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(17 Febbraio 2011) Enzo Apicella

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VELSO MUCCI: “C’E’ ANCORA MOLTO SULLA TERRA”

Una nuova antologia del grande poeta quasi dimenticato

(21 Settembre 2021)

Un intellettuale e uno scrittore che si è collocato lungo l’asse culturale che da Leopardi porta a Gramsci

libro velso mucci

Velso Mucci è un intellettuale e uno scrittore dimenticato. Le ragioni dell’oblio vanno ricercate nel contrasto tra la sua ideologia, fondata su una concezione generale del mondo, sostanzialmente materialistica, e il “metodologismo” post-modernista, strutturalista e post-strutturalista, oggi imperante, che nega che si possa conoscere la realtà nel suo complesso, riproponendo il “frammentismo” nicciano e un’ “angelologia” (per dirla con Romano Luperini) di stampo medievale, ripresentata in vesti “rinnovate” nei secoli, che rappresenta un uomo col capo eternamente rivolto verso il cielo alla ricerca di verità e soluzioni che vengano da qualche “nume”.
Velso Mucci si è mosso culturalmente lungo l’asse che da Leopardi porta a Gramsci. Al Recanatese ha attribuito il merito di aver segnato finalmente uno stacco dal Medioevo, dal mondo limitato di false certezze su cui era imperniato, scoprendo e valorizzando il «vuoto», che, però, non è fine a se stesso, nell’ambito di una visione nichilista, ma destinato ad essere riempito. Nel dialogo intitolato significativamente Copernico, contenuto nelle Operette morali, Leopardi sostiene che lo scienziato polacco, togliendo centralità all’uomo nell’universo, da un lato, lo «abbassa», dall’altro lo «sublima». La condanna dell’uomo e dei suoi vizi naturali e storici ha lo scopo di una ricostruzione dal basso, in termini di valori nuovi, di un’etica nuova, della conquista di un nuovo ruolo da protagonista nella storia sulla base di queste nuove acquisizioni.
Velso Mucci non ha, dunque, un visione dogmatica della realtà, non fa un’applicazione meccanicistica, deterministica del materialismo storico e dialettico. E in ciò si richiama a Gramsci, al quale attribuisce il merito di “avere praticato il metodo dialettico con ritmo logico e razionale”. Egli scrive: “Se la dialettica non degenera in sofistica, né in mistica, è perché Gramsci ha presenti sempre, nel movimento, i concetti che si muovono”. E ancora: “Gramsci percorre la strada lenta, assolata, noiosa dello sviluppo materiale umano; e non prende per ‘buono’ ogni mezzo per il fine, perché non ha un fine ideale allestito e drastico, ma soltanto una condizione ereditata da svolgere pazientemente, coerentemente”. E conclude: “E quanto a non confondere il mezzo per il fine, a non fare del mezzo un tecnico e astratto fine a sé stesso (che è l’ideale dell’intellettualismo politico dilettante), lo soccorre proprio quel senso del reale di cui s’è parlato, lo regge il fiato del suo intelletto per cui ogni momento razionale dell’azione è concreto, è fisico, mai cervellotico né meccanico, e la storia è sentita e combattuta da un cuore che non si rende ad alcuna discrezione mistificata”.
Velso Mucci è, dunque, lontano sia dalle false certezze, d’origine medievale, che derivano da una visione dogmatica del mondo, sia dal nichilismo deteriore, che traduce il pessimismo totale sull’uomo in una logica nullificante se non distruttiva. Sostiene che la struttura economica condiziona inevitabilmente il poeta, il quale, perciò, è “una materia vivente, in continua capacità formativa”. La sua personalità e la sua sensibilità si arricchiscono continuamente di nuovi impulsi vitali, che vengono dai mutamenti della stessa struttura economica e sociale, che non viene colta, quindi, nella sua staticità, ma anche dall’interno dell’ “io” poetico. Egli non è un “retore” da “sovrastruttura cantata”, ma un essere umano, che registra la realtà attraverso la sua razionalità, ma anche attraverso le componenti volontaristiche del suo essere. E’ elemento “condizionante” e “condizionato” nell’ambito dei rapporti “uomo-se stesso”, “uomo-società”, “uomo-natura”, vale a dire nell’ambito del sistema di relazioni su cui si fonda l’universo. Mucci è, dunque, erede della visione gramsciana del materialismo, che rifugge da ogni dogmatismo e meccanicismo e coglie il rapporto dialettico, di reciproca influenza, che esiste fra “struttura” e “sovrastruttura”, tra l’individuo e il mondo che lo circonda, in tutte le sue componenti: umane, animali, vegetali. Il poeta “propone e ripropone ‘allo stato vivente’ un pezzo di vita umana”, e, quindi, proprio perché partecipa di questa vitalità, la sua poesia è “portatrice di germi, suggerimenti e sollecitazioni” sempre nuovi e, come tale, contribuisce “alla formazione di un nuovo complesso sentimentale, morale e ideologico, a una ‘riforma delle coscienze’, capace di fare accelerare il moto della storia e le trasformazioni delle strutture economiche e sociali nel senso delle leggi oggettive che le regolano”. Perciò, la poesia di Velso Mucci, nonostante l’oblio imposto dalla critica “ufficiale”, è sempre attuale, in quanto partecipe della vitalità del reale, visto nella sua complessità e dinamicità, nelle sue varie componenti (umane, animali, vegetali), nel rapporto dialettico che esiste tra di esse, analizzato dal poeta con lo strumento limitato, ma, nello stesso tempo, poderoso, della ragione, ma anche attraverso i moti del suo cuore, le sue passioni, le sue spinte volontaristiche, il suo “sogno in avanti” (Ernst Bloch).
Velso Mucci è stato un intellettuale “poliedrico”: poeta e scrittore, fondatore di riviste (“Il Costume politico e letterario”), critico letterario, musicale e d’arte, titolare, assieme al cugino Alessandro Alberti, di una galleria di pittura moderna a Parigi, nel cuore della “temperie” surrealista, dalla quale viene influenzato, ma non assorbito, soprattutto nella ricerca di un linguaggio nuovo, che parte dalla tradizione “rettorica” (per dirla con Natalino Sapegno), per poi “frantumarla” e “ricomporla” “ai fini di un più moderno e funzionale assestamento del discorso poetico”. Esce ora un’antologia dei suoi versi, C’è ancora molto sulla Terra, a cura di Alberto Alberti (cugino di Mucci) e di Nicola Vacca (L’ArgoLibro, Agropoli – Salerno, 2021), che supplisce alla lunga assenza editoriale seguita alla pubblicazione, presso Feltrinelli, nel 1968, della raccolta di tutte le poesie, introdotta proprio da Sapegno e intitolata Carte in tavola. Questa edizione rinnovata conferma l’originalità di Mucci nell’ambito del panorama poetico italiano, derivante dalla sua visione della poesia come “discorso totale” (per riprendere, ancora una volta, una definizione di Sapegno, che rimane il suo critico e interprete più acuto), che coinvolga, seguendo l’impostazione gramsciana, “forma” e “contenuto”, visti nella loro “unità inscindibile”, che parta da un’emozione, da un “primordiale nucleo emotivo”, che sgorga spontaneamente dall’animo del poeta, senza prendere la strada di una rarefazione e di un’astrazione tanto care alla poetica surrealista e (in Italia) ermetica, imboccando, per converso, la via di una poesia razionale, nutrita di pensiero, come quella leopardiana della migliore stagione, che riflette sulla realtà, nella sua dinamicità, aprendo con essa un rapporto dialettico, un confronto serrato, secondo l’impostazione del materialismo gramsciano, “in una sfera di intelligenza storica e di partecipazione polemica”, articolando “una complessità di sentimenti e di meditazioni in senso largo umane e civili”, e dimostrando, in tal modo, la “capacità di trascendere il sussulto lirico iniziale, senza annullarlo, anzi moltiplicandone nello spazio e nel tempo le risonanze e le implicazioni, fino a ricavarne intero tutto il potenziale significato” (è ancora Sapegno a parlare).
Velso Mucci è, dunque, un intellettuale «organico» al Partito comunista italiano, che solca con mezzi di fortuna la sua provincia di Cuneo (ma non solo) per tenere riunioni politiche che sono anche riunioni culturali. Parte da un piccolo spunto, da una piccola emozione, come quella, per l’appunto, del contatto emotivo con il ricco universo umano rappresentato dai compagni che popolano le sezioni, per trarre conclusioni che delineano la sua concezione generale del mondo e della vita, fondamentalmente marxista, in una variante personale e originale, però, che, come gli ha insegnato Gramsci, deriva dalla capacità di saper cogliere i mutamenti continui, gli arricchimenti progressivi che vengono dallo sviluppo dialettico della realtà, vista in tutta la sua complessità, materiale ed ideale. Così il poeta ricorda l’esempio di Gramsci, che dalle aule universitarie si proiettava nella Torino operaia a far lezioni alla classe lavoratrice in pieno fervore di lotte, ch’egli sapeva alimentare con il suo eloquio semplice e, nel contempo, profondo: “Ma tu, Gramsci, recisi / ad uno ad uno i vecchi stami, i vivi / adagio ricucivi; / da queste aule, bruciate / e fradice oggi, andavi / ai comizi sul fiume, ai muri ciechi / delle officine di Borgo San Paolo / dove poca erba cresce intorno ai sassi, / e in Barriera di Nizza fosca e accesa, e di Milano sperduta, e nei campi / silenziosi che cingono / le fabbriche di corso Francia, andavi / nuovo pastore d’uomini. / Dalla città operaia / ricostruivi intiera / cultura e società, / per te l’ ‘onesto e il retto / conversar cittadino / e giustizia e pietade altra radice’ / avean alfin ‘che non superbe fole’ ”.
Non è un caso che le parole citate tra virgolette da Velso Mucci appartengano proprio a Leopardi. In un’altra poesia, prendendo l’abbrivio da una visita alla casa del Recanatese, il Nostro coglie tutta l’importanza della breve vita di Leopardi, che, per dirla col De Sanctis, parlandoci della morte, ci ha fatto amare la vita.
Questa nuova antologia dà ampio risalto, oltre al suo impegno, ineliminabile, a momenti di raccoglimento del poeta, ai suoi affetti più intimi e familiari, a riflessioni profonde e sofferte intorno al tema della morte, specie quando essa riguarda i congiunti: la madre, il padre, la moglie Dora. Il passato rivive in queste pagine tristi, ma, nel contempo, proiettate verso il futuro, che affonda le sue radici nelle esperienze di vita vissute, trae insegnamento da esse. In una poesia dedicata alla morte del padre, egli scrive: “ E le stagioni mi passano intorno, / emigrando alle stanze di quel poco / mio tempo; / e ormai l’età per altra terra / riandando, io sento che quieta al mio giorno / la vecchiaia sarà per me una serra / di giovani anni e le lacrime un giuoco”. Il poeta ricorre ad un ossimoro ( “triste bel giorno”) per dire come la vita sia fonte di dolore e, nello stesso tempo, di gioia e come la morte presenti questa stessa ambivalenza, in maniera tale ch’essa sia fuggita e insieme agognata. Leggiamo, infatti, in Commiato dalla morte: “Il desiderio che di te ci prende / nei vuoti urbani di notte che il vento / corre, o per la campagna desolata / e viva di minute cose, è forte / più che l’amore, o morte. // Degli occhi tuoi la frode ormai non vale / il tuo salubre seno. / E allora, se viviamo, è solo un triste / bel giorno, che resiste”. Non a caso è una poesia dedicata a un uomo politico, il socialista Rodolfo Morandi, a darci più chiaramente l’idea che Mucci ha della vita e della morte, come componenti di un esistere cosmico che si pongono in linea di continuità, si stringono la mano, passandosi il testimone, come fa, per l’appunto, Morandi, poco prima di morire, stringendo la mano ai suoi compagni, per trasmettere ad essi il compito di continuare la lotta per il socialismo, lungo la scia ch’egli, assieme a tanti altri, ha segnato con il proprio percorso di vita, travagliato, ma gravido di futuro e di rinnovata vitalità: “Rodolfo Morandi, il giorno / che si vide all’estremo, / strinse la mano a tutti / che gli stavano intorno. // Altri scriverà poesie / che daranno a sapere di Lui / più cose, / io dico soltanto che il giorno / che si vide morire / strinse la mano a tutti / che gli stavano intorno. // Voglio dire / che è stata una tristezza a lui nota: / la tristezza di chi entra nel carcere / e saluta i compagni / per l’ultima volta. // Ma lì sulla soglia, / a dire che non c’è altro, / che non c’è altro da fare / che continuare la strada fatta con lui, / ha voluto ancora una volta / stringer la mano / di chi resta in cammino”.

Antonio Catalfamo

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