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L’orgoglio talebano fra rassegnazione e paura

(15 Agosto 2021)

taliban taliban

Fra le immagini festanti dei barbuti con giberna pronti a sorridere a ragazzini ignari e incuriositi e le foto impostate, scattate dentro il Palazzo presidenziale per un’intervista concessa ad Al Jazeera, proprio lì dove fino a una manciata d’ore prima si pavoneggiava Ghani sperando in una clemenza mai arrivata, c’è il realismo della Storia. Che preannuncia gli eventi anche a chi non vuole vederli, a chi spera di poter continuare a falsare e barare. Ghani era uno di questi e la pellaccia, per ora, l’ha messa al sicuro, ma la gente d’Afghanistan d’ogni sponda vaga sbandata. Coloro che sanno di rischiare per aver collaborato con l’Occidente in smobilitazione. Coloro che non hanno motivi di rischio, ma non si sa mai, poiché essere giornalista, fotografo, interprete soprattutto se non disposto a fare il servitore d’ogni vincitore è un ruolo d’ostica accettazione. Gli artisti, che non saranno molti, ma fra l’ultima generazione sono aumentati e che potrebbero non essere graditi al Gotha talebano. E figurarsi il genere femminile in toto, e le cooperanti locali che si relazionano a quelle d’altri Paesi, le attiviste dei diritti, quelle come Malalai Joya bollate di ‘comunismo’ dai fondamentalisti della Loya Jirga di Karzai non dai talebani. Tutti, tutte queste persone che futuro avranno? I turbanti, che all’esordio davanti alle telecamere, nella Kabul città aperta al proprio orgoglio di vincitori, si mostrano concilianti, disponibili ad amnistiare, a dimenticare pur di comandare, vorranno dettar legge secondo i mai negati princìpi della Shari’a. Tutto ciò destabilizza chi vorrebbe prendere un aereo e non potrà farlo, forse anche chi, come le attiviste Rawa, che con guerre e i suoi Signori, con le occupazione si rapportano dagli anni Settanta, hanno giurato a se stesse di vivere in quelle valli. E i molto più numerosi orientati verso confini per il momento chiusi o ancora più lontano, dove si sono rifugiati parenti e amici, che potrebbero raggiungerli solo disponendo di cospicuo denaro. Ma le cronache dicono che da due giorni le carte elettroniche sono fuori uso, non si ritira più denaro e le due maggiori banche paiono prosciugate.

Così le partenze, singole o di gruppo, diventano quasi impossibili, anche per questo serviranno aiuti umanitari. Ma se dovessero giungere nuovi sostegni, dopo il denaro scivolato a fiumi per due decenni, finendo sui conti e nelle tasche dei potentati volati via e di quelli che restano cercando aggiustamenti coi governanti nuovi, chi disporrà cosa? E’ presto per rispondere. Eppure queste incertezze hanno sedimentato a lungo, incistate in quel tempo dilatato dove troppi hanno tirato a campare, pur indegnamente. E non parliamo della gente lasciata in miseria, abbandonata a un destino sorretto solo dal cuore di progetti, magari piccoli ma visibili, come gli ospedali di Emergency e Médecins sans Frontières, le scuole di Afceco, i rifugi per donne di Hawca. Parliamo dei trecentomila finiti a vestire la divisa dell’esercito perché la famiglia potesse mangiare. Dei contadini pronti a coltivare il papavero da oppio per il medesimo motivo, di chi poteva spacciare solo carbone e miseri stracci per via, di chi strappava un salario al servizio delle bande presenti nei governi voluti dall’Occidente. In un sedicente Stato fallito, dove ciascuno arrangiava l’esistenza chiudendo gli occhi coinvolto nella corruzione, da spettatore o da attore. Per una sopravvivenza strascinata senza dignità, seguendo il modello che doveva rappresentare l’alternativa al fondamentalismo talebano del quinquennio 1996-2001. Tutto ciò ha rappresentato finzione e ignavia. Al più un sogno, che mese dopo mese, da almeno un decennio aveva il sapore del bluff. Poggiano su questo lo straniamento, la paura, il non senso d’una vita senza valori, dove solo i più illuminati, anzi le più visionarie e coraggiose, le donne delle Ong incontrate in certe situazioni complicate, hanno indicato concretamente una via alternativa. Non eserciti preconfezionati e liquefatti, anche perché tenuti a mezzo servizio fra padrini e tutori, non pianificazioni che non hanno seguito, ma la ricerca d’una comunità improntata sul senso di giustizia sociale può offrire fiducia a un popolo rassegnato e impaurito.

articolo pubblicato su enricocampofreda.blogspot.com

Enrico Campofreda

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