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Gugliotta

Si apre una finestra sui metodi della polizia italiana

(14 Maggio 2010) Enzo Apicella
I TG trasmettono l'intervista a Stefano Gugliotta, che porta i segni del pestaggio immotivato da parte della polizia

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    (18 Gennaio 2021)

    prospettiva marxista 2

    Per comprendere il significato storico e politico dei fatti del 6 gennaio a Washington si può partire da ciò che non sono stati. Non si è trattato di un colpo di Stato e nemmeno di un suo tentativo.

    Non è questione di verificare la presenza o meno di requisiti tecnici e giuridici per l’utilizzo di una definizione. Il dato è politico, occorre cioè verificare se l’azione ha raggiunto un livello minimo di consistenza, di organizzazione, di progettualità e coordinamento per costituire l’effettivo tentativo, per quanto sconfitto, di sostituire un potere politico con un altro. Che la scomposta, caotica irruzione nel Campidoglio, con il seguito di passeggiata dimostrativa e invasione di sale e uffici a scopo selfie, possa aver rivestito questo significato è insostenibile.
    È stata una tragica pagliacciata. Tragica per almeno due ragioni.

    Non solo, infatti, ci sono scappati i morti (per quanto il numero e le circostanze dimostrino ancora una volta un livello di scontro inavvicinabile a quello che si sarebbe verificato nel caso di un autentico tentativo di frazioni borghesi di prendere il potere contro altre, scavalcando la prassi democratica e l’ordinamento costituzionale). Ma è stata tragica, almeno per chi come noi è impegnato nella lotta per l’acquisizione e il radicamento di una coscienza di classe rivoluzionaria e internazionalista, anche perché l’eterogenea composizione sociale della galassia che ha raccolto l’appello di Donald Trump a raggiungere Washington – andando probabilmente anche oltre i piani e le previsioni del gruppo di potere raccoltosi intorno al presidente uscente – non ha mancato di comprendere anche proletari che si sono fatti strumento di uno scontro interno alle frazioni borghesi.

    La visione di sfruttati del sistema capitalistico che eleggono a simbolo di un assurdo sogno di riscatto un miliardario cresciuto nel privilegio e che si gettano in una caricaturale sollevazione impregnati di ideologie scioviniste e razziste, avvolti in logore e deliranti bandiere, è per noi amara. Quando disagi, risentimenti che hanno le loro oggettive radici nell’oppressione di classe non si incontrano con la comprensione del sistema, della struttura sociale che sorregge e alimenta questa oppressione, quando manca persino l’acquisizione del concetto di classe, la conclusione non può che essere la deviazione di questo risentimento dalle sue reali cause e l’utilizzo come massa di manovra nella disputa tra componenti della classe dominante.

    Ci amareggia (ma ci conferma ancor più nella nostra convinzione della validità del marxismo e delle ragioni storiche della militanza marxista) vedere proletari intruppati dietro una frazione borghese e identificare come bersaglio delle loro azioni componenti politiche e istituzioni non in quanto espressione del dominio di classe che segna, condiziona e schiavizza la loro esistenza proletaria, ma in quanto avverse o non controllate dal loro presunto paladino, che in tutti gli elementi fondamentali della propria natura di classe è accomunabile ai suoi avversari nello spettro politico borghese. Quando poi il bersaglio del risentimento di questi proletari diventano altri proletari di differente colore della pelle od appartenenza etnica, nazionale o confessionale, possiamo purtroppo assistere alla comparsa di tutte le mostruosità che l’oblio della coscienza di classe, degli insegnamenti della lotta di classe, puntualmente provoca. Tutto ciò non ha nulla a che vedere con l’indignazione dei borghesi democratici per la violazione dei sacri templi della democrazia da parte di un “popolaccio” ignaro del significato e dei meccanismi della rappresentanza. Non ci scandalizza certo l’impiego della forza e l’utilizzo della violenza nella lotta di classe e contro le istituzioni al servizio dello sfruttamento e del dominio di classe, denunciamo invece la valenza ingannevole e reazionaria della violenza che, sprigionata dallo scontro tra componenti borghesi, contagia, intossica, instupidisce e asservisce elementi della nostra classe. Non giocare mai con l’insurrezione, ha insegnato Lenin al culmine di una possente riflessione militante sulla lezione rivoluzionaria del marxismo. Questo insegnamento non poteva essere recepito dalla massa di manovra in marcia sul Campidoglio, miscuglio interclassista infarcito di ideologie reazionarie e sedotto dalle squallide sonorità di pifferai magici che devono la loro fortuna agli effetti mortificanti di anni e anni di assenza della profonda funzione educativa di vasti movimenti di lotta di classe. La tragicità farsesca dei proletari coinvolti nell’irruzione nella sede del Congresso risiede nel fatto che hanno giocato con un’insurrezione che nemmeno gli appartiene, nemmeno maldestramente diretta a soddisfare propri interessi. Non pochi tra loro pagheranno duramente questo gioco brutale e dissennato. Scaricati dai loro padrini borghesi, che, presto o tardi, dismetteranno gli abiti eversivi tornati ad essere d’impaccio nell’esercizio della loro funzione sociale, conosceranno (e alcuni di loro già conoscono) storie di licenziamento, di difficoltà a trovare lavoro, di procedimenti giudiziari, di spese legali e di prigione. Il tutto per aver creduto che i problemi delle loro esistenze proletarie risiedessero nel presunto scippo elettorale attuato da una banda di sfruttatori ai danni di un’altra. Si troveranno immolati sull’altare della democrazia borghese senza che le loro azioni l’abbiano mai nemmeno messa in discussione.

    Ma anche Trump, il suo clan, la sua cerchia politica più stretta, stanno pagando (ovviamente non nei modi e nei termini dei suoi supporter mandati allo sbando a Capitol Hill) i costi dell’aver giocato con l’insurrezione. Nell’arco di un pomeriggio il miliardario è passato dal ruolo di baldanzoso guastatore della scena politica statunitense, ringalluzzito da un numero record di voti repubblicani alle presidenziali del 3 novembre, a quello d’interprete impacciato di un copione con cui prendere le distanze dal fattaccio e contemporaneamente non perdere il legame con un bacino elettorale che, come gli eventi hanno dimostrato, solo in misura più contenuta di quanto si potesse pensare può controllare e dirigere veramente. Prima dello sbracato assalto al Campidoglio era in posizioni di forza per esercitare una pressione formidabile sul partito repubblicano e teneva in pugno l’Amministrazione ancora in carica, dopo ha dovuto assistere impotente ad una sequela di prese di distanza, di rinvigorite riemersioni di oppositori interni prima costretti ad una drastica marginalità, di abbandoni da parte di esponenti di primo piano dell’Amministrazione. Ciò non significa che Trump o ciò che è stato indicato come trumpismo siano giunti al capolinea. Anzi, magari con nomi e simboli differenti, potrebbero segnare ancora in maniera profonda il panorama politico di un imperialismo americano attraversato da contraddizioni sociali rese più acute dal progredire di un processo di relativo indebolimento a livello globale. Ma la partita del mancato riconoscimento dell’esito della corsa alla Casa Bianca si è chiusa davvero con l’irruzione nel Campidoglio e si è chiusa con un netto ridimensionamento degli spazi di azione di Trump. Ma dobbiamo al contempo rilevare che questa partita, inedita per gravità e virulenza dello scontro politico, inedita per la durata, i modi e le implicazioni del mancato riconoscimento della sconfitta da parte del presidente uscente, ha avuto bisogno di raggiungere un nuovo, ennesimo, ulteriore gradino sulla scala dell’inedito nella storia statunitense, per trovare una soluzione. Anche questo ci dice qualcosa, e qualcosa di importante, sulla condizione odierna del grande arsenale della democrazia imperialista.

    Prospettiva Marxista

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