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Buona resa dei fondi pensione?

la posizione sconcertante di una dirigente Cgil

(25 Ottobre 2005)

Dall'articolo di Morena Piccinini della segreteria confederale Cgil, intitolato "Chi teme i fondi pensione", pubblicato su Il Manifesto dell'8 ottobre, apprendiamo (con sincero sconcerto) che i fondi negoziali avrebbero dato buona prova di loro.......
Sarà il caso che Piccinini fornisca i dati su cui fonda questa sua valutazione alla COVIP, dato che i dati ufficiali di quest'ultima dicono che i rendimenti dei fondi negoziali nel periodo dal 1999, ovvero da quando sono partiti, al 2004, sono stati normalmente battuti dal bistrattato rendimento del TFR.

La Piccinini si sarebbe dovuta riferire ad un confronto interno tra fondi pensione - qui è vero, gli aperti sono stati semplicemente catastrofici- e, per decenza e amore di verità, avrebbe dovuto parlare di "meno peggio", senza millantare un'efficacia del fondo pensione negoziale che è fuori della realtà e dai fatti.

Se parliamo inoltre della democraticità della gestione finanziaria dei fondi negoziali, c'è da dire che i consigli d'amministrazione paritetici (ma i lavoratori, quelli che avrebbero voce in capitolo, hanno votato i loro rappresentanti?), hanno poco più di un potere di indirizzo. Chi opera finanziariamente, chi gestisce realmente i soldi dei lavoratori, sono i "gestori finanziari" del fondo, e sono tutt'altra cosa. Tanto per fare alcuni esempi : i gestori finanziari del Cometa, il fondo dei metalmeccanici, sono Generali, Paribas, Unicredit, Sampaolo-Imi, Aig-Invesco e Cisalpina-Putnam; i gestori del Fonchim, il fondo dei chimici, sono Generali, Ras, Creditrolo, Unipol-Citibank e (sic) Mediolanum-State Street.

In altre parole, e se vogliamo dirla tutta, nessuno discute il fatto che i Fondi negoziali siano "meno peggio", ma ciò non toglie che i loro sostenitori stiano partecipando ad una "zuffa" parimenti con altri, certo peggiori, concorrenti per assicurarsi la fetta più grande di una torta stimata nell'ordine dei tredici miliardi di euro all'anno (ventiseimila miliardi di vecchie lire - una signora finanziaria!) e che è costituita dal TFR, ovvero da soldi dei lavoratori.

La cosa triste è che in questa zuffa poco o niente centrino vecchiaia e pensione dei lavoratori. E questo appare evidente da qualche considerazione, che tra "i litiganti", guarda caso, nessuno fa.

Nel tentativo di rassicurare i datori di lavoro e la Confindustria, che (dal loro punto di vista) temono di perdere con il TFR il principale strumento di autofinanziamento delle imprese, il ministro Maroni ha cavato dal cilindro la bella ricetta della fiscalizzazione di quelli che ha definito "oneri impropri", ovvero i contributi che i datori di lavoro versano per assicurare ai lavoratori i trattamenti per la malattia, la maternità e gli assegni familiari. Nella sostanza, le imprese che dovranno rinunciare al TFR a favore di un Fondo pensione, non dovranno più versare questi contributi (che assommano al 5,13% delle retribuzioni).
Il Ministro dice che questa fiscalizzazione sarà calcolata in modo da coprire la differenza tra il rendimento offerto dal TFR ed i tassi applicati dalle banche ai prestiti erogati alle imprese. Questo allora significa, facendo "i conti della serva" e mantenendoci prudenti, che questa fiscalizzazione riguarderà almeno 3 di quei 5,13 punti percentuali (con un'inflazione al 2%, quale banca fa prestiti a meno del 6%?). Bene, ma queste indicazioni percentuali non danno un'idea di quello di cui si sta parlando.
Nei fatti di cosa parla Maroni? Se l'operazione del trasferimento del TFR avesse pieno successo starebbe parlando di qualcosa come cinque miliardi di euro all'anno (i bilanci dell'INPS sono pubblici e scaricabili dalla rete).
A questo costo vanno aggiunte le minori entrate per le deduzioni fiscali previste (prendiamo a base i 13 miliardi di euro annui che si diceva) e che spettano per le cifre cedute dalle imprese ai fondi pensione. Considerato il rapporto tra grande industria e la pmi in Italia, possiamo calcolare queste minori entrate intorno ai 715 milioni di euro all'anno.

C'è poi ancora da aggiungere il costo di finanziamento e di gestione del Fondo di garanzia per l'accesso al credito delle imprese, che Maroni ha precisato essere a totale carico dello Stato e che i tecnici del ministero hanno ipotizzato per il 2006 nell'ordine dei 200 milioni di euro. In sostanza, se la cosiddetta riforma previdenziale avesse pieno successo questo giochetto del TFR nei fondi pensione rischierebbe di costare intorno ai 6 miliardi di euro all'anno. Una "sciocchezza" che qualcuno - i lavoratori, chi altro? - dovrà pagare con meno prestazioni e meno servizi.
In realtà, se il problema fosse sostenere il reddito dei futuri pensionati ci sarebbe un'altra strada. Se fossero riconosciuti al TFR gli stessi trattamenti fiscali e contrattuali (vero Piccinini, a proposito di portabilità?) riconosciuti ai soldi dati ai Fondi pensione nel tentativo di rendere questi presentabili ed appetibili rispetto allo stesso TFR, tutta la questione potrebbe essere risolta molto semplicemente ed efficacemente incrementando di due punti percentuali il tasso di rivalutazione del TFR (dall'1,5% + il 75% dell'inflazione al 3,5% + il 75% dell'inflazione), assicurando alle imprese che lo utilizzano una deduzione fiscale analoga su quella cifra.

Questa semplice misura farebbe si che il TFR del lavoratore si rivaluterebbe del 4,5% con un inflazione all'1%, del 5% con un'inflazione al 2%, del 6,50% con un'inflazione al 4%, dell'8,75% con un'inflazione al 7% e così via, sino ad un 18,5% in caso di un balzo inflazionistico del 20%.
Quale fondo potrebbe fare altrettanto?


Questa semplice, banale soluzione non comporterebbe la necessità di fiscalizzare nessun contributo, eliminerebbe il problema dell'accesso al credito delle imprese che conserverebbero il TFR e costerebbe (sempre prendendo a base i 13 miliardi di euro all'anno) in totale e senza strascichi di sorta, solo 260 milioni di euro all'anno. Praticamente siamo nell'ordine del costo stimato per il solo Fondo di Garanzia per l'accesso al credito delle aziende.
E' l'uovo di Colombo? Nell'ottica di sostenere il reddito dei futuri pensionati, si. Certamente no per Maroni e la Confindustria. In quanto a Piccinini, sarebbe interessante sapere cosa ne pensa.

Severo Lutrario – Attac Italia

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