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    L’eredità di Angelo Del Boca fra colonialismo e neocolonialismo

    (4 Agosto 2021)

    A quasi un mese dalla sua scomparsa, torniamo a riflettere sul contenuto e sul valore politico attuale degli studi e della ricerca di Angelo Del Boca

    Angelo Del Boca

    La morte di Angelo Del Boca, avvenuta a inizio luglio, ha suscitato tanti commenti agiografici, ma sono mancate le ricostruzioni che riflettessero sull’attualità della sua opera collegando il colonialismo classico del quale si era occupato al neocolonialismo.
    Del Boca è diventato famoso per essere stato il primo a svelare i crimini del colonialismo italiano, ostinatamente negati per decenni da tanti cosiddetti patrioti. Forse, tra chi legge molti sapranno già i dettagli salienti della vita di Del Boca. Costretto ad arruolarsi nella RSI per salvare il padre, in seguito partigiano, poi giornalista, poi storico coraggioso e controcorrente. Tutti questi ingredienti sono sufficienti per avere l’immagine di un uomo ammirevole. Angelo Del Boca ha avuto una vita lunga e intensa, affrontata “a muso duro”, come direbbe Pierangelo Bertoli. Ora che non c’è più, deve servire da esempio soprattutto per i giovani, che potranno certo profittare dalla lettura dei suoi numerosi libri.

    Questo intervento, però, non vuole essere un mero coccodrillo agiografico, ma un’occasione di riflessione sull’attualità dell’opera di Del Boca, e più in generale sul colonialismo e il neocolonialismo, e su come gli intellettuali e l’accademia borghese hanno affrontato e affrontano questi temi.
    Una primissima osservazione si impone: benché Del Boca sia riuscito a insegnare storia all’università, non era uno storico di professione, ma un giornalista. Numerosi articoli comparsi in occasione della sua morte hanno sottolineato che i suoi primi lavori, infatti, vennero accolti con scetticismo dagli ambienti accademici.
    Giornalista, sì, ma non un giornalista qualunque, dato che Del Boca era stato militante del PSIUP. A prescindere dal giudizio che si può dare su questo partito, pare evidente che Del Boca abbia impersonato lo spirito migliore del giornalismo e della ricerca storica. Un giornalismo e una ricerca non ipocritamente “obiettive” (soprattutto quando l’obiettività sta sempre dalla parte dei più forti), ma militanti e impegnate nel miglior senso del termine (con buona pace degli accademici borghesi che, lo so bene, usano il termine “militante” in segno di spregio).
    Sarebbe anche interessante chiedersi perché nessuno dei cosiddetti storici accademici prima di lui non si fosse occupato sistematicamente del colonialismo italiano. Un caso? Può darsi, ma vale anche la pena far notare che l’accademia borghese è tendenzialmente al servizio della classe dominante, con buona pace di tutte le proclamazioni di neutralità e oggettività che si vuole (e più sono frequenti e ostentate, meno sono credibili). Ciò è vero per tutte le epoche e per tutti i paesi, ma è anche vero che il sistema baronale italiano ha delle caratteristiche particolari che lo rendono per certi versi peggiore, più asservito e acritico di quello di altri paesi. Il fatto che l’università italiana funzioni in modo puramente cooptativo - cioè premiando la fedeltà ai baroni e non l’autonomia di pensiero e la critica – non facilita certo l’opera di persone che vogliono andare controcorrente, e sicuramente non ha facilitato neanche quella di Del Boca [1]. Per fare un esempio clamoroso, non dimentichiamoci che quasi tutti i professori universitari accettarono di prestare giuramento al fascismo durante il Ventennio.

    Tornando alla centrale questione del colonialismo italiano, non si può non menzionare la lunga polemica che Angelo Del Boca ebbe con Indro Montanelli.
    Per chi non li sapesse già, questi i fatti. Indro Montanelli si arruolò volontariamente – è bene sottolinearlo – per colonizzare l’Etiopia. Fu pertanto pienamente complice e nel suo piccolo responsabile di tutti i crimini commessi dagli italiani in Etiopia. Un errore di gioventù, in seguito al quale il famoso giornalista si era ravveduto, magari chiedendo simbolicamente scusa al popolo etiope? Niente affatto. Nei decenni successivi e in numerose interviste, Montanelli aveva da un lato negato spudoratamente i crimini coloniali italiani, e dall’altro aveva ironizzato sulle sue prodezze virili. Queste inclusero l’acquisto di una giovanissima moglie (non è dato sapere che fine abbia fatto) e l’aver lasciato sul campo etiope «tanti piccoli Indri» (l’espressione è di Montanelli).
    L’acquisto di Montanelli è stato spesso scusato col fatto che all’epoca comprare una moglie, anche di età giovanissima, era normale in Etiopia. Bisogna però tenere in considerazione i rapporti di potere, cioè il fatto che Montanelli si trovava in Etiopia come membro di una forza occupante, e anche la cosiddetta “missione civilizzatrice” del colonialismo, in questo caso italiano. Se la missione coloniale aveva l’obiettivo di “civilizzare” i selvaggi etiopi, perché Montanelli ricorse a una pratica che secondo i criteri italiani sarebbe sicuramente considerata vergognosa e incivile? Sarebbe interessante porre la domanda a Montanelli stesso, ma purtroppo non può rispondere perché non è più fra noi.

    Per certi versi, però, i fantasmi delle persone che non ci sono più continuano a vagare anche dopo la loro scomparsa. È il caso di Montanelli, il quale negli ultimi anni di vita era stato ammantato da un mito acritico. Considerato uno dei più grandi giornalisti italiani, anche a sinistra (non aveva forse litigato con Berlusconi?), la massa dei suoi adulatori si è sempre guardata bene dal far notare i suoi metodi un po’ farlocchi (lui stesso non esitava a dire che nel giornalismo era lecito usare la fantasia e anche le balle vere e proprie), e i suoi trascorsi fallo-coloniali. Sembra dunque logico che dopo la morte gli siano stati dedicati dei luoghi pubblici, come i Giardini Pubblici di Milano, con tanto di statua dorata. Quella statua è saltata agli onori delle cronache nell’estate del 2020 quando, anche in seguito all’esplosione del movimento Black Lives Matter negli USA, è stata imbrattata di vernice e con le scritte “Razzista” e “Stupratore”. Chiaramente, si trattò di un’azione simbolica. Un po’ di vernice e delle scritte (per altro veritiere) non disfano certo i crimini del colonialismo italiano, né disfano il razzismo di stato del quale sono vittima gli immigrati, gli odierni soggetti neocoloniali.
    Anche qui, è interessante notare quali sono state le reazioni dell’accademia borghese all’epoca. Anziché contestualizzare e spiegare storicamente questa azione, la si è soprattutto bollata come un criminale tentativo di “cancellare la storia”. Che sparata, mi verrebbe da dire a lor signori! Gli storici d’accademia farebbero bene a imparare che la Storia non è una materia statica e definita, ma cambia. Cambia in tanti modi, e cambiano anche le concezioni che i contemporanei hanno del passato. È per tanto del tutto spiegabile e per niente scandaloso che delle/gli attiviste/i abbiano deciso di compiere questo gesto simbolico e provocatorio, che appunto per quanto simbolicamente ha rappresentato una piccola “resa dei conti” col l’eredità coloniale italiana.

    Per concludere la discussione sull’eredità di Del Boca, è indispensabile parlare dei concetti di colonialismo e neocolonialismo.
    Il colonialismo classico – del quale si occupò Del Boca – è stato un sistema di conquista e di sfruttamento militare, politico ed economico che è durato per secoli. Quella del colonialismo classico è un’epoca che si è definitamente conclusa, ed è assai difficile che si ripresenti nelle stesse forme del passato, per lo meno nel futuro prossimo. Ma, come si diceva sopra, la storia è fluida e dinamica, e certe realtà possono cambiare senza però scomparire del tutto.
    È anche il caso del colonialismo.
    Già durante la definitiva spallata anticoloniale novecentesca, infatti, molti leader e pensatori anticoloniali si resero conto che il colonialismo classico poteva lasciare il posto a un nuovo fenomeno chiamato neocolonialismo. Il termine – popolarizzato probabilmente dal ghanese Kwame Nkrumah in un famoso libro del 1965 – sta ad indicare una nuova forma di colonialismo, diversa e più sottile di quella classica. Il colonialismo classico implica la totale dipendenza militare e politica di una colonia verso una potenza coloniale. Una volta raggiunta l’indipendenza formale, però, una ex colonia può ancora essere vittima di neocolonialismo. Se la ex madrepatria continua ad esercitare un enorme potere politico ed economico sulla sua ex colonia, è chiaro che l’indipendenza è soltanto formale.
    Non solo, ma come saggiamente notava Kwame Nkrumah, la potenza neocoloniale che assoggetta un paese non necessariamente deve essere la ex madrepatria, anzi, non è neanche necessario che sia una entità statale. Certo, Nkrumah si era accorto che con la decolonizzazione le potenze europee stavano perdendo terreno in favore dell’imperialismo americano, dal quale era bene guardarsi in quanto possibile fonte di neocolonialismo. Ma un paese postcoloniale, soprattutto se piccolo, debole e con una economia poco diversificata, può essere benissimo dominato da una multinazionale o da un gruppo di multinazionali straniere. Queste potenze neocoloniali possono tranquillamente fare il bello e il cattivo tempo, e prendere di fatto qualunque decisione d’importanza per i propri interessi. Chi governa formalmente il dato paese sa che può stare in sella solo in quanto è gradito dalla potenza neocoloniale. In caso contrario, lo si può levare di mezzo in tanti modi: golpe militare, omicidio, intrighi di palazzo, sovvenzionando disordini e movimenti separatisti (che, guarda un po’, solitamente si trovano sempre nelle regioni più ricche di oro, diamanti, petrolio, coltan, cobalto, bauxite ecc. ecc., cioè di quelle materie prime alle quali la potenza neocoloniale di turno è di volta in volta interessata).
    Una cosa, questa, da tenere in conto quando si sente l’Africa dipinta come un continente di tribù selvagge che non fanno altro che scannarsi fra loro per motivi futili. È indubbio che l’estrema diversità etnica dell’Africa e le tante antipatie interetniche abbiano giocato e giochino ancora un ruolo nei conflitti che la martoriano. Però, studiando in profondità questi conflitti, spesso e volentieri si ha l’impressione che le questioni etniche o religiose non siano altro che una utile cortina di fumo per nascondere i reali interessi in campo (e che, chissà perché, solitamente vanno a finire in multinazionali e banche occidentali).

    Una cosa dev’essere chiara. Come abbiamo detto, il neocolonialismo era stato individuato e denunciato già durante la decolonizzazione, e ancora prima che essa fosse portata completamente a termine. Nel suo libro del 1965 Kwame Nkrumah era stato certamente troppo ottimista. Egli infatti vedeva il neocolonialismo come l’ultima fase dell’imperialismo, come una specie di colpo di coda che preannunciava la nascita di un nuovo sistema. A decenni di distanza, vediamo che le cose sono andate in modo diverso.
    Non solo il neocolonialismo è continuato, ma si è evoluto e ha preso nuove forme. Nkrumah e altri autori dell’epoca non avevano dedicato particolare spazio alle migrazioni dai paesi (ex) coloniali alle metropoli capitalistiche occidentali. Del resto, all’epoca il fenomeno era di dimensioni ben diverse da quelle attuali. Adesso, invece, può essere osservato e analizzato in tutta la sua portata, anche in paese come l’Italia dove l’immigrazione è minore e più recenti che in altri paesi (Francia, Germania, Regno Unito, ecc.).
    Per capire come il regime neocoloniale continui ancora oggi e come gli immigrati ne siano vittime, è indispensabile ricorrere al concetto di razzismo di stato (v. Pietro Basso, a cura di, Razzismo di stato. Stati uniti, Europa, Italia, Milano, Franco Angeli, 2010). Il razzismo di stato è costituito da tutte le pratiche istituzionali e giuridiche – e pertanto, perfettamente legali – che discriminano le persone in base alla loro provenienza. È cosa quindi diversa dal razzismo popolare, nella società, e dal razzismo dottrinale (i vari pensatori pseudoscientifici che cercano di dare al razzismo una patina intellettuale-accademica), anche se le tre forme sono senz’altro collegate.

    Razzismo di stato significa il ricatto dei permessi di soggiorno da rinnovare in continuazione presso le questure (quindi presso la polizia: giusto, gli immigrati in quanto tali non sono delinquenti? Bene, cominciamo subito con il discriminarli!), che godendo di ampio arbitrio possono concederli o negarli a proprio piacimento (le divise, del resto, hanno sempre ragione). Protestare non serve a nulla, dato che si può finire con il cranio spaccato a manganellate oppure “clandestini” senza permesso di soggiorno (e forse gli immigrati stessi non saprebbero dire quale delle due opzioni è la peggiore), e pertanto rinchiudibili a tempo indeterminato in un campo di concentramento (CPR, secondo la dicitura odierna). Una volta rinchiusi, la chiave è buttata e non si sa se e quando ne si uscirà (non stiamo a citare gli esempi di immigrati suicidati o ammazzati di botte in questi lager).
    Se ce ne fosse bisogno, ecco un’ennesima conferma del carattere (neo)coloniale del dominio dell’Italia verso gli immigrati. Infatti, il campo di concentramento inteso come luogo di detenzione per razze specifiche fu ideato dalle potenze coloniali (e non da Hitler o Stalin, contrariamente a quanto cianciano tanti ciarlatani; altro è che il nazismo è stato una radicalizzazione della tradizione coloniale europea, ma su questo non ci dilunghiamo).
    Gli immigrati non cittadini europei – e nella categoria, è curioso notarlo, sono compresi anche coloro regolarmente sposati con cittadini italiani – continueranno a essere discriminati fino a quando non riceveranno la cittadinanza italiana. La quale, coerentemente con la logica del razzismo di stato, è difficile o impossibile da ottenere per la maggior parte di essi. Numerosi e costosi documenti da richiedere nel paese di origine, migliaia di euro in pizzi legali (e talvolta illegali), anni e anni di attesa che possono trasformarsi in decenni, ignoranza, mala fede, atteggiamento ostile e razzista da parte delle prefetture (e delle onnipresenti questure) completano il quadro. È ovvio che la maggior parte dei sudditi neocoloniali non raggiungerà mai l’agognato traguardo, non diventerà mai da “negra” bianca, per usare questa metafora. È molto più probabile che crepi in un incidente sul lavoro, che finisca bruciato nella sua baracca di lamiera o con un colpo di lupara in faccia, come è successo a Soumaila Sacko.
    Ma qual è il motivo di questa discriminazione? Non si tratta di semplice antipatia, ma della necessità economica di sfruttamento neocoloniale. Esatto: gli immigrati non europei in Italia non sono altro che una colonia interna di sfruttamento, necessaria per quei lavori pesanti, pericolosi e sottopagati che gli italiani non vogliono più fare (facchini, badanti, braccianti, ecc.).
    Il razzismo di stato neocoloniale che li opprime è necessario per tenerli in una costante condizione di inferiorità e ricattabilità. Un immigrato con il permesso può essere sfruttato di più di un lavoratore italiano (la ghigliottina del rinnovo è sempre presente: e se non me lo rinnovano?), e un immigrato “clandestino” ancora di più! È un essere invisibile che può essere utilizzato alla stregua di un moderno schiavo.
    È ovvio che il sistema economico italiano non ha alcuna intenzione di modificare o anche solo alleviare le discriminazioni giuridiche contro gli immigrati. Se non fossero discriminati, potrebbero organizzarsi – magari assieme ai propri compagni italiani – per ottenere condizioni di lavoro migliori, ma questo non deve assolutamente accadere. Questo spiega anche perché, nonostante le tante chiacchiere sullo ius soli, non se ne sia mai fatto nulla. È bene che l’inferiorità razziale giuridicamente sanzionata sia ereditaria. Non sia mai che l’esercito neocoloniale di riserva manchi di effettivi…

    Per concludere. L’eredità di Angelo Del Boca può essere pienamente capita e apprezzata solo se si va oltre i suoi studi sul colonialismo, ma se si capisce anche il salto che il capitalismo ha fatto dal sistema coloniale a quello neocoloniale. Benché il neocolonialismo abbia fatto la sua comparsa già durante la decolonizzazione, non si è trattato affatto di un fenomeno passeggero. Anzi. Da allora il neocolonialismo si è evoluto e affinato, è cambiato in modi che spesso non sono stati pienamente compresi neanche dai comunisti.
    Per poter portare avanti una lotta di classe coerentemente internazionalista, è assolutamente necessaria una elevata capacità di comprensione di questi fenomeni. È vero, il razzismo statale/neocoloniale vuole produrre una classe di individui atomizzati, indifesi e senza diritti. Purtroppo, questo obiettivo viene spesso raggiunto, ma non sempre le cose vanno completamente bene per il regime neocoloniale. Il fatto che ormai da anni le lotte d’avanguardia della logistica siano portate avanti da lavoratori immigrati la dice lunga sul potenziale sovversivo dei dannati della terra, quando sono coscienti, organizzati, e determinati a non farsi de-umanizzare.
    E un’ultima riflessione può essere fatta anche sull’ultima escalation di violenza che ha colpito queste lotte. Il fatto che stato e padroni siano passati dalla repressione giudiziaria e poliziesca alle guardie armate e all’omicidio, paradossalmente, può essere un segno di debolezza, non di forza. Sta a noi del PCL saper cogliere per quanto possibile i segnali di radicalismo provenienti dal proletariato che lotta e i segnali di debolezza del fronte statale-padronale. Come già diceva Frantz Fanon sessant’anni fa, quando i dannati della terra si arrabbiano, il fronte padronale-neocoloniale non può più dormire sonni tranquilli.



    [1] Sul sistema baronale-cooptativo italiano, indispensabili i lavori di Giulio Palermo come Baroni e portaborse e altri, liberamente leggibili sul suo blog: https://giuliopalermo.jimdofree.com/libri-e-articoli/

    Elia Spina - pclavoratori.it

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