le disuguaglianze sociali, la miseria crescente e la costante oppressione? che cos’è e come funziona il modo di produzione capitalistico? che cos’è lo Stato, che funzioni svolge e come si articola politicamente e militarmente? e via dicendo…6. Così, al proletariato (nero e di qualunque “colore”) si offre solo un pacchetto ben confezionato di illusioni tratte dal plurisecolare bagaglio di ideologie piccolo-borghesi: i “diritti”, la “giustizia”, la “libertà”, la “felicità”, il “benessere”, l’“autonomia della propria comunità” – il tutto, ovviamente, da reclamare entro i limiti di questa società, di questo modo di produzione. Che è un po’ come chiedere al pitone di non inghiottire le sue prede.
Lo stesso vale per il Movement for Black Lives (MBL), coalizione di gruppi diversi (fra cui lo stesso BLM), che ha come propria piattaforma i seguenti punti… “qualificanti”:
1. Fine della guerra contro la gente nera.
2. Riparazioni per i danni passati e presenti.
3. Disinvestimento delle istituzioni che criminalizzano, imprigionano e danneggiano la gente nera; investimento nell’educazione, sanità e sicurezza della gente nera.
4. Giustizia economica per tutti e ricostruzione dell’economia in modo da assicurare che le nostre comunità dispongano di proprietà collettiva e non soltanto di accesso.
5. Controllo comunitario delle leggi, istituzioni e politiche che hanno più impatto su di noi.
6. Indipendente potere politico nero e auto-determinazione nera in tutte le aree della società7.

Qui di nuovo balza agli occhi con chiarezza il carattere ultra-riformista (di un riformismo profondamente demagogico: quale dovrebbe essere il potere che concede tutto ciò? che pone fine alla “guerra contro la gente nera”? che attua la “giustizia economica”, disinveste e investe, e offre riparazioni per i danni subiti, ecc. ecc.?!), insieme a una visione “separatista” (indipendente potere politico nero e auto-determinazione) e in fin dei conti ghettizzante. Un autentico vicolo cieco, che riserva solo nuovi massacri alle avanguardie di lotta che vi si lascino trascinare dentro.
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Certo, BLM e MBL non esauriscono il panorama dei gruppi emersi nei mesi scorsi durante le manifestazioni e mobilitazioni che hanno attraversato e continuano ad attraversare il Paese, da Minneapolis a Portland, da New York a Lafayette e a Louisville, e decine e decine di altre città. Ma non è facile orientarsi in questa vera e propria galassia, di cui non sempre si hanno notizie precise e affidabili. Sappiamo tuttavia che, accanto alle organizzazioni improntate a un blando riformismo e in risposta all’azione di milizie armate bianche suprematiste, sono comparsi gruppi minoritari di militanti neri che rivendicano l’aperto possesso di armi, come regolato dalla Costituzione statunitense (Secondo Emendamento). È il caso della Not Fucking Around Coalition (NFAC; traduzione possibile: Coalizione di quelli che non vanno in giro a cazzeggiare), che pare avere collegamenti con il New Black Panther Party (da tempo però sconfessato dai “vecchi” militanti dell’originario Black Panther Party) e da cui paiono prendere le distanze sia BLM sia MBL. Non siamo al momento in possesso di informazioni più certe di quelle che si possono ricavare dalla rete8. Ma quel che ci interessa sottolineare qui, a conferma delle profonde contraddizioni del variegato movimento sviluppatosi dopo l’omicidio di George Floyd, è che nel programma della NFAC compare una rivendicazione su cui vale la pena di soffermarsi rapidamente, per riprenderla ancora in futuro. Non si tratta tanto della rivendicazione di un “ritorno all’Africa” (o ad altro Paese disposto a… concedere agli “esuli neri” un territorio su cui istituire una propria “nazione”!), vecchio cavallo di battaglia del movimento nazionalista nero creato da Marcus Garvey nei primi decenni del ‘900, quanto di quella della creazione di una “nazione nera separata” all’interno degli Stati Uniti, individuata in questo caso nel Texas!...
La cosa a tutta prima può lasciare sconcertati. Il fatto è che questa rivendicazione ha una sua storia particolare, ed eloquente. Preceduta da non poche proposte di questo tipo fra ‘800 e ‘900, essa venne poi fatta propria e avanzata, dopo il VI Congresso (1928) di un’Internazionale Comunista ormai espressione del trionfante stalinismo, dal Partito Comunista statunitense, pienamente allineato con Mosca: il “diritto all’autodeterminazione” veniva così applicato in maniera del tutto estemporanea, con un richiamo distorto, tipico dello stalinismo, alle classiche “Tesi sulla questione nazionale e coloniale” del II Congresso dell’Internazionale (1920), individuando negli Stati che formavano la cosiddetta Black Belt, la “Cintura Nera” degli Stati del sud, la “colonia” dove sarebbe dovuta nascere una “Nazione Nera Separata e Indipendente”!...9. Va detto che, mentre la rivendicazione originaria, del 1928, rientrava almeno in una prospettiva di lotta, per quanto deviata negli obiettivi, nel caso della NFAC essa si riduce a una… richiesta. Al di là dei risvolti tragicamente folkloristici di questa riesumata rivendicazione, la “questione nazionale” non smette dunque di influenzare negativamente le lotte dei proletari di tutti i colori, e continua a risorgere anche nelle sue forme più banali e confusionarie. Va detto che di quest’ideologia nazionalista separatista, caddero vittime anche militanti come Malcolm X (che tuttavia, negli ultimi mesi di vita prima del suo assassinio nel 1965, stava lentamente allontanandosene); e che importanti tentativi di dare voce e organizzazione, nei tardi anni ’60, alle lotte operaie d’avanguardia nelle cittadelle industriali del Nord (Detroit in primis) con la costituzione di organismi come la League of Revolutionary Black Workers o il Dodge Revolutionary Union Movement soffrivano del medesimo orientamento: di separazione e contrapposizione, sul luogo di lavoro, fra proletari neri e proletari bianchi. Cadevano cioè in un doppio errore, tragico perché divisivo, teorizzando e praticando che l’organismo sindacale (che deve essere aperto, senza discriminanti e senza discriminazioni), fosse composto a) di elementi solo neri e b) di elementi già arrivati a una consapevolezza politica rivoluzionaria.
Lo stesso combattivo militante operaio James Boggs, uno dei punti di riferimento sicuramente più avanzati del movimento nero negli anni ’60 e ’70, partendo dalla giusta analisi riguardo al proletariato nero come settore più sfruttato e perseguitato del proletariato statunitense, finiva per sostenere la necessità di un’organizzazione rivoluzionaria nera separata cui affidare la direzione di una futura rivoluzione nera americana, rifiutando l’apporto di proletari bianchi perché aspettarsi che “la lotta per il potere nero” comprenda gli operai bianchi significa aspettarsi che “la rivoluzione accolga il nemico nel proprio campo”10
Non c’è dubbio. L’ideologia razzista è penetrata nel profondo della società USA e continua ad avvelenare ampi strati di aristocrazia operaia e di “bianchi poveri”. Essa va combattuta. Ma come? In parte, sono le dinamiche stesse, oggettive, della lotta di classe a offrire il terreno adatto a questo lavoro di sgretolamento, di critica aperta. Ma è proprio qui, su questo terreno, che si dimostra urgente la presenza attiva del partito rivoluzionario, l’unico in grado di condurre questa battaglia. Torneremo ancora su queste questioni vitali, che – ribadiamo – non sono specifiche degli Stati Uniti, ma riguardano il movimento proletario di tutti i paesi. Per il momento, è necessario sottolineare che la nostra prospettiva si oppone a ogni visione separatista: al contrario, lavoriamo per la rinascita di organismi di base aperti a tutti i proletari indipendentemente dalla nazionalità, dalla lingua, dall’etnia, dall’età, dal genere, dalla collocazione (non) lavorativa, che si facciano carico della lotta per la difesa delle condizioni di vita e di lavoro di proletari e proletarie; e per il radicamento internazionale del partito rivoluzionario, caratterizzato da unità di principi, teoria, programma, tattica, organizzazione, composto di militanti che hanno saputo “dimenticare, rinnegare, strapparsi dalla mente e dal cuore la classificazione in cui [li] iscrisse l’anagrafe di questa società in putrefazione”11, uniti quindi da un comune lavoro politico e dalla comune volontà di battersi per il comunismo.
Parlando dei messico-americani (chicanos), scrivevamo nel 1978: “È perciò che un compito fondamentale negli USA è oggi di strappare i lavoratori dei diversi gruppi alle tentazioni del reciproco crumiraggio, che d'altra parte sono favorite dalle varie politiche ‘nazionalistiche’. Ed altrettanto vitale è combattere queste ultime, sottraendo i lavoratori a una imbelle politica democratica mascherata da rivoluzione e magari da socialismo; sottrarli al tentativo piccolo-borghese di separare il proletariato chicano (come quello nero) dal resto della classe operaia col risultato di privare la classe operaia americana dell'apporto di energie nuove e vitali, e di isolare queste dal corpo della loro classe”12. Appunto in questo consiste il lavoro, “anti-razzista” perché anti-capitalista, del partito rivoluzionario

***
Esiste dunque una “questione nera” negli Stati Uniti? No. Esiste una condizione sociale e di classe, distorta e deviata dal razzismo diffuso, istituzionale e non, ma anche dall’anti-razzismo democratico-riformista, ed è questa tragica condizione che reclama a gran voce la teoria rivoluzionaria e il radicamento del partito di classe. Scrivevamo nella seconda parte dell’articolo del 1967: “Per amara che sia, la constatazione va fatta: non nell’azione pratica, ma nell’indirizzo politico e nella sua traduzione in dottrina e programma, neppure dal seno dell’eroico proletariato negro si è levata – ma è colpa nostra, di noi militanti degli orgogliosi paesi capitalistici avanzati – la parola che sola può spalancare le porte dell’avvenire: Proletari di tutto il mondo, di tutte le ‘razze’, di tutti i paesi, unitevi per l’abbattimento del regime capitalistico e per l’instaurazione della vostra dittatura! Non ‘potere negro’, ma ‘potere proletario!’. Così, una volta di più la necessità della teoria rivoluzionaria marxista e del partito di classe, suo portatore e suo organo di battaglia, in America – e dire America è dire mondo – è posta con drammatica urgenza dalla grande luce e dalle terribili ombre dei fatti di Newark e di Detroit”13.
È passato più di mezzo secolo da quei fatti e da queste nostre parole. E, mentre il modo di produzione capitalistico si dibatte sempre più selvaggiamente e distruttivamente nella propria crisi, massacrando proletari e proletarie, distruggendo terra e acqua e aria, avvicinando il tempo di una nuova carneficina mondiale, quella necessità si fa sempre più urgente.


1 Limitiamoci ad alcuni dati (ufficiali). Nel secondo quarto del 2020, il salario medio settimanale di un occupato a tempo pieno era di $805 per i neri e di $786 per gli ispanici, contro i $1.017 per i bianchi (per un lavoratore nero, risultava il 74,3% del corrispettivo per un lavoratore bianco; per un lavoratore ispanico, era il 75,4%; per una lavoratrice nera, l’83,9% di una lavoratrice bianca; per una lavoratrice ispanica, del 77,2%) (dati del Bureau of Labor Statistics dell’U.S. Department of Labor, Comunicato stampa del 17 luglio 2020. Quanto al tasso di disoccupazione, sempre nel secondo quarto del 2020 era del 17,4% fra i lavoratori afro-americani, del 16,9% fra quelli ispanici, del 13,3% fra quelli asiatici e del 10,8% fra quelli bianchi (da Economic Policy Institute, agosto 2020, https://www.epi.org/indicators/state-unemployment-race-ethnicity/). Bisognerebbe poi far riferimento anche alle condizioni abitative, all’assistenza sanitaria, ecc. Ma già questi dati parlano chiaro.
2 Vedi “Il movimento delle ‘pantere nere’”, il programma comunista, n.5/1971 (ripubblicato nel n.5-6/2016); e “Il proletariato chicano: Un potenziale rivoluzionario da difendere”, il programma comunista, nn.1, 2, 3/1978, www.internationalcommunistparty.org.
3 Cfr. “La collera ‘negra’ ha fatto tremare i fradici pilastri della ‘civiltà’ borghese”, il programma comunista, n.4/2020, www.internationalcommunistparty.org.
4 I due articoli (“Gloria ai proletari negri in rivolta” e “Necessità della teoria rivoluzionaria e del partito di classe in America”) si possono leggere in il programma comunista, n.5-6/2020, www.internationalcommunistparty.org.
5 Vedi anche solo “Democrazia e Stato borghese sono due nemici perenni del proletariato”, il programma comunista n.4/2011, e “A proposito dei recenti avvenimenti nel mondo arabo”, il programma comunista, n.6/2012, www.internationalcommunistparty.org.
6 Vedi www.blacklivesmatter.com.
7 “Movement for Black Lives”, Wikipedia versione inglese. In verità, che altro ci si può aspettare da organizzazioni abbondantemente foraggiate dalla… Ford Foundation?!
8 “Not Fucking Around Coalition”, Wikipedia versione inglese.
9 D’obbligo il riferimento al classico testo di Theodore Draper, American Communism and Soviet Russia (Cap. 15: “The Negro Question”), Vintage Books, 1960, 1986, che contiene ampi riferimenti a fonti del PC americano e dell’Internazionale.
10 Questo concetto di Boggs è espresso sia in Lotta di classe e razzismo, Laterza, Bari 1968, che in Pagine dal block-notes di un lavoratore negro. La rivoluzione americana, Jaca Books, Milano 1968.
11 Da “Considerazioni sull’organica attività del Partito quando la situazione generale è storicamente sfavorevole”, il programma comunista, n.2/1965 (ora in In difesa della continuità del programma comunista, Edizioni il programma comunista, Milano 1989, p.167).
12 “Il proletariato chicano: Un potenziale rivoluzionario da difendere (III)”, cit., n.3/1978.
13 “Necessità della teoria rivoluzionaria e del partito marxista in America”, il programma comunista, n.16, settembre-ottobre 1967.

Partito comunista internazionale
(il programma comunista – kommunistisches programm – the internationalist – cahiers internationalistes)

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