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Cori ingrati

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(21 Marzo 2010) Enzo Apicella
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    “LA NOSTRA CLASSE SEPOLTA”

    I nuovi poeti operai

    (11 Agosto 2021)

    Un’antologia dei migliori versi scritti dalla nuova generazione dei poeti di fabbrica

    la nostra classe sepolta

    Nel maggio 2008 curai, per conto della casa editrice Nicola Teti di Milano, un numero monografico (n. 730) della storica rivista «Il Calendario del Popolo» dedicato ai Poeti operai. Mutuai questa definizione da Pier Paolo Pasolini, che l’aveva coniata su quella già nota di preti operai, per indicare quel movimento di lavoratori, che, a partire dalla metà degli anni Sessanta del secolo scorso, prima individualmente, poi in forme organizzate, avevano cominciato a scrivere e a divulgare, prima su fogli volanti distribuiti davanti alle aziende e poi in volumi stampati da case editrici alternative, loro poesie incentrate sulla realtà drammatica della fabbrica. Pasolini indicava come elemento caratterizzante di questo vero e proprio filone letterario in fieri il fatto che solo l’operaio che ci vive dentro può rappresentare fino in fondo il mondo della fabbrica, nella sua dimensione certamente alienante, ma, nello stesso tempo, grazie alla sua coscienza di classe, alla sua cultura alternativa in via di formazione avanzata, egli può trarne ispirazione per una nuova letteratura di classe che sia anticipazione della «letteratura popolare artistica» di cui parla Gramsci nei Quaderni del carcere, come strumento fondamentale per quella «riforma intellettuale e morale» del Paese che è necessaria per l’acquisizione dell’«egemonia culturale» da parte della classe operaia e per il cambiamento radicale della società in senso socialista.
    La poesia operaia della seconda metà degli anni Sessanta, degli anni Settanta e degli anni Ottanta, è stata, per l’appunto, strumento privilegiato di lotta politica, per il cambiamento dei rapporti di forza all’interno delle fabbriche e nell’ambito della più ampia realtà costituita dalla società italiana. Mi limito qui a richiamare i nomi dei principali poeti operai che si sono cimentati in questa impresa: Ferruccio Brugnaro, Franco Cardinale, Sandro Sardella, Francesco Currà, Tommaso di Ciaula, Giuliano Bugani (quest’ultimo già appartenente ad una generazione successiva e trait d’union con i poeti operai che verranno).
    La poesia operaia sembrava a questo punto finita, in conseguenza dei notevoli mutamenti subiti dal sistema industriale italiano, in armonia con quello capitalistico occidentale nel suo complesso. Ma, all’improvviso, è riemersa come un fiume carsico. Negli anni Novanta, così gravidi di cambiamenti strutturali e, insieme, culturali, era covata sotto la cenere una nuova generazione di poeti operai, con caratteristiche diverse rispetto alla precedente, che, a cavallo tra il secondo e il terzo millennio, ha mostrato di possedere proprie linee di poetica, le quali meritano di essere approfondite. Alcune riflessioni sono possibili grazie al primo, significativo censimento realizzato in un’antologia curata da Valeria Raimondi: La nostra classe sepolta. Cronache poetiche dai mondi del lavoro (Edizioni Pietre Vive, Locorotondo, 2016). Già negli anni Ottanta (quelli del craxismo, per intenderci) il sistema industriale fordista e taylorista, fondato su imprese di grandi dimensioni, con migliaia di operai, cominciava ad essere sostituito dalla cosiddetta «fabbrica diffusa», da imprese di piccole (e medie) dimensioni, in cui venivano spezzettati (lo «spezzatino», si disse allora) i grandi opifici, in modo tale che la possibilità di organizzazione e di lotta sindacale divenisse più difficile e si potessero attaccare meglio i diritti conquistati nel corso di lotte plurisecolari. Il primo ad essere attaccato fu lo Statuto dei lavoratori, le cui garanzie venivano considerate inattuali e in contrasto con le nuove regole della concorrenza internazionale, assieme alla «scala mobile», ai sistemi automatici di adeguamento dei salari (e degli stipendi) all’aumento del costo della vita, in nome della «flessibilità» del lavoro. E’ stato tutto un crescendo, nel corso degli anni, che ha conosciuto una serie di tappe «obbligate», fissate da chi deteneva e detiene effettivamente il potere, vale a dire i potentati economico-finanziari internazionali, in un mondo sempre più «globalizzato», precarizzato, sfruttato, vilipeso, umiliato. Così Eliana Como, sindacalista Fiom di Bergamo, ben riassume la situazione attuale del mondo del lavoro in una nota introduttiva all’antologia di nuovi poeti operai sopra citata: «La conclusione è che nelle fabbriche, anche in quelle 4.0, la catena di montaggio non è tanto meglio di quella degli anni ’70, nei centri commerciali le cassiere non hanno il tempo di andare al bagno, nei poli della logistica i migranti sono trattati come carne da macello e torna il cottimo tra i riders di Deliveroo. Per non parlare dello schiavismo dei campi di raccolta dell’agricoltura nel sud del paese, fermi a secoli e secoli addietro. Può consolarsi chi negli anni ’90 lamentava i privilegi dei padri contro le aspettative dei figli. Oggi siamo tutte e tutti precari, senza articolo 18 né posto fisso, nemmeno nel settore pubblico. E di privilegi nemmeno l’ombra. E’ sparito il Lavoro. E’ rimasto lo sfruttamento. E la classe operaia è ancora lì, dove è sempre stata. Solo che ha più paura, è più sola e più ricattata. Ha in mano un contratto che vale meno di niente o peggio, una partita Iva. Non ha alcuna garanzia per il futuro e spesso si chiede perché lavora visto che non è nemmeno pagata».
    In correlazione con questi mutamenti strutturali dell’industria e della società italiana cambiano i connotati dei poeti operai. Tra di essi troviamo non solo operai di fabbrica di nazionalità italiana, ma anche migranti, che svolgono funzioni «flessibili» nel complesso ed articolato sistema industriale, oppure vengono assunti come braccianti a lavorare nei campi con salari da fame, figure di lavoratori dai contorni sfumati che coprono nuove mansioni richieste dal variegato mercato del lavoro (riders, personale impiegato nell’immagazzinamento di merci, nel settore della logistica, ecc.), commessi di supermercati, impiegati nel settore pubblico e privato che rappresentano un nuovo proletariato dominato dalla precarietà (insegnanti o impiegati dei servizi a tempo determinato, ecc.), laureati e specializzati anche in discipline molto settoriali che non beneficiano del riconoscimento del relativo trattamento economico. La definizione coniata negli anni Sessanta da Pasolini conserva nel complesso la sua validità, ma dev’essere precisata ed approfondita, specie nella parte finale. Poeta operaio è colui che vive l’alienazione prodotta dal mondo del lavoro, che sa descriverla meglio di ogni altro, ma che, in mancanza di un quadro generale di lotte e di organizzazione politico-sindacale, non riesce a tradurla in comportamenti concreti volti a realizzare un cambiamento radicale della società in senso socialista. Assistiamo al manifestarsi di una “poesia del dolore” che non trova sbocchi rivoluzionari. Cesare Luporini, nella sua ultima fase filosofica, ha avuto il merito di rilevare come il Leopardi abbia sottolineato nello Zibaldone il ruolo fondamentale ricoperto dalla «malinconia» nel processo conoscitivo dell’uomo, di gran lunga maggiore rispetto a quello dell’«allegria» («Vero è purtroppo che astrattamente parlando, l’amica della verità, la luce per discoprirla, la meno soggetta ad errare è la malinconia […]; e il vero filosofo nello stato di allegria non può far altro che persuadersi, non che il vero sia bello o buono, ma che il male cioè il vero si debba dimenticare, e consolarsene»), rifiutando l’ottimismo, insieme liberale e cattolico, delle «magnifiche sorti e progressive». La stessa «malinconia» con profondi connotati conoscitivi riscontriamo oggi nei poeti operai della nuova generazione, che traggono spunto dalle loro condizioni drammatiche di lavoro per denunciare la società capitalistica attuale, con i suoi caratteri fortemente disumananti, anche se non riescono ad individuare un’alternativa concreta. Ed è stato lo stesso Leopardi, specie quello dell’ultima fase, ad insegnarci che il male, quando non può essere vinto, dev’essere comunque denunciato. I poeti operai della nuova generazione hanno dato vita, per l’appunto, ad una poesia del «vero», che, rifiutando la logica del «progresso infinito», denuncia quello che, in ultima analisi, possiamo definire «sviluppo senza progresso», se è vero, com’è vero, che progresso significa emancipazione economica e, insieme, umana dell’uomo.
    Questo fenomeno dei nuovi poeti operai è da seguire nei suoi sviluppi sia letterari che ideologici ed «assiologici», per individuare le linee di poetica che man mano vanno concretizzandosi e precisandosi. Ci proponiamo ulteriori studi. Intanto, alcune figure emergono già dal gruppo abbastanza nutrito, che presenta, nel complesso, una significativa rilevanza artistica. Mi riferisco, in primo luogo, a Fabio Franzin, nato a Milano nel 1963, ma residente in provincia di Treviso, autore di diverse raccolte di versi: Fabrica (Atelier, Borgomanero, 2009); Co’e man monche (Le voci della luna, Milano, 2011); Fabrica e altre poesie (Landolfi editore, Borgomanero, 2013); Corpo dea realtà (Punto a capo, Pasturana, 2019); ‘A fabrica ribandonàdha (Arcipelago itaca, Osimo, 2021). Operaio di fabbrica, scrive versi nel dialetto trevisano parlato nell’area geografica e culturale compresa tra Oderzo e Motta di Livenza, dove egli vive. Già la scelta del dialetto è significativa. Si tratta non del dialetto come «koiné» regionale, ma del dialetto della «piccola patria», che lo stesso scrittore definisce «pastoso e terragno, dalle ampie legature vocali», vergine di ogni tradizione letteraria, se si eccettua l’esempio di Romano Pascutto.
    Giuseppe Petronio ha evidenziato la sovrabbondanza di poesia dialettale nel Novecento italiano rispetto ai secoli precedenti. Ma è il caso di precisare, lungo la scia critica di Franco Brevini, che si è trattato di un’ “illusione ottica”, perché buona parte delle poesie scritte in dialetto (comprese quelle di Virgilio Giotti e di Biagio Marin e, aggiungiamo noi, quelle di Franco Loi) avrebbero potuto essere composte benissimo in italiano. Per converso, le poesie di Fabio Franzin potevano essere scritte esclusivamente in dialetto, perché sono strettamente legate, come polpa al nocciolo, alla realtà del Nord Est industriale tanto esaltata nei decenni passati e ora rivelatasi in tutta la sua drammaticità, in tutta la sua dimensione apocalittica, con gli infortuni sul lavoro, gli «omicidi bianchi», le malattie «professionali» che conducono alla tomba i lavoratori, i drammi della follia, come sbocco del processo di «alienazione» (termine, quest’ultimo, che deriva dal latino alium, vale a dire «divenire altro da sé», «smarrire la propria identità», la propria «personalità» ed «individualità»), la disoccupazione, la sottoccupazione, l’emarginazione sociale, che innesca un’altra spirale di «alienazione». Si noti, inoltre, che i poeti, nei secoli, quando hanno voluto protestare, lo hanno fatto spesso in dialetto: si pensi al Belli, al Porta, al Tessa. Il dialetto diventa, dunque, strumento privilegiato di denuncia, con quelle venature di «malinconia» leopardiana che abbiamo evidenziato che dettano il ritmo poetico e il battito del cuore. Ci sentiamo di affermare che Fabio Franzin è il più autorevole poeta dialettale attualmente vivente in Italia e non è casuale che venga dalle file della poesia operaia, perché questo dimostra com’essa sia una delle manifestazioni più vitali e dinamiche della produzione letteraria contemporanea.
    In secondo luogo, si segnala per la sua originalità Matteo Rusconi, nato a Lodi nel 1979, operaio metalmeccanico. In lui la «malinconia» leopardiana si fa antagonismo di classe, sotto la cifra dell’ironia dolce-amara. Per lui la fabbrica è come la trincea d’Ungaretti (per riprendere un’immagine felice usata da Andrea Zanzotto per un poeta operaio della prima generazione, Ferruccio Brugnaro), che mutila e uccide. L’operaio si difende come può, al pari di un soldato in trincea e, se muore, rimane vittima anonima di una guerra non dichiarata, al pari di un milite ignoto: «Varcata la cancellata / siamo legionari che si conquistano il pane. / Le antinfortunistiche sono scudo / la chiave a frugola è gladio / la lima a denti grossi il pugnale dell’affondo. / Le nostre vite restano fuori / come cani fedeli / come l’amante che aspetta il suo turno. / Passiamo alla storia / con il nome inghiottito dall’azienda». Con ironia sottile, ma penetrante, Rusconi rivendica il proprio ruolo di poeta operaio (anzi Poeta), all’interno e fuori della fabbrica, contro il diktat padronale di non perdere tempo con i versi e di consacrarsi interamente alla produzione, scambiando «il volto di Dio con quello del padrone». La sua migliore produzione poetica converge ora nel volume Trucioli (Aut Aut Edizioni, Palermo).

    Antonio Catalfamo

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